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RECENSIONI

GUERRI-MAGLI

GIORDANO BRUNO GUERRI, POVERA SANTA, POVERO ASSASSINO – MONDADORI,
MILANO 1993

IDA MAGLI, SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA – GUANDA, MILANO 1993

Meritano un’unica riflessione due libri usciti quest’anno, uno prima dell’estate, l’altro poche settimane fa. Libri di diversa mole, diverso impianto formale e concettuale, diverso autore: Giordano Bruno Guerri, storico-polemista-studioso del costume, ha ripubblicato una sua ricerca sulla santità di Maria Goretti che aveva fatto scandalo otto anni fa; Ida Magli, docente universitaria-giornalista-antropologa (quindi dotata del riconosciuto diritto a esprimersi con indiscutibile competenza su tutto: uomo donna sesso scienza religione, e chi più ne ha più ne metta) ha rielaborato alcune sue recenti prese di posizione sulla violenza perpetrata sulle donne dal pensiero cattolico. Questi due volumi hanno il comune denominatore di parlare di donne (e pertanto di sesso: i due termini sono ormai diventati su qualsiasi pulpito un’endiadi indissolubile), ma mirando soprattutto a colpire la coercizione culturale, la violenza sociale, lo sfruttamento ideologico messo in atto dalla gerarchia ecclesiastica nei riguardi del mondo femminile. Giordano Bruno Guerri ha condotto un’operazione a nostro parere legittima già nella sua contestatissima edizione dell’85, compiendo ricerche, effettuando rilievi, dibattendo teorie riguardo alla morte e alla successiva santificazione di Maria Goretti. Il suo era, allora come ora, un libro a tesi, intento a dimostrare che «esibita come martire della purezza, fu invece martire della miseria e dell’ignoranza, come il suo assassino. Perché Maria non ha mai contato, non ha mai voluto o potuto, in vita e in morte, prodotto e vittima di sistemi a lei misteriosi». Opinabile, se si vuole, tuttavia legittimamente perseguita e dimostrata: per contrastare le tesi di Guerri, Giovanni Paolo II istituì una Commissione di studio che riscontrò nella narrazione ben 79 errori di documentazione o falsificazioni. A tale analisi ora Guerri risponde ripubblicando il libro senza alcuna variazione, ma aggiungendo alla fine un capitoletto in cui si difende da ogni confutazione degli esperti, e così compiendo un’operazione editoriale scaltra e meditata, perché il suo lavoro, anche se può infastidire per quel tanto di pruriginoso che si avverte tra le righe, è comunque un buono scoop giornalistico, vivace e coinvolgente.
Ben altra è la portata del libro di Ida Magli, che si presenta, già dalla lettera aperta di prefazione, più violento, duro, ideologicamente motivato e armato del pamphlet di Guerri. Anche lo stile è diverso: asseverativo, perentorio, aggressivo, molto molto più “virile” di quello, addirittura impositivo. L’obiettivo dichiarato è, anche qui, la difesa della donna, anzi delle donne come soggetti storici: in realtà il sesso femminile è un pretesto, che appare solo nella seconda parte del volume, per un attacco feroce e mirato al pontificato di Wojtyla. Ida Magli discute, contesta, affronta polemicamente, con le armi della dottrina e dell’ideologia, ma soprattutto con quelle più caustiche e inusuali (visto l’oggetto della polemica) del sarcasmo, dello sfottò cattivo, il Papa polacco, criticato non solo nel suo ruolo e nel suo carisma, ma anche come figura umana («Wojtyla è un vincente… un uomo autoritario che non ammette il minimo dissenso… un uomo terribile, un capo assoluto, totalitario…»). Il Papa è inchiodato a un cliché vignettistico, in cui i tratti che più lo delineano sono la potenza, la virilità, il delirio di onnipotenza, la “polonità” come destino di sacrificio, sofferenza ed eroismo, che secondo la Magli lo avvicina nello spirito a Chopin: questi genio, Wojtyla eroe di una stessa idea mitica della Polonia. La studiosa in queste pagine animate da una ferocia spropositata, di cui forse solo lei capirà le motivazioni più profonde, arriva a scrivere banalità sconcertanti per convalidare delle affermazioni su cui siamo tutti d’accordo: che la Chiesa cattolica sia malata di misoginia (ma non più di tutte le altre religioni mondiali), che la donna sia tuttora ridotta alla sua funzione biologica, e valutata in base all’uso che fa del suo sesso (e purtroppo non solo dalla Chiesa, ma anche dallo Stato, dalla società civile laica e rampante, ecc.), che la corporeità sia erroneamente e ossessivamente appiattita nella funzione copulatoria…Si tratta di considerazioni talmente vere e risapute, che non si capisce perché la Magli ci si accanisca con tanto fervore. Sulla posizione contestata e difficilmente condivisibile di Wojtyla riguardo agli stupri delle donne bosniache, abbiamo letto pagine sottili e più convincenti nella loro correttezza, di quanto non siano i parossismi della Magli. Giustamente l’autrice dedica la prima parte del libro a una dotta dissertazione sul potere che, da sempre, trova la sua giustificazione e la sua radice nel sacro (inteso come codificazione del controllo, dell’autorità, espresso «con norme coercitive e sacrificali»): ma tale non è solo il potere religioso, quanto tutti i poteri, politici, economici, militari e, perché no, della cultura accademica o giornalistica, quando si paluda di sacro per mantenersi inaccessibile, incontestabile… Non solo la Chiesa, quindi, non solo Wojtyla usano il sacro – e il potere – contro le donne. Baudelaire, immaginoso, rivoluzionario, grande poeta dell’800, scriveva in  Mon coeur mis a nu  questa stupidissima frase: «Mi sono sempre stupito che si permettesse alle donne di entrare nelle chiese. Che conversazione possono mai avere con Dio?» Ridiamo di questa idiozia di uno spirito sublime, e leggiamoci le conversazioni con Dio di un’altra grande, Simone Weil, donna, ebrea, quasi convertita al cattolicesimo. Baudelaire ha scritto ancora: «I miscredenti se non temessero nulla, riderebbero. Se si arrabbiano, è perché temono». Ida Magli è troppo arrabbiata.

«L’Arena», 9 dicembre 1993

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PENTICH

GRAZIANA PENTICH, I COLORI DI UNA STORIA – SCHEIWILLER, MILANO 1993

Si è tenuta a Pavia, nella Sala dell’Annunciata, la mostra “I colori della storia: Alfonso Gatto, poesia e pittura”, curata sapientemente da Anna Modena. L’esposizione ha offerto al pubblico immagini e documenti messi a disposizione dalla compagna del poeta campano, Graziana Pentich. La mostra, e l’elegante volume edito da Vanni Scheiwiller, che ne è spunto, catalogo e sintesi, narrano tredici anni di una vita e di un amore che si intuiscono lacerati e regali, addirittura oltraggiosi nella loro ricerca dell’assoluto. Come tanti, si dirà. Certo, ma questa storia ha qualcosa di più tragico e necessario insieme, che brevi cenni biografici basteranno a illuminare. Alfonso Gatto e Graziana Pentich si incontrano nel dopoguerra, lei pittrice triestina, lui già noto e inquieto poeta dai vasti orizzonti: passano insieme vent’anni, «sempre in piedi sul ciglio di un abisso, ma col coraggio noncurante e divertito degli equilibristi». Hanno un figlio, Leone, «bello e prodigioso, forte e cattivo, delicato, come è la vita, come deve essere». Gatto muore in un incidente stradale nel ’76, il figlio si uccide tre mesi dopo. Per dieci anni, Graziana Pentich si vieta anche solo il recupero mentale di un passato irripetibile e miracoloso, rifiutando ostinatamente la consolazione della memoria. Ma poi le si impone l’esigenza di un risucchio dal nulla e di una comunicazione illuminante agli altri della sua esperienza: «I buoni, i cari gesti della vita resistevano intatti in quegli sparsi disegni e dipinti ritrovati: ogni figura rimossa dal buio e dal disordine alla luce chiamava a sé altre figure, moltiplicava i gesti, le voci, i passi perduti…».

Il volume si apre con lo schizzo di alcuni nomi preparati per il bambino che sta per nascere. Tra essi campeggia, perentorio nel suo stampatello, quello poi effettivamente scelto di Leone, «un nome che avrebbe arricchito di felinità il cognome Gatto». Dopo 280 pagine, il libro si chiude su un ritratto della madre fatto dal figlio dodicenne. In mezzo, riproduzioni di circa trecento disegni, acquerelli, ritratti, poesie, lettere, che stordiscono il lettore quasi con una continua febbre, lo emozionano come la rivelazione di un incanto che si sa destinato a spezzarsi. L’artista che ricompone e cuce gli strappi, che tenta di raggiungere nell’appagamento dei colori un lembo di serenità è lei, Graziana Pentich; e i suoi dipinti sono densi, pieni, sicuri di un bene che si conosce sicuro: orgogliosi della bellezza del figlio, carichi di stupore verso le cose e i colori della vita. Poi ci sono i disegni di Leone, questo ragazzino sorprendente che a otto anni era in grado di raccontare suo padre intero con pochi tratti di matita (Babbo col basco), e di scrivere dediche come questa: «Caro babbo, auguri al tuo quarantottesimo anno di vita, di scrittore e poeta. Il mese quando tu sei nato è caldo come sei tu quando ti arrabbi. Il mese di luglio è bello quanto te babbo perché ha i fiori rossi gialli blu, i vestiti gai dei bambini».

Un bambino che sembrerebbe dover sparire tra un padre e una madre talmente e prepotentemente intensi, e che invece si staglia nitido e imperioso come il suo nome, nobile anche nelle sue impazienze, nei capricci. Infine, il pennello di Alfonso Gatto, che dipinge smanioso e stralunato paesaggi liguri e lacustri, facce tormentate e chiosate con ironia (Graziana che cerca di imitare Alfonso): dipinge quasi per voglia di possesso, per pura brama di vita: «L’irresistibile attrazione che la vista in casa di tavolozze, colori e pennelli esercitava da sempre sul poeta si era addirittura concretata in un suo tacito diritto a impossessarsi di quegli strumenti di lavoro, che in verità appartenevano alla sua compagna. Lei, anche se a malincuore per via dei sicuri strapazzi cui andavano incontro i suoi gelosi, e costosi, materiali per dipingere, lasciava fare un po’ complice, un po’ stregata da quei rapinosi estri del poeta. E finì per considerare questo strano caso, che il più gran gusto di lui doveva essere proprio in quel gioioso, fanciullesco saccheggio dei suoi beni».

La visione di queste immagini, la lettura di questi brani è uno squarcio nella esistenza di questi tre personaggi forti, che sembrano spiarsi in ogni piega dell’anima, che in qualche modo si cibano misticamente di se stessi, sbranandosi per troppo amore.

 

«L’Arena», 2 dicembre 1993

 

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EGAN

JENNIFER EGAN, SCATOLA NERA – MINIMUM FAX, ROMA 2013

Cosa non si fa, ormai, per attirare l’attenzione dei lettori: o per mantenerla, magari dopo aver scritto un romanzo di successo, ed essere alle prese con l’impegnativa necessità di un bis… E’ il caso di questo smilzo libriccino di Jennifer Egan, pubblicato dopo il Pulitzer vinto con Il tempo è un bastardo. Smilzo e faticoso, a dispetto delle intenzioni: sì perché questa originale spy story è scritta secondo i dettami di Twitter, sotto forma di brevissime indicazioni fornite da fantomatici servizi segreti americani a un’ altrettanto fantomatica spia in gonnella, addestrata per incastrare un criminale ricercato a livello internazionale, e blindato in una lussuosissima villa-fortezza costruita su una misteriosa isola del Mediterraneo. La bellezza in questione (fornita di microcamera mascherata nell’occhio sinistro, di un microfono «oltre la prima curva del canale uditivo destro» e di un chip impiantato sotto l’attaccatura dei capelli), ha l’incarico di sedurre il boss miliardario per carpirgli non si sa bene quali fondamentali informazioni strategiche: e lo fa con tattiche muliebri piuttosto scontate. Sinuose nuotate in mare, atteggiamenti provocanti, dialoghi superficiali («Talvolta una risatina è meglio di una risposta»), fino all’agognato congiungimento sessuale, durante il quale la protagonista è invitata dall’agenzia spionistica ad avviare una «tecnica dissociativa» che la preservi da un eccessivo coinvolgimento. Essendo queste formulazioni narrative limitate a non più di 140 caratteri, ovviamente ogni descrizione risulta di una banalità sconcertante («Un cielo azzurro è insondabile come il mare»; «Bisognerebbe sempre lavarsi i denti, prima di cena»; «L’obiettivo è essere una sorpresa continua, leggiadra e innocua»); le vicende abbozzate; i personaggi privi di qualsiasi spessore; il plot inesistente. L’unico giallo per il lettore è dove trovare «il ritmo e la suspense dei migliori film d’azione», come promette il risvolto di copertina.

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014

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DICKINSON

EMILY DICKINSON, UN VULCANO SILENZIOSO, LA VITA – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere di Emily Dickinson, tradotte e commentate con intelligente e delicata empatia da Marco Federici Solari. L’antologia è divisa in tre parti: la prima raccoglie brani epistolari degli anni giovanili della poetessa – vissuti con un’intensità quasi viscerale di affetti per l’amica del cuore Susan, per i fratelli e i cugini, per il mondo vegetale e animale -, che smentiscono decisamente il clichè tramandatoci da tanta critica di una Emily solitaria e scontrosa, sottolineando invece il suo ironico anticonformismo e la sua indipendenza dalle tradizioni borghesi e puritane dell’ ambiente in cui visse. La seconda sezione riporta tre coinvolgenti missive rivolte a un misterioso Maestro, sulla cui identità mai si è riusciti a fare definitiva chiarezza: scritte dalla poetessa trentenne, evidenziano toni appassionati e talvolta addirittura deliranti, in una sorta di estasi misticheggiante dai tratti quasi masochistici: «Maestro – spalancami la tua vita, e accoglimi per sempre, non ne sarò mai stanca – non farò rumore quando tu vorrai il silenzio. Sarò la tua brava bambina…», raggiungendo la stessa altezza evocativa delle sue poesie migliori. Nella terza sezione sono raccolte testimonianze della ‘improbabile’ ma lacerante passione che colse Emily quasi cinquantenne per il giudice Otis Phillips Lord («Austero come il Profilo di un Albero contro un cielo invernale»): lettere animate sia da timide strategie seduttive sia da un erotismo più esplicito e confidenziale. «L’esultanza mi inonda. Non trovo più argine – il ruscello diviene Mare – al pensiero di te», fino alla sconsolata e misteriosa frase conclusiva: «Ti perdono».

«Leggere Donna» n. 163, aprile 2014

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ABIGNENTE

ELISABETTA ABIGNENTE, QUANDO IL TEMPO SI FA LENTO – CAROCCI, ROMA 2014

Un libro sapiente dedicato all’attesa, questo della studiosa Elisabetta Abignente, che esplora il tempo sospeso, il tempo vuoto e lento, che amiamo definire «tempo morto», di chi aspetta. Di chi si trova nella condizione morale e fisica di sostare in presenza di un’assenza. Posizione inattuale, antiproduttiva, quasi sovversiva, in un’epoca che va di corsa, affannata, efficiente come la nostra. Ma anche posizione in qualche modo poetica, perché privilegia la meditazione, l’attenzione introspettiva, la nostalgia. Soprattutto nella forma particolare indagata da questo volume, che è quella dell’attesa amorosa. Non ci sono solamente Penelope sospirosa nell’attesa fedele di Ulisse, o le spose dei cavalieri medievali che pazienti filano all’arcolaio: anche molta letteratura moderna ha costruito suoi topoi descrittivi del «non-ancora». Abignente si sofferma in particolare sulle pagine di Proust, Thomas Mann e García Márquez, che magistralmente ci hanno raccontato «l’attesa nervosa e claustrofobica di Albertine», «la settennale attesa biblica di Giacobbe e Rachele», «l’attesa iperbolica» di Florentino Ariza : e lo fa rintracciando i tratti che caratterizzano i diversi e sofferti modi di affidarsi a un futuro ignoto, e sfruttando le riflessioni di Roland Barthes sul discorso amoroso. Oltre ai tre capitoli dedicati ai succitati giganti della narrativa mondiale, è molto coinvolgente il saggio finale del volume, che affronta il motivo dell’attesa non solo nel suo habitat più consono e abituale, quello del tempo, ma anche in quello meno scontato dello spazio.

«All’origine di ogni attesa d’amore vi è uno spazio: quello della distanza che separa chi attende da chi è atteso…L’assenza della persona amata dalla scena dell’attesa…provoca sentimenti tipici della lontananza, quali la nostalgia e il ricordo ma anche il sospetto, la gelosia, la rabbia». Sentimenti vissuti in genere in luoghi domestici deputati al desiderio, all’angoscia, alla speranza: la camera da letto e la finestra.

«Leggere Donna» n.167 , aprile 2015

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QUINTAVALLA

MARIA PIA QUINTAVALLA,  I COMPIANTI – EFFIGIE, MILANO 2013

Nella postfazione al volume, Bianca Garavelli, elogiando la «voce composita, arcaica e dialettale, caleidoscopica» dell’autrice, ne sottolinea un elemento aggiuntivo ris petto a ciò che caratterizzava esiti precedenti della sua ricerca letteraria: «una dolcezza riflessiva» determinata quasi certamente dall’argomento trattato in questi versi. Il libro infatti è interamente dedicato alla figura del padre della poetessa, Piero Quintavalla, «Caro padre / dal cappello e cappotto infagottato, come un uomo dell’ultima guerra / che fu soldato, maestro povero, / poi deportato; infine fu salvato / e ritornato…». Vita e morte di un uomo molto amato e raccontato nelle tappe fondamentali della sua esistenza, e poi dell’agonia e della morte, in un compianto che mantiene lo stile classicheggiante (decisamente diverso dalle sperimentazioni linguistiche di prove poetiche passate, e scandito spesso in eleganti endecasillabi e novenari) di notissimi Compianti scultorei e pittorici del nostro Rinascimento. Le sette sezioni del volume, corredate da testimonianze scritte dal padre sulla sua esperienza di prigioniero in un lager austriaco e da numerose fotografie su luoghi e protagonisti descritti nei versi
(Parma e la campagna emiliana, la famiglia dell’autrice, il campo di Kaisersteinbruck e riproduzioni da Correggio e Mazzoni), prende le mosse dall’ambiente in cui Piero Quintavalla nacque e fu educato («Più in là del Po»: «I cascinali invece, i casolari / erano su sfondo antico, soleggiati»), per soffermarsi poi sul suo matrimonio («Sposò China, ebbe due figlie»), sui suoi studi e sulla guerra: ma descrivono con tenerezza anche i suoi tratti più peculiari («il naso lungo / le mani belle, il fisico da sano contadino»; «il gesto delle mani nelle tasche»), ricordando pure le naturali incomprensioni tra genitore e figlia, gli allontanamenti e le riconciliazioni («le ingiuriate abrasioni dei no!»; «ma l’edipo è una storia un po’ attempata…In braccio al suo babbino / la seduzione è lenta, stanca / non produce (più) battito cardiaco / ma dolenti note del ritiro, / stracche»). Soprattutto commuovendosi poi nel ripercorrere la malattia e la morte del padre, narrata con devota partecipazione ad un sofferto e crudele calvario («Io l’ho tenuto in braccio, / gorgogliava entro la testa il sangue»; «Al terzo giorno non resuscitasti, / ti portarono via, nessuno vide»).
All’asciutta disperazione provata durante una visita al cimitero-sepolcro («Ma di carta il tuo avello, o padre / nel cemento spalmato dai ragni, / su fiorami tra la polvere e il vetro / ti trovai, / allineato dal fondo e da stagioni, / sotto spessa carta già celato il nome, / mi chinai e non vidi») segue tuttavia la constatazione consolatoria, che chiude questo straziato compianto: «Padre che non sei mai partito affatto».

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014

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MEYER SABINO

GIOVANNA MEYER SABINO, ...DEMOCRAZIA E’ FEMMINA. DONNE CALABRESI E CAMBIAMENTO – PELLEGRINI, COSENZA 1995

 

Pensare o dire “Calabria” suscita in noi immagini contrapposte ma comunque coinvolgenti. Da un lato, l’idillio di una natura imperiosamente affascinante: solare, impervia, dura nei paesaggi, nel clima e nel carattere della sua gente; dall’altro, l’impaurita incomprensione di una realtà sociale violenta e disgregata, dove l’ottusa e aggressiva protervia di pochi spadroneggia, prevaricando la letargica, fatalistica inerzia dei più. Eppure, anche la rassegnazione secolare al sopruso può improvvisamente venire scossa, se un gruppo di persone decide di dar voce al proprio disagio, facendosi voce anche del disagio altrui; e se queste persone sono donne, e se a raccogliere le loro testimonianze è una donna, ecco che le parole possono diventare in maniera tanto più innovativa coro, grido, eco in continuo sviluppo. Così è stato per l’esperienza del gruppo  Plurale femminile, nato a Tropea nel ’90, su iniziativa di alcune donne del paese, fiancheggiate da turiste e da movimenti di opinione esterni. Gruppo che concentra la sua attività intorno a tre tematiche fondamentali: protezione dell’ambiente, restauro del centro storico e salvaguardia del turismo. Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso capillari operazioni di sensibilizzazione: discussioni, volantinaggi, assemblee, marce, dibattiti pubblici sui diritti civili e sulla mafia. Tutta questa campagna di mobilitazione produce ben presto i suoi effetti; il Consiglio Comunale di Tropea, incalzato e pubblicamente contestato dal gruppo di donne, attua alcuni interventi straordinari sui problemi ambientali più urgenti (fogne, nettezza urbana, acqua, viabilità); nasce all’interno dell’ospedale un tribunale per i diritti del malato; si organizza un convegno su Ambiente e partecipazione cui intervengono Gianfranco Amendola, Antonio Cederna, Luigi Lombardi Satriani; si richiede di creare un parco nazionale e un parco marino e la costruzione di un megadepuratore destinato alle acque zonali. L’attivismo frenetico e le iniziative incalzanti, anche se talvolta non ben coordinate, di  Plurale femminile  sortiscono all’improvviso e auspicato scioglimento del Consiglio Comunale, e al conseguente commissariamento della città. Ma proprio sul problema delle elezioni del nuovo consiglio comunale, P.F. entra in crisi, spaccandosi tra chi vuole fiancheggiare i partiti storici della sinistra, e chi invece preferirebbe costituire una propria lista civica. Il gruppo arriva presto a istituzionalizzarsi, con tutto ciò che nel bene e nel male questo comporta: meno velleitarismo e spontaneismo, più concretezza e un pragmatismo maggiormente attento alle regole del gioco. Quattro anni di lavoro politico generoso e indefesso, concorrono a cambiare la mentalità della gente del paese, esortano i calabresi a uscire dal guscio producendo il miracolo di una nuova amministrazione, efficiente e onesta. E vengono oggi raccontati in un elegante e intelligente volume di Giovanna Meyer Sabino, giornalista italiana trapiantata da molti anni a Zurigo, sempre attenta ai problemi dell’emarginazione e del femminismo. Il libro ...Democrazia è femmina  si articola in tre parti: nella prima sezione vengono esposti e analizzati i fatti, gli avvenimenti concreti – documentati da foto, interviste, manifesti, ecc.; nella seconda parte viene approfondita la riflessione sui meccanismi razionali e inconsci che hanno agito all’interno del gruppo di donne, sulle motivazioni che le hanno spinte ad aggregarsi, sulle difficoltà che hanno minacciato il loro operare. Ogni analisi particolare viene infine inserita in un contesto culturale e sociale più vasto, nelle coordinate necessarie che inquadrano la problematica condizione femminile nel nostro Sud. E’ una proposta di coinvolgimento, una scommessa sul futuro, quella suggerita dalle donne di Tropea, esempio di una impegno coraggioso da condividere, possibilmente da esportare.

 

«Agorà» (Svizzera), 1 novembre 1995

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ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL TRENO DELLE ITALIANE – DONZELLI, ROMA 1995

Probabilmente non è la lettura sociologica, come sembra suggerire il risvolto di copertina, quella da privilegiare nell’accostarsi all’ultimo bel romanzo di Giovanni Orelli, Il treno delle italiane. Certo, Orelli rimane uno dei pochi scrittori in lingua italiana per cui si può parlare di letteratura civile, lui che proviene e anima quell’estrema, privilegiata provincia portofranco del nostro paese che è il Canton Ticino; a cavallo tra due culture spesso in antagonismo, ne patisce le contraddizioni di interprete in bilico tra critica appassionata e solidarietà, e insieme possiede quel distacco che gli permette un’analisi intellettuale sempre feconda. Così è soprattutto il dato di partenza di questo nuovo romanzo, ambientato nel Ticino del dopoguerra, a potersi fregiare di un’interpretazione impegnata, politica. Io parlante è un bigliettaio della linea ferroviaria che attraversa la Svizzera da sud a nord, trasportando emigrati dal Meridione o dal Veneto, lavoratori carichi di storie e di Storia, che arrivano pieni di ansie e di desideri in un paese risparmiato dalla guerra e dalle sofferenze, e forse per questo più superficiale e più crudele. Alla voce del ferroviere (che oltre alla sua funzione professionale svolge anche quella di umanissimo consigliere-confessore di chi viaggia) si affiancano o sovrappongono altre voci narranti, secondo uno stile proprio di Orelli, e già sperimentato altrove. Come in un labirinto di divagazioni, associazioni più o meno volontarie, episodi e personaggi si incastrano tra loro, esibendo sempre una propria necessità. E da puzzle pieno di figurine mordilliane, le pagine si vanno man mano trasformando, ai nostri occhi incuriositi e ammirati di lettori, in un gioco di scatole cinesi per poi sciogliersi invece in una specie di affresco corale, che ha qualcosa dell’arte puntuale ed epica del pittore elvetico Ferdinand Hodler. Giovanni Orelli sa farsi caleidoscopico cantore di una storia collettiva, e anche offrirci sapori di una Svizzera valligiana molto concreta, con le sue navi le sue erbe i suoi doganieri rudi e pudici. I treni che attraversavano il Ticino dopo la guerra erano pieni di ragazze italiane, brave a lavorare nelle case e a tormentare gli uomini nella carne. Erano ragazze spaventate ma ambiziose, che appena varcata la frontiera, si accorciavano i nomi e le gonne, sventolavano i fazzoletti fuori dai finestrini, offrendosi all’aria svizzera e agli sguardi di chi le aspettava. Ai marosseri, innanzitutto: che erano mediatori, sensali, e procuravano loro l’occupazione e un posto dove vivere, chiedendo sempre in cambio qualcosa di prezioso: il primo stipendio, e altro. Tra le numerose storie narrate (della Volpina, della Lisetta, della Ludo), il bigliettaio dei treni delle italiane finisce per raccontarne una in particolare: quella di Marina, serva del marossero suo coinquilino, che se l’era fatta venire in casa per il bene del figlio Giuliano, ragazzo mite e originale, il quale preferiva i severi studi universitari e le corse in moto nei boschi alle passioni ancillari del padre. Ma è proprio il genitore a combinargli un capodanno da passare in montagna con la servetta, imponendogli un’iniziazione sessuale secondo parametri che il figlio rifiuta. Infatti Giuliano e Marina vivono con purezza tutta adolescenziale il viaggio in treno nella neve, la veglia alla nascita di un vitello, il giro delle osterie del paese a sentir storie vecchie dai contadini, il proposito di dormire insieme, sì, ma vestiti e senza toccarsi. E già tutto questo costituirebbe un rifiuto intransigente del volgare buon senso adulto. Ma il ragazzo va oltre, e la violenza del suo no ha la secchezza dello sparo di fucile con cui si ammazza, poco prima che inizi l’anno nuovo. Qui la prosa di Orelli, già di suo così nervosa, riesce a farsi poesia, lieve, immaginifica, nel descrivere il rimpianto tormentato di Marina, lo sgomento ottuso e tanto più penoso del padre, il silenzio imbarazzato dei funerali; e la madre che non accetta, e torna su in montagna dove il figlio si è ucciso, si siede in mezzo al cortile, lasciandosi coprire di neve, non più donna, ma come il suo ragazzo «quattro ossa e, come si conviene, come desidera, rapidamente, un pugnetto di polvere grigia».

 

«L’Arena», 23 gennaio 1996

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ZWEIG

STEFAN ZWEIG
VENTIQUATTR’ORE NELLA VITA DI UNA DONNA – SUGARCO, MILANO 1991
NOVELLA DEGLI SCACCHI – GARZANTI, MILANO 1991

Due romanzi brevi, o racconti lunghi che dir si voglia, di Stefan Zweig, sono stati recentemente pubblicati da SugarCo e Garzanti: 24 ore nella vita di una donna  e  Novella degli scacchi. Argomento centrale di entrambi è la passione divorante per il gioco che può attanagliare la mente umana: gioco come azzardo, cioè sfida al destino e a se stessi, e gioco come affinamento della spiritualità. La prima novella è la storia, narrata dalla protagonista a un occasionale confidente trent’anni dopo la sua conclusione, di un incontro tra una intelligente e ricca vedova, che cerca di distrarre viaggiando la sua «irreversibile tristezza», e un uomo divorato dal tarlo febbrile del gioco al casinò. A Montecarlo la signora viene attratta dalla vita di un giovane che sembra giocarsi alla roulette non solo gli ultimi risparmi, ma la sua stessa esistenza. Ipnotizzata dall’eccitazione di lui, ma soprattutto dall’irrequietezza e dal tremito disperato delle sue mani, lo segue fuori dal casinò e in albergo, nell’ansia di salvarlo dal suicidio e di redimerlo dalla follia del gioco; superando ogni pudore e remora dovuta alla sua educazione gli si concede, vivendo con lui l’esaltazione furiosa di una notte d’amore. «Non avrei mai immaginato, senza quell’incontro terribile, con quale ardore, con quale accanimento e irrefrenabile avidità un uomo spacciato, perduto, beva ogni goccia rossa di vita».

La notte passata insieme trasforma profondamente la donna, inducendola a rischiare tutto per seguire la sorte del suo nuovo amico: gli consegna dei soldi perché paghi i suoi debiti, lo costringe quasi a partire per porre fine alla sua inclinazione malata, decide essa stessa di seguirlo, giocandosi la sua reputazione e un tranquillo e grigio destino di vedova benestante. Ma il ragazzo la inganna, e col denaro avuto in dono torna al casinò e riprende a giocare: all’intervento stupito ma deciso di lei, la caccia umiliandola e sbeffeggiandola davanti a tutti. Tuttavia, «si sopravvive anche a ore così dolorose: il sangue continua a pulsare, non si muore, non si cade come un albero colpito da un fulmine»: la donna recupera la sua dignità schernita, ritorna nei binari consolidati di una routine disprezzata ma comoda, perché  «alla fine, chi vince è il tempo, e la vecchiaia esercita sui sentimenti il singolare potere di invalidarli». Rinnegate le 24 ore che stavano per cambiare (in meglio? in peggio?) il corso della sua vita, lei che per amore avrebbe avuto il coraggio di rovinarsi, accetta l’umiliazione di una sconfitta, continuando a coltivare il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.
Il secondo racconto  Novella degli scacchi può essere considerato un po’ il testamento spirituale di Zweig: fu infatti steso nel ’41, pochi mesi prima che lo scrittore austriaco si suicidasse in Brasile insieme alla moglie. E’ la storia di una serie di partite a scacchi giocate durante una traversata marittima nell’Oceano tra Mirko Czentovic, scacchista di fama mondiale, e il dottor B., avvocato austriaco perseguitato dalla Gestapo. E’ chiaro fin da principio da che parte stia lo scrittore Zweig (esteta, pacifista, innamorato della cultura e della spiritualità europea al punto di autoesiliarsi per protesta in Sudamerica allo scoppio della seconda guerra mondiale). Bersaglio della sua polemica è il campione russo Czentovic, ma si tratta di un bersaglio alquanto sproporzionato, di un mulino a vento contro cui non varrebbe nemmeno la pena di combattere: Czentovic è infatti «un contadinotto ventunenne del Banato… un taciturno, ottuso ragazzo dalla fronte quadra… incapace di scrivere una frase in nessuna lingua senza errori di ortografia… di una ignoranza parimenti universale in tutti i campi».

A questo avversario, presuntuoso perché indifeso, goffo perché poco intelligente, fornito di un’unica mostruosa abilità – quella di giocare, vincendo, a scacchi – Zweig oppone la cultura e la sensibilità del dottor B., già amministratore dei fondi della famiglia imperiale austriaca.
Arrestato dai nazionalisti, torturato in un isolamento feroce e totale, era riuscito a salvarsi dalla pazzia grazie alla lettura di un manuale sugli scacchi, e alla simulazione mentale di centinaia di partite: «Appena il mio Io bianco aveva fatto una mossa, il mio Io nero si gettava febbrilmente all’attacco; appena una partita era terminata, subito sfidavo me stesso alla prossima, perché ogni volta uno dei due Io-giocatori era vinto dall’altro e chiedeva la rivincita…Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torre e re…Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica…appena il gioco incominciava, una forza selvaggia m’invadeva: correvo su e giù coi pugni stretti, e come attraverso una rossa nebbia sentivo ogni tanto la mia voce, che gridava a se stessa, rauca e cattiva, “scacco” o “matto!”».

La partita che Czentovic conduce contro il dottor B. è in realtà una partita tra due culture, tra due modi di concepire la vita e di affrontare il mondo: quella, rozza ma vincente, ottusa ma di successo, del campione Czentovic, e quella raffinata ma sconfitta del dottor B.. La prima simboleggia la cultura nazista, violenta e arrogante, la seconda quella austriaca, o più in generale Mitteleuropea. Questa  Novella degli scacchi è, quindi una «fiaba fortemente metaforica», come ben arguisce nella sua originale prefazione Daniele Del Giudice, in cui gli scacchi sono puro pretesto, e il delirio finale del dottor B., in grado di condurre simultaneamente nel pensiero diverse partite, ma incapace di portarne a termine una, quella decisiva, è il simbolo della resa di un continente alla brutalità pianificata di Hitler, della resa di Zweig di fronte al crollo dei suoi ideali.

«L’Arena», 1 agosto 1991

RECENSIONI

MAURENSIG

PAOLO MAURENSIG, LA VARIANTE DI LÜNEBURG – ADELPHI, MILANO 1993

«Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torri e re, a A e B e C e Matto e Arrocco, con tutto il mio essere e il mio sentimento ero spinto verso il quadrato della scacchiera. Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica, che a poco a poco penetrò non solo le ore in cui ero sveglio, ma anche il mio sonno».

Sono frasi che Stefan Zweig mise in bocca al protagonista della sua  Novella degli scacchi nel 1941.

«Non so dire esattamente quando accadde, ma so che un giorno incominciai a giocare un’interminabile partita: che dall’altra parte della scacchiera ci fosse il mio io o il mio Dio, poco importava. In brevissimo tempo occupò tutti i miei pensieri, non ci fu spazio per nient’altro che non fosse quella partita: essa divenne la mia fede, unica e insostituibile».

