UMBERTO BELLINTANI, NELLA GRANDE PIANURA – MONDADORI, MILANO 2023

Sono passati più di trent’anni da quando venni a sapere dell’esistenza di un poeta schivo e originale, che viveva e scriveva lontano dai circuiti letterari ed editoriali, Umberto Bellintani, di cui subito cercai tracce, leggendo con commossa ammirazione i pochi versi allora recuperabili.

Bellintani è nato, vissuto e morto (1914-1999) a San Benedetto Po, in provincia di Mantova, e al suo paese, alla pianura e al fiume che lo ha accolto e nutrito, ha dedicato versi sanguigni e delicati, furenti e nostalgici. Dopo aver frequentato da ragazzo una scuola d’arte a Monza, con maestri prestigiosi (Marino Marini, Arturo Martini, Raffaele De Grada…), specializzandosi in scultura, nel 1940 fu richiamato alle armi, combatté in Grecia e Albania, e fu imprigionato in campi di lavoro tedeschi e polacchi dal ’43 al ’45. Tornato a casa, lavorò per tutta la vita come segretario nella scuola media del suo comune. Dopo le prime raccolte poetiche, uscite con notevole successo di critica nel 1953 e nel 1955, non pubblicò nient’altro per trentacinque anni, pur continuando a scrivere e a esporre disegni e sculture. Solo poco prima di morire diede alle stampe due raccolte di versi, la più importante delle quali, Nella grande pianura, viene oggi riproposta da Mondadori nella sua integrità, dagli esordi fino alle ultime composizioni e ad altri inediti. Nel 2004 il regista Franco Piavoli gli ha dedicato il lungometraggio Affