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POESIE

IL LAGO

I

Non sono onde. Ne avrebbero forse
l’intenzione; increspature leggere,
rughe dell’acqua, e basta.
Non sarà mai tempesta,
questo lago, scarso coraggio
di farsi mare: se accoglie un fiume,
lo placa, lo annulla in una quiete
casta. E così niente corse né fughe
di pesci, ma vaghi girotondi,
guizzi di piume d’anatra in festa.
Bisogna aver paura di chi non sa osare:
laghi colline periferie.
Acque chete e profonde celano
malefici, stregonerie.

II

Di qua e di là i monti
a impedirgli di scappare da se stesso
lo incastrano guardiani, e lui
«Specchiatevi, torrioni,
narcisi, rimiratevi!»
Com’è forte e tranquillo
nei suoi limiti di roccia,
il lago:
non ha ponti o gallerie,
cime o dirupi,
non potrà mai franare.
Sempre uguale a qual era
sfida la morte,
ogni sorte futura;
eterno come il cielo, sicuro
come un dio senza paura.

III

La vela che lo solca, ne incide appena
la scorza in superficie, come un graffio
che subito sparisce sulla pelle
se lo bagni. Così il lago violato
ricompone intero il suo volto
di prima,
tacendo il mistero
di che pace affiori dal fondo.

IV

Il pescatore si rassegna al largo,
lasciato il molo, si consegna al lago;
al vuoto di confini e di pensiero
che confonde il suo cielo.
Non offre resistenza al silenzio
che varca coi remi, all’assenza
di onde, di vento possibile.
Sarebbe pronto a lasciare le reti,
la sua barca,
se appena uno – visibile a lui solo –
tentasse qualche passo sull’acqua,
avvicinandosi.

V

Il sole ha voglia di sciogliersi,
annullarsi nell’acqua, nascondersi;
non essere più sole. Dentro, nel lago,
si è fatto lago, luce che esplode
di chiaro, in fondo, caldo nel gelo:
suo cielo è un nuovo azzurro,
come all’inizio del mondo.

VI

Accarezza appena la pelle
del lago, lo scompone di un respiro
attento; vena d’aria
che vorrebbe riuscire a farsi vento.
Invece è solo brezza.

VII

Invaso dalla luce,
non è più azzurro, oggi.
E’ giallo, è oro; oppure
trasparente, un lago di cristallo
con minutissime scaglie di bianco.
Lo sguardo che lo osserva
da lontano, stanco di troppo chiaro,
cerca uno schermo codardo
nella mano.
Ma poi, fermo e persuaso,
si arrende alla violenza del sole, all’evidenza.

VIII

Motoscafi e voglie grasse
sporcano il lago:
pelle esibita lucida,
casse di birra. E i tuffi,
sbuffi di gas, sgolamenti
agitati.
Come offendono la sua seria
dolcezza, la sua riservatezza.
Lui scioglie nelle acque
ogni miseria di tanta vita,
rendendo conto al cielo
di ciò che è, soltanto al cielo.

IX

Naviga tranquillo e padrone,
il battello, sicuro del suo peso
-mischia di turisti plaudenti-
mentre altre barche si spostano
veloci, fanno largo,
«Attenti, passo io», fischia,
spaccone che si crede
vascello di Dio.

X

Fitta, battente, punge nell’acqua
come aghi, pioggia di ottobre
che non conosce tregua o pudore
e insiste, ferisce, inclemente
come Giove, gonfia di sé
il lago spaventato e incolore
– triste Danae che subisce,
quando piove.

XI

Con la nebbia svapora
ogni odore di vita, memoria
di estati, di colori.
Nella nebbia
il lago si ritrova e si perde,
senza tempo né storia: eterno,
immobile, pronto all’inverno.

XII

Silenziosa la neve sparisce inghiottita
dall’acqua, come non fosse mai
esistita: si cancella e tace.

Mentre a riva finisce bianca
sui sassi, dentro nel lago beve
una sua stanca pace.

 

 

In  Il lago, Lietocolle, Faloppio 1996; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000; in Il Pickwick, 9 agosto 2020.

 

RECENSIONI

GIUNTA

CLAUDIO GIUNTA, UNA STERMINATA DOMENICA – IL MULINO, BOLOGNA 2013

Il titolo del volume è tratto da un verso di Vittorio Sereni, e l’ autore così giustifica la sua scelta: «Una sterminata domenica mi è sembrata una perfetta definizione dell’Italia: come se, seduti a cavalcioni delle Alpi, si guardasse verso sud, e l’intera penisola restituisse allo sguardo quest’immagine di placida, inerte ferialità».

Un’ Italia feriale, «irredimibile», quindi, quella raccontata – unClaudio Giunta po’ con rabbia e indignazione, un po’ con rassegnata ironia e divertita leggerezza – da a in questi dodici saggi, accomunati dalla prospettiva «di chi non guarda le cose dal di fuori ma è implicato in ciò di cui scrive: un osservatore partecipante». Interventi militanti, non tenuti insieme da una particolare unità tematica, ma accomunati dall’intenzione di descrivere aspetti non secondari, e comunque interessanti, della vita civile e intellettuale del nostro paese. Fatta eccezione per i due saggi finali, dedicati a visioni retrospettive sugli anni Settanta e Ottanta, gli altri corposi articoli affrontano di petto l’attualità italiana. A partire dalle considerazioni sui meetings di Comunione e Liberazione a Rimini: «un posto in cui tutti credono in Dio; … i cattolici di Cl sono un esempio da manuale di modernismo reazionario: diffidano della scienza, che contraddice a ogni passo le Sacre Scritture ed è muta quando si tratta di interpretare ‘ciò che è nascosto nel cuore dell’uomo’; ma venerano la tecnica. Sono spiriti attivi molto più che contemplativi».

Per passare poi alle amare constatazioni sullo stato delle biblioteche italiane, e scegliere in seguito alcune icone di successo dell’immaginario collettivo da sezionare con impareggiabile acume (Fantozzi e Luciano Moggi), in due brani giustamente molto citati dai critici e dai blogger. Particolare e nuova, nel panorama della saggistica nazionale che esplora la contemporaneità, è l’attenzione che Claudio Giunta riserva alla cultura pop («il pop  -canzoni, film, TV-  è la principale riserva di gioia a buon mercato»), con l’esaltazione di eventi mediatici come Radio Deejay («è stata la via Panisperna della radio-televisione italiana»), di Fabio Volo («mi trovo d’accordo con lui praticamente su tutto»), di Elio e le Storie Tese («hanno un radar per gli aspetti grotteschi della realtà»): in una forse eccessivamente entusiastica fenomenologia dell’effimero di stampo umbertoechiano. Ovviamente non potevano mancare le considerazioni sulla Weltanschauung di Matteo Renzi («Renzi non trema… Ha un’illimitata fiducia in sé… Sembra non avere psiche»). Eppure tra questi capitoli, tutti assolutamente godibili, pungenti, dissacranti, quello che mi è parso più polemicamente stimolante è il secondo, dedicato all’eruzione del vulcano islandese dal nome impronunciabile, avvenuta nel 2010. In queste pagine Giunta riesce a coniugare un’esauriente e oggettiva descrizione del fenomeno naturale, e dei vistosissimi danni economici che ha provocato, con riflessioni eticamente risentite sull’incontenibile dabbenaggine e credulità umana («superstizioni da Medioevo, melassa di irrazionalità New Age, religione, fantascienza, balle contagiose scodellate da internet»), sul ruolo addomesticato quando non servile della stampa e delle comunicazioni in generale («faccenda così mediaticamente perfetta da sembrare studiata a tavolino da un creativo di Endemol»), e sulla falsa coscienza di numerosi intellettuali, laudatores temporis acti, inclini a «nostalgie premoderne… proiezioni narcisistiche… interpretazioni paranoiche». Una corrente di radicato buon senso materialista, di moderato sarcasmo, di non prona ma tutto sommato indulgente consapevolezza attraversa questi dodici «viaggi nella tragicommedia italiana»: tragicommedia di cui Claudio Giunta si rivela contemporaneamente interprete, fustigatore, e affettuoso seguace.

 

«incroci on line», 25 febbraio 2014

RECENSIONI

RAIMONDI

EZIO RAIMONDI, LE VOCI DEI LIBRI – IL MULINO, BOLOGNA 2012

«Non sono mai stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l’ossessione dell’ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee», afferma nell’ultimo capitolo di questo interessante volume il Professor Ezio Raimondi, insigne critico e storico della letteratura. «Nel caos vivente della biblioteca» i suoi volumi sono affastellati in maniera disordinata e quasi misteriosa, a farne «luogo della stabilità e della metamorfosi, della protezione e del rischio»: ne sono testimonianza le fotografie che corredano queste pagine, e ne immortalano l’autore sommerso da migliaia di libri. Libri viventi, pulsanti, con una loro voce inconfondibile, che da sempre ha forgiato e ammaliato l’intelligenza inquieta, curiosa e appassionata dello studioso. Nato nel 1924 in una casa «dove non c’erano libri» e si parlava il dialetto, figlio di un calzolaio e di una donna di servizio, proprio dall’umiltà rispettosa della cultura della madre il bambino Ezio apprese la funzione «liberatrice, democratica della lettura». In questi otto capitoli viene raccontata tutta un’esistenza dedicata ai libri: dalle prime bibliotechine di classe delle elementari, alle lezioni studiate sul tavolo della cucina, «fra il piacere della scoperta intellettuale e l’odore di soffritto», agli incontri fondamentali segnati sempre dall’intreccio tra cultura e vita. Quindi l’amicizia con straordinarie personalità bolognesi degli anni bellici e del dopoguerra (Franco Serra e Giuseppe Guglielmi), le loro discussioni interminabili e i reciproci arricchimenti disciplinari, le lezioni di Roberto Longhi all’università: in un clima storico senz’altro stimolante, pur nelle difficoltà provocate dalla miseria economica e dai contrasti politici e ideologici dell’epoca. Ma soprattutto furono le letture esaltanti e sprovincializzanti dei grandi intellettuali stranieri (Heidegger, Marc Bloch, Curtius, Huizinga, Lucien Febvre) che venivano a innestarsi sulle fondamenta radicate nello studio di De Sanctis, Flora e Devoto, ad aprire nuovi orizzonti nella mente e nel cuore del giovane studioso. E in queste pagine si rincorrono i nomi di tanti altri autori che hanno segnato la crescita intellettuale di Raimondi, da Pasolini a Gadda, da Broch a Céline a Queneau, all’amato Bachtin. Come suggerisce nella sua attenta e affettuosa postfazione Paolo Ferratini, «l’ascolto delle voci degli scrittori è stata (ed è) un lungo esercizio di attenzione all’altro, … un percorso autoformativo durante il quale filologia e affetti, folgorazioni dell’intelligenza e moti del cuore hanno sempre congiurato all’edificazione del proprio profilo morale». Un grande studioso e un appassionato insegnante, quindi, Ezio Raimondi, che ha saputo ascoltare le voci dei libri rendendosene innamorato interprete, «in una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza».

 

«incroci on line», 9 maggio 2013

RECENSIONI

VERBARO

GIUSI VERBARO, IL VENTO ARRIVA DA UNO SPAZIO BIANCO – INTERLINEA, NOVARA 2013

Con questo arioso endecasillabo che dà il titolo al libro, Giusi Verbaro introduce da subito la metafora fondante che attraversa le tre sezioni del volume: vento inteso come spirito, anima vivificatrice del mondo, turbine che scompagina, assedia e libera, «rabbioso che soffia», «che trascina le memorie», «che scompiglia i nomi», «che rinnova, a primavera, / il profumo dei tigli sul viale». Vento, quindi, come metafora della poesia, capace di permeare e travolgere cose e parole, vite e sentimenti, originata misteriosamente e misteriosamente posseduta da pochi, privilegiati, interpreti… Da questo soffio energico la poetessa si lascia penetrare e plasmare: «Affacciarsi nel vento e dal vento / lasciarsi poi scolpire / e levigare come cera molle». E’ un vento che nasce da uno spazio bianco e vergine, di silenzio e di ascolto: da un altrove non conosciuto, di sogno o di estasi, di altezza irraggiungibile o di insondabile profondità. E infatti sogno è un altro dei termini chiave di questa raccolta poetica, insieme ai paesaggi lunari, alle risacche marine, e ad altre «essenze misteriose» e quasi esoteriche. Allora echi, ombre, fiati, fantasmi, «stranite stanze», «città bianche e spettrali», «creature alate», «anime pellegrine», «sussulti del cuore», aleggiano impalpabili nei versi, animandoli e forse turbandoli: «Lunga notte d’inverno, buia come più buio / è il misterioso perdersi – negati alle presenze / e ai rovelli consueti – e dopo ritrovarsi».
E i morti, questi cari ed eterni assenti, spesso più vivi e incombenti dei vivi, parenti che hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite, scrittori che hanno ispirato i nostri pensieri, maestri di poesia in passato vicini e ora ancora più stagliati nella memoria: «Come sospesi e teneri sono i passi dei morti / e come i morti tornano, liberi ormai dai nomi / così come dal peso degli affanni», «Li chiamo tutti piano i nostri morti», «I morti hanno una loro quieta astuzia: / trovano mille modi per rivelarsi / per restare accanto: una folata rapida di vento».
La madre della poetessa, «gravata dalla pena/ di non voler andare», «già lontana/ libera come un alito di foglia», «mia madre – adesso senza peso e senza luoghi»; ma anche teneri amici che hanno accompagnato la sua esistenza per tratti più o meno lunghi; e i grandi nomi di amati poeti novecenteschi, ricordati nelle epigrafi che introducono ogni poesia, e molto citati, assorbiti, ripetuti, imitati nelle cadenze più tipiche (Montale, Luzi e Caproni, soprattutto).
Le tre sezioni che compongono il volume (la prima, dedicata alla città della formazione, della cultura e della maturità, Firenze: con le sue atmosfere surreali e spirituali; la seconda, immersa nella fisicità della Calabria nativa: «mi abbraccia un sogno d’acque e mi sommerge»; la terza, dedicata alle presenze più intangibili, fragili e salvifiche: gli angeli, «Creature incorrotte… Ci vivono d’attorno invisibili e alteri») sono in realtà «una narrazione ininterrotta di sentimenti e di ricordi, di rievocazioni trasognate e oniriche, di omaggi e rimandi, in un unico concerto di voci e di richiami», come ben evidenzia Giuseppe Panella nella sua postfazione. Pertanto il vento che anima questi versi di Giusi Verbaro va letto, secondo il prefatore Daniele Maria Pegorari, come «l’insieme delle “parole che credevamo perse”, è il coro delle voci sparite dal dominio dell’esperibile, ma sopravvissute nello spazio della memoria e della letteratura, e che da qui continuano “a riannodare i fili” che l’insipienza umana tronca o ignora». Orgoglioso recupero della nostra tradizione letteraria, quindi, in questa poesia, e adesione convinta e riconoscente all’affettività del ricordo, così come si perpetua nei luoghi e nei sogni, nelle evocazioni e nelle attese, in ogni «spazio bianco».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

STEFAN

VERENA STEFAN, OSPITI ESTRANEI – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2012