Sono frasi che Paolo Maurensig mette in bocca al protagonista-narratore del suo affascinante romanzo La variante di Lüneburg, appena edito da Adelphi. Paolo Maurensig è un agente di cambio friulano, cinquantenne alla sua opera prima. Che Roberto Calasso pubblichi nella prestigiosa collana  Fabula un autore italiano è cosa piuttosto infrequente: che pubblichi un autore sconosciuto è decisamente straordinario, e depone a priori in favore del testo in questione.
In effetti, il lettore si trova di fronte a un’opera eccezionale, per il tema trattato, per lo spessore culturale sottesovi, per l’estrema raffinatezza formale: uno stile denso ed elegante insieme, il cui ritmo narrativo è dettato dal procedere del pensiero, modellato sulla cadenza di questo. Ne segue le pause, le divagazioni, ma anche animosità improvvise, confutazioni stringenti. Respiriamo, leggendo queste pagine, aria – e forse anche musica – mitteleuropea, più rarefatta e avvolgente di quella cui ci ha abituato la narrativa italiana odierna. La passione per gli scacchi, intesa come filosofia, come approccio alla vita o sfida alla morte, è il tema del libro, com’era il tema della novella di Zweig, con cui Maurensig sembra voler giocare a rimpiattino, attraverso sapienti e ricorrenti richiami: ora come allora la partita a scacchi è metafora di una ben più profonda contrapposizione tra due culture (quella conformista, violenta e ottusa del nazismo, e quella spirituale, ricercata ma perdente dell’ebraismo). Le analogie tra i due testi sono così frequenti da non poter risultare casuali: il gioco vissuto come estasi e condanna, il viaggio (qui in treno, là in nave) durante il quale avviene lo scontro tra le due diverse personalità dei protagonisti, l’Austria dell’Anschluss e la Germania dei campi di concentramento, l’assenza totale di personaggi femminili, il riferimento continuo al trascendente, le riflessioni sulla fisiognomica, i nomi dei grandi scacchisti degli anni ’20, e soprattutto il crescendo di pathos, di angoscia, che attanaglia il lettore fino alla conclusione tragica e liberatoria, fino allo scacco matto definitivo della morte. Il libro si apre con la descrizione del suicidio di un ricchissimo imprenditore tedesco, Dieter Frisch, avvenuto nello splendido parco della sua villa settecentesca alle porte di Vienna. Inspiegabili, a prima vista, i motivi del suo gesto: l’uomo  «era una di quelle persone alle quali il successo sembra arridere in tutti i campi…» Prestante e attivo nonostante l’età avanzata, divideva la sua attività tra l’azienda di Monaco e la ricca residenza viennese, in cui consacrava le sue ore di riposo all’unica passione che gli si conosceva: il gioco degli scacchi. Proprio questa sua occupazione secondaria si palesa ben presto essere la ragione della sua fine violenta, e il romanzo lo svela a poco a poco, attraverso le misurate rivelazioni del narratore che, rimasto nell’ombra per tutta la prima parte del volume, si dichiara poi l’antagonista di una vita, animato da una sete di vendetta durata decenni.

«Questa è, in primo luogo, la storia di una rivalità, che si manifestò proprio su una scacchiera, su quel riquadro che può sembrare ristretto solo a chi non voglia o non possa vederne la profondità: poiché si tratta invece di un mondo per nulla limitato e niente affatto innocuo, dal momento che ciò che vi si perpetua, avvalendosi di un atto creativo che a volte assume l’aspetto di un’autentica opera d’arte, è un’azione di inaudita violenza, una forma di omicidio bianco, inapparente, il cui esito viene riconosciuto e condiviso unicamente dai due contendenti. Non c’è nulla che leghi due persone quanto una seria sfida su una scacchiera. Esse diventano le opposte polarità di una creazione mentale che è opera di entrambi, ma in cui uno si annulla a vantaggio dell’altro».

I due avversari negli scacchi, il tedesco Frisch e l’ebreo Tagori, già ostili dall’adolescenza, quando si sfidavano in estenuanti tornei – l’uno metodico e inflessibile, l’altro geniale e febbrile – si ritrovano a Bergen Belsen, l’uno ufficiale nazista e spietato aguzzino, l’altro (salvato dalla morte purché intrattenga con gli scacchi l’ufficiale SS) costretto a barattare al gioco la vita dei compagni con le proprie vittorie. A una mossa inattaccabile ideata dall’ebreo Tagori (la variante di Lüneburg) e avversata teoricamente dal tedesco, è affidato il compito di scovare dopo la guerra l’ex nazista camuffatosi sotto mentite spoglie: Dieter Frisch viene individuato e smascherato attraverso una rivista d scacchi, raggiunto e “processato” in treno dal figlio adottivo di Tagori, costretto alla confessione e alla resa finale. Frisch non regge alla sconfitta nel gioco e nella storia, e si ammazza: ma più che di un suicidio, si tratta di «un’esecuzione capitale,seppure differita nel tempo e nello spazio», affidata agli scacchi.

 

«L’Arena», 7 luglio 1993

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