Il bel viso di Verena Stefan (Berna, 1947) si offre sorridente al lettore di questo libro in realtà drammatico e sofferto, pubblicato dalle eleganti edizioni di Luciana Tufani, da sempre intelligentemente schierate dalla parte delle donne e della loro scrittura. E femminista dichiaratamente lesbica si è definita con orgoglio sin dal suo esordio letterario questa autrice svizzera, trasferitasi presto a Berlino, e poi in Canada, sempre inseguendo con coerenza un suo impegno civile e politico di lotta per i diritti delle minoranze. Ospite estranea di tre diversi paesi (dapprima come cittadina elvetica di padre tedesco mai completamente accettato a Berna, quindi immigrata in Germania e infine a Montreal), Verena Stefan ha fatto del suo sentirsi “altra”, straniera, disorientata, un mezzo per meglio riuscire ad esplorare se stessa, le persone intorno, l’ambiente e soprattutto la lingua con cui rapportarsi al mondo. Così l’impatto con la natura sconfinata e affascinante del Quebec, con i suoi laghi e boschi, e lo sforzo di impadronirsi di diversi e stranianti vocabolari (francese e inglese), o di adeguarsi ad atteggiamenti e abitudini lontani dallo spirito europeo, avrebbe potuto indebolire il suo carattere naturalmente combattivo: se non fosse stato mediato dalla naturalezza espansiva della sua compagna canadese, Lou, e dalla tenera sensualità di lei: «Il suo corpo porta iscritti gesti di seduzione e di offerta, un inchino appena accennato nel quale si intrecciano richiesta e sfida». Verena, ospite estranea sebbene mai rifiutata di un paese straniero, si è trovata improvvisamente a lottare contro un malefico intruso che tentava di divorarle il corpo. La sua guerra contro il tumore, le lunghe sedute di chemioterapia, il cambiamento osservato nelle parole e nei gesti degli altri, vengono descritti dall’autrice con parole intrise di stupore e sofferenza, ma analiticamente lucide: «Una volta nominata, la parola “cancro” fa alla velocità della luce il giro delle teste e dei corpi dei presenti. Modifica il loro paesaggio interiore, come se il cancro fosse contagioso, come se la crescita incontrollata potesse trasmettersi e trascinare con sé anche quelli che vanno a tentoni nella luce, perché non sanno cosa succede nella luce».

La riscoperta della propria vulnerabilità fisica passa dunque per Verena attraverso un nuovo rapporto con l’altro da sé, con l’amata, con il paesaggio, con i ricordi dell’infanzia: «Si avverte urgente il bisogno di dire a voce alta: Io». Scrive nella postfazione Emanuela Cavallaro: «Per istinto di conservazione, per la disperata volontà di salvarsi ed evitare il dissolvimento completo, e insieme per sancire la riconquista del sé. La crisi è superata, il soggetto di nuovo uno con se stesso». Fare spazio a ciò che è estraneo, accettarlo per renderlo da nemico a complice del superamento di ogni negatività: e scriverne con coraggio. Una lezione che Verena Stefan ha imparato sulla sua pelle e saputo trasmettere a chi legge.

 

«criticaletteraria», 17 febbraio 2014

RECENSIONI

MUELLER

HERTA MÜLLER, ESSERE O NON ESSERE ION – TRANSEUROPA, MASSA 2012

Essere o non essere Ion è il primo libro di versi che Herta Müller ha scritto in romeno, lingua del suo paese natale, ma non lingua materna – che invece è stata il tedesco. Lingua dell’oppressione e della persecuzione, lingua del sistema poliziesco che la costrinse all’esilio nell’87, e che qui la scrittrice premio Nobel nel 2009 recupera con una intelligente e ironica operazione di straniamento, di destrutturazione, di burlesco mascheramento. Un volume spiazzante e giocoso, questo proposto da Transeuropa, in cui ad ogni poesia tradotta in italiano da Bruno Mazzoni fa da specchio una pagina coloratissima di collage originali della stessa Műller, ottenuti utilizzando ritagli di riviste e giornali, graficamente eterogenei, che ripropongono gli stessi versi in romeno. Poesie sospese tra un andamento narrativo e colloquiale, fiabesco o sarcastico: vaporose e insieme concretissime, che assumono di volta in volta l’inconsistenza o la vivacità delle associazioni estemporanee e inconsce, di automatismi-lapsus-collegamenti onirici, di dialoghi stralunati tra personaggi improbabili, inventati o reali. La voce poetante è a volte maschile a volte femminile, può essere o non essere Ion, o qualsiasi altro protagonista; si affastellano i nomi più diversi: Ernest, Oskar, Liliana, Grigore, Mircea, Otilia, Bogdan… E le figure più comiche, strampalate, tragiche, patetiche di un immaginario teatrino dell’assurdo che tanto ricorda Ionesco: «una zia che aveva il singhiozzo e un odore sgradevole», «una vedova / sorda e magnetica con un debole per le bietole», «un uomo pelato come una rapa, ha / una gamba grigia di legno, che scricchiola appena, e / caligine nella mente, ma oro nei denti», «una dama / (con bigodini nei capelli, il rossetto arancione)». Anche i numerosi animali sembrano balzare fuori da un inverosimile paese delle meraviglie: «i cani con / lo zufolo di cera», «anatre selvatiche con tatuaggi / da creatura umana», «una capra da trasporto / pelle e ossa», «mosche a decine… hanno problemi psichici», «due canarini / uno rapato e l’altro abbacchiato», «una pecora stregata che cantava un blues». E poi tarme, oche, topi, cuculi, zanzare, volpi, gatti: un vero zoo urbano, in un paesaggio fitto di treni e autobus, di dogane e fabbriche dismesse, dove le coordinate si intrecciano, le direzioni si confondono, mancano i punti di riferimento e ogni contorno appare sfumato, sballato, sconcentrato («all’angolo della bocca / molto in alto / o in terra», «non aveva la benché minima idea / dove fosse la macelleria»). Insomma, la poetessa ammette quasi gioiosamente la sua confusa percezione dell’esistente: «che una certa sensibilità al bailamme ce l’abbia», evidente nei dialoghi smozzicati e straniti: «Te l’ho detto / ahò, che mi fa male / persino un po’ / il basilico», «Oplà!, / la cosa si fa seria / cocco mio», «mi ha chiesto Mihai: / -ce l’hai? / Non ce l’ho, gli ho detto, / dai su, mangiamo». E nelle conclusioni che non concludono, che rimangono sospese e stupite a interrogarsi: «farei la stessa cosa / che semplicemente farei, / avete afferrato l’idea, non è così», «secondo me / ciò che si può / non è escluso». Eppure, al di là di questo ritmo narrativo veloce e quasi ansimante, assolutamente privo di punti fermi, e con scarsi segni di interpunzione, qua e là si intuiscono tremori non vinti, assilli di violenze subite e mai perdonate, ironie feroci contro il potere burocratico e militare più ottuso, che possono ricordare gli sbeffeggi di Shostakovich parodianti il sistema staliniano: «ciò che faccio è vietato», «Però quando lo sono, lo sono! Di- / ciamolo pure, colpevole», «anche questi pestati a sangue / domani avranno delle sigarette», «Il signor colonnello non è più ciò che è», «questi, oplà, come ben sappiamo poiché è scritto nel / rapporto sulla produzione, ti avrebbero pappata / tutta intera»: a ricordarci che anche sotto le sembianze del gioco, del sorriso, del sogno, la poesia può continuare ad essere qualcosa di tremendamente serio, e pericoloso.

 

«Leggendaria» n.99,  marzo 2013

RECENSIONI

LUALDI

MARILENA LUALDI, L’IMPORTANZA DI ESSERE SECONDI – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

La giornalista varesina Marilena Lualdi dedica questo interessante volume, dal titolo accattivante e con un sottotitolo esemplificativo (Storie di eroismo e non solo), ai personaggi – della storia e della cronaca – che, nonostante il loro coraggioso dispiego di generosità e impegno, non sono riusciti a salire sul podio più alto, rischiando eternamente l’oblio, l’irrisione, o addirittura un velato e sarcastico sentimento di superiore sufficienza. Così il libro si rivolge idealmente alla sensibilità di quei lettori che rimangono emotivamente coinvolti dal destino di immeritata sconfitta di chi ha combattuto contro una sorte maligna, o contro l’inganno e la furbizia, o semplicemente contro la forza e la bravura del vincitore: «ci coinvolge la vicenda di chi ha dato tutto (o quasi) inutilmente». Le storie narrate dall’autrice spaziano geograficamente e cronologicamente attraverso epoche e continenti diversi, talvolta lambendo memorie e avventure personali, ma sempre manifestando un coinvolgimento affettivo nella descrizione delle speranze e delle delusioni dei protagonisti, in una prosa elegante e concreta, puntuale e comunicativa. Il primo capitolo, senz’altro il più commovente e ispirato del volume, narra l’impresa tentata nel 1911 dall’esploratore scozzese Robert Falcon Scott, il romantico sognatore che tentò di raggiungere l’Antartide «in uno scenario intrappolato dal gelo», insieme a quattro eroici compagni, «in cerca delle uova dei pinguini imperatore», per aiutare la scienza nella definizione della scala evolutiva indicata da Darwin. Per arrivare al Polo Sud, Scott impiegò settantanove giorni, mentre al suo rivale Amundsen ne bastarono solo cinquantadue, grazie a una più pragmatica programmazione del viaggio. Scott e i compagni morirono tutti congelati sulla strada del ritorno, “secondi” per la storia, e sconfitti: ma consapevoli di aver tentato una nobile impresa, e di aver combattuto con sforzo e dedizione la battaglia più ardua contro l’ostilità della natura, la debolezza fisica e le proprie paure. Un altro, notissimo “secondo” della storia britannica fu Giovanni Senza Terra, della dinastia dei Plantageneti; ultimogenito di Enrico II, a lungo in ombra rispetto alla statura gigantesca del fratello Riccardo Cuor di Leone, fu protagonista di vicende crudeli e complesse, di vendette, odi, passioni e tradimenti, in una esasperata ribellione contro la storia e il destino. Quante altre vite e lotte Marilena Lualdi sa raccontare, di personaggi “secondi” nell’amicizia devota a figure più elevate di loro, come il biblico Gionata vissuto all’ombra del mitico re Davide, o Ron che fa da spalla a Harry Potter. E ancora le tante donne eccezionali schiacciate dal confronto ingeneroso con altre donne (Maria Stuarda da Elisabetta I), o con i propri amanti (la fiera ed eccezionale Eloisa dal più prudente Abelardo): o le tante eroine quotidiane appartenenti al popolo che lavora, e stenta, e manda avanti le cose del mondo, e per cui Santa Teresa di Lisieux scrisse: «In Cielo, Dio saprà ben mostrare che i suoi pensieri non sono quegli degli uomini, perché allora le ultime saranno le prime». E come numerosi sono stati i “secondi” in tutti gli sport, dal calcio alla scherma al tennis, fino alle discipline meno seguite e pubblicizzate; quanti silenziosi eroi nella musica, che non hanno saputo catalizzare l’entusiasmo del grande pubblico, nonostante il loro formidabile talento. Quanti “lati B” nei 45 giri che alla fine hanno surclassato le canzoni destinate dai discografici al successo maggiore. E infine, quante notizie minori, di secondaria importanza, nei giornali e nei media, che sarebbero state degne di ben altro interesse ed ascolto da parte di occhi ed orecchie più attenti. Ma, come dicono le Scritture sottolineando il rilievo della pietra scartata dai costruttori che diverrà testata d’angolo, «Forse l’importante è sapersi vedere, sapersi pensare, al margine dell’inquadratura. Sapendo che l’immagine non rimarrà fissa e che vista da un altro punto di vista potrebbe portarci in primo piano». Così suggerisce il prefatore del volume, Giuseppe Battarino: così invita a sperare la bella foto di copertina, con l’esile nuotatrice pronta a tuffarsi e a gareggiare qualunque sia l’esito della gara.

 

«Leggere Donna» n.160, luglio 2013

RECENSIONI

DE GREGORIO

ANNA ELISA DE GREGORIO, DOPO TANTO ESILIO – RAFFAELLI, RIMINI 2012

Con questo titolo suggestivo (come non ricordare la candida supplica del  Salve Regina, che impetra consolazione dopo le sofferenze «della nostra malandata vita»?), Anna Elisa De Gregorio pubblica un elegante volume di versi, scandito in tre sezioni composte da un centinaio di poesie, tutte individuate da un titolo, spesso allusivo, a volte esplicativo, sempre acutamente incalzante.
Nella sua appassionata introduzione, Davide Rondoni parla, a proposito di questi versi, di «finissima auscultazione» e di «poesia obbediente… poesia udienza». Da subito infatti balza agli occhi del lettore questa disponibilità attenta e umile, partecipe ed empatica dell’autrice all’osservazione della vita in tutti i suoi aspetti: dalla descrizione vigile della natura, alla condivisione solidale con la sofferenza di chi vive ai margini della società, alla meditazione più filosofica sul senso dell’esistenza (il «paradosso dell’eternità»). La sensibilità della poetessa è orientata soprattutto verso la rappresentazione di due età particolari degli esseri umani, due età entrambe estranee al processo produttivo, al calcolo interessato dei vantaggi economici o carrieristici: l’adolescenza e la vecchiaia. Gli anni in cui ci si affaccia alla vita, in cui si è ancora capaci di perdersi dietro a un sogno («Belle le ragazze che canticchiano / al mare con le gambe lucidate / dalla crema, gli occhiali a camuffare / pensieri»), e gli anni ultimi, malinconici, in cui invece cade qualsiasi illusione. E’ il mondo e la quotidianità degli anziani che Anna Elisa De Gregorio esplora con maggiore e percettiva adesione: «Un corpo sperduto nell’alzheimer», «i vecchi vanno a pulire i ricordi dall’inverno», «Educati a non chiedere una cipolla al vicino, / ci riconosciamo dalle piante alla finestra», «Nelle case ingrigite dei soliti / anziani dove la noia è rotta / dalle pale di un ventilatore». La poetessa si commuove nel seguire il pensionato che va alla posta, si fa compagnia con un gatto o un cane, progetta il pranzo in solitudine e «fa il conto di chi non ha incontrato»: oppure il vecchio signore che raccoglie i sassi, o l’ex boxeur che si butta sotto il treno. Compito del poeta è prestare attenzione ai sentimenti, ai gesti, agli oggetti cui gli altri non badano: «nel mio esercizio di osservazione / assegnato come compito a scuola», l’autrice ubbidisce a un imperativo di «necessaria accoglienza» del tutto, a partire dalle cose minime («Nel migliore dei modi possibili / cureremo la ciotola del cane») per arrivare all’impegno culturale più elevato. Quindi, lo studio e il confronto con altre voci poetiche (da Bashō a Mark Strand, da Michele Sovente a Borges alla Szimborska), con l’arte (la Pietà Rondanini), con il cinema (Tarkovskij, Olmi, e Casablanca). Ma anche lo sguardo affettuoso alla sua città di mare («Città di mattina città d’estate»), con i suoi treni, il cimitero, le spiagge, le periferie desolate; o ad altre città (Venezia, Roma), e ad altre sofferte, scandalose, realtà di miseria e immigrazione. La natura, raccontata soprattutto nell’ultima sezione del volume, è assolutamente consolante nel tripudio della sua ricca vegetazione (salici, viburni, olivi, cachi, pini, gelsomini, ciliegi, crisantemi, trifogli, ginestre, violaciocche: «Fiori stretti ai rami, insetti viola / lucidi di pioggia, alberi di Giuda: / ci accompagnano in fila sui viottoli,  / intorno a loro aureole di nebbia»), con la constatazione che la patria di un poeta è sempre l’ovunque del mondo: «E allora l’unica mia terra è ovunque / trovi parole e lingua per dirle, / mio basso continuo e precaria tenda». In questo suo stile piano, narrativo, colloquiale, eppure aperto a diverse sperimentazioni compositive (gli haiku e i tanka manifestano una loro lieve eleganza), Anna Elisa De Gregorio offre al lettore una ricca varietà di temi e atmosfere, consapevole che le parole di un poeta sempre «rimandano luce».

 

«Leggendaria» n. 101, settembre 2013

RECENSIONI

FERRARIO DENNA

MARISA FERRARIO DENNA, RITRATTI IN CONTROCANTO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Un’architettura rigorosa, meditata, in cui racchiudere il destino e l’arte di trenta scrittrici e di venti pittrici, e la memoria di dieci donne appartenenti alla mitologia e alla letteratura classica.
E’ questa la scelta coraggiosa ed estranea alle mode culturali attuali di Marisa Ferrario Denna, che così ha deciso di rendere omaggio a figure femminili eccezionali della storia mondiale.
Quindi, un volume che si divide in due parti, Scrivere  e  Dipingere, aperto e chiuso da due composizioni che fungono da prologo ed epilogo. La sezione Scrivere presenta trenta poetesse o narratrici, a partire da Anna Maria Ortese, scomparsa nel 1998, per risalire alla più antica, la cinquecentesca Isabella Di Morra. Ad esse seguono le poesie dedicate a dieci eroine classiche, da Ipazia a Penelope, passando per Medea e Circe. Nella seconda parte del libro, Dipingere, si percorre il cammino inverso, partendo dalla figura più antica (Sofonisba Anguissola), per terminare esemplarmente con una donna che racchiude in sé diversi ruoli e talenti: Lalla Romano, scrittrice e pittrice, moglie e madre.
A ciascuno di questi personaggi femminili, Marisa Ferrario Denna dedica due poesie, la prima delle quali è un vero e proprio ritratto in versi, in cui si tratteggia l’esistenza della protagonista nei suoi snodi essenziali: famiglia, ambizioni, amori, solitudini, malattie, violenze, morte. Talora tra le righe affiorano addirittura i titoli dei libri scritti , come nel caso dell’Ortese, o si allude alle opere più conosciute. A questa poesia introduttiva, che presenta nei tratti essenziali la figura dell’artista, ed è scritta a volte in prima persona ( in una sorta di autobiografia sovrapposta, di elezione), ma per lo più è rivolta a un tu fraterno, corrisponde in controcanto una seconda poesia, più breve, spesso epigrammatica, in cui l’autrice offre il suo ammirato o impietosito, solidale o consapevolmente amareggiato, omaggio alla donna e all’artista raccontata.
La partecipazione della poetessa è sempre vivissima e empatica, di complice sorellanza e intensa adesione intellettuale: non c’è mai rancore femminista, ma una consapevolezza fiera della dignità del lavoro artistico delle donne, insieme alla constatazione desolata di quanto questa fatica dello scrivere e del dipingere sia stata e sia tuttora spesso osteggiata o sottovalutata dall’ambiente familiare e culturale circostante. E allora la denuncia può essere aspra, il dolore causato dall’incomprensione dei più si fa acuto e risentito: «oh, Sylvia, fissata per sempre/ con gli occhi abbassati,/ in quanti ruoli, dimmi,/ in quanti ruoli furono/ i tuoi anni più dolci così devastati?»

L’elenco delle sofferenze patite da queste scrittrici si esemplifica spesso in percorsi di vita quanto mai tortuosi, sofferti, che sfociano in comportamenti autodistruttivi, in malattie feroci, in suicidi. Quando non addirittura, come nel caso di Isabella Di Morra, nell’uccisione da parte dei parenti.
Marisa Ferrario Denna riesce comunque a decantare ogni violenza, anche la descrizione del più ottuso sopruso, in una scrittura melodiosa, quasi cantata, che fa tesoro di una tradizione millenaria, scegliendo sempre una struttura metrica collaudata, utilizzando endecasillabi e novenari , quartine e sonetti che la ancorano alla norma letteraria e insieme le permettono audaci innovazioni stilistiche.
E’ in questa tonalità discreta e affabile che nascono i versi più abbandonati e lievi, quasi che l’autrice chieda alle sue eroine una dichiarazione affettuosa di amicizia, una preghiera di assistenza e ispirazione, come nella poesia dedicata a Anna Achmatova: «Sei arrivata, amica mia cara, / vieni, beviamoci un tè. / Possiamo parlare del tempo…». Esiste, in chi scrive queste poesie, una pacata e sicura fiducia nella parola poetica, nella sua purezza e gratuità: l’autrice sembra ottimisticamente certa della verità cui può giungere l’arte, nella sua ricerca dell’eterno: «C’è solo il poeta a vincere / il tempo e lo spazio».
E se nell’artista donna può sussistere un timore più accentuato dell’esposizione e del giudizio altrui, che la spinge a chiudersi in se stessa e a rinunciare anche al suo scampolo di gloria («E’ qui che sta la vita rannicchiata. / Al cuore concentrato dentro il corpo / la mente s’introverte. Si rinserra»; «Parole strappo nel tessuto / di un urlo, per anni, sottaciuto»), se è vera quindi questa esitazione femminile nell’offrire al mondo la propria arte, è d’altra parte reale anche un’orgogliosa consapevolezza della propria irrinunciabile singolarità, della fierezza della propria voce. E questo si avverte di più nelle poesie dedicate alle pittrici, quasi che lì il segno sulla carta possa esprimere maggiormente una sua incisiva peculiarità ( «è nella forza del colore / nella potenza dell’ombra e della luce / che ho riposto di me memoria»). Ancora di più si sente questa convinta considerazione di sé nelle dieci poesie dedicate alle figure classiche della storia antica, che non nascondono la loro appassionata e pervicace appartenenza alla loro realtà femminile di amanti, madri, figlie, sorelle, sacerdotesse, filosofe.
E proprio tra questi versi dedicati alla classicità, ne troviamo due che ben definiscono qual è il destino particolare dell’essere donna. «Sorgo e tramonto; e in questo divenire / vado tracciando il cerchio della vita». Legata a doppio filo al suo ciclo biologico, la donna artista se ne sa districare con sofferenza e purissima ansia di libertà: Marisa Ferrario Denna lo racconta con intenerita e ammirata partecipazione.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

RECENSIONI

FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, DA MANI MORTALI – MONDADORI, MILANO 2012

In un suo recente articolo uscito sul sito dell’editore Lietocolle, Biancamaria Frabotta ha scritto: «Ciò che non si può spiegare è spesso solo il sintomo di un fallimento, di una scorciatoia che l’anima prende di fronte ai rischi della semplicità. La semplicità, dice Pasternak in una poesia esemplare, «più d’ogni cosa è necessaria agli uomini / ma essi intendono meglio ciò che è complesso».

Una dichiarazione di intenti, quasi a prendere le distanze da quello che è stato finora il procedere poetico di quest’autrice, finalizzato soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica – talvolta anche provocatoria, comunque sempre innovativa, e di non facile interpretazione. In quest’ultimo libro, in effetti, la complessità dello stile e l’oscurità formale si sciolgono in una discorsività più piana e comunicativa, benché il dettato dei versi non si possa definire “semplice”. Ma è il contenuto, il messaggio che ora balza in primo piano, più che il gioco e il collaudo sulla lingua: un interesse più partecipe a ciò che ci circonda, alla natura, agli uomini, alle cose. Ed è proprio nella prima sezione del volume che la poetessa tocca il vertice più alto della sua scrittura, in questo rapporto riscoperto con la vegetazione, osservata con ammirato stupore, quasi con religiosa contemplazione e solidarietà: «una foglia / pende ancora a lato del legno, trema, / si rimette al vento con l’astuzia dei deboli», «udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante. / Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia /…accorrere dove il ramerino implora una sponda…».

Allora la missione del poeta diventa quella di guardare la vita dal basso (biancospini, ortaggi, molluschi, chiocciole..), collaborando con la misteriosa divinità positiva che protegge e recupera l’innocenza delle sue creature («il fieno / dorme senza diffidenza»), opponendosi all’artificiosità cittadina e metropolitana, alla freddezza delle sue convenzioni. Ed è proprio alla voce dei poeti («acquattati nel pelo del mondo… // scovarli, stanarli / dai loro nascondigli / i pochi (troppo pochi!) poeti») che Biancamaria Frabotta demanda il compito di uno sguardo più puro e salvifico sull’esistente: li nomina, li ringrazia, i suoi amici poeti, se ne circonda nelle pagine e nella vita. Dall’amato Giorgio Caproni che sembra sorvegliare dall’alto una sua irriconoscibile Genova («le gallerie di colpo senza / golfi, seni azzurranti, rive / mancate come ragazze viziate»), alla compianta Giovanna Sicari, ricordata nel martirio della sua malattia, ad altri raccontati nei loro incontri-scontri, nelle frequentazioni reciproche. Le esistenze private, gli amori, i gesti quotidiani comuni a tutti si ripetono come le stagioni, i cicli lunari, in un avvicendarsi di giorni e notti, di sonno e veglia, di vita e morte : «Alzarsi nel buio, strisciare nell’obbligata trincea / lungo le pareti, senza centro, né gravità, arrancare / prendere un po’ d’acqua, perderne altrettanta».

Personale e politico si intrecciano: cronache cittadine e storia ufficiale (dagli echi del declino di un impero romano corrotto alla visita di G.W.Bush in Italia), siccità naturali e terremoti distruttivi, citazioni omeriche e ritratti severi del mondo intellettuale e politico, versi d’occasione e poemetti-testimonianza, con l’unico rischio che al lettore vengano presentati troppi stimoli, troppe circostanze e immagini diverse, troppe emozioni da rielaborare. E se nelle ultime sezioni del volume Biancamaria Frabotta presta la sua voce a un dio umano, eccessivamente umano, anche nella sua impotente incapacità di opporsi al male e di soccorrere al bisogno («Sono le mie debolezze, le mie imperfezioni / a illuminare la mia oscura sintassi»), è forse in questa crudele e dolcissima metafora il significato più vero della sua scrittura: «A nord, lungo il filare dei cipressi / una trave di quercia lentamente / marciva nascosta fra le erbe. I tarli / hanno lavorato, ma il nocciolo è sano. / Certo sosteneva una casa in pericolo».

Ecco: perché la casa pericolante non crolli, può forse bastare la trave bagnata della poesia, la sua indistruttibile forza interiore.

«Leggendaria» n.106,  luglio 2014

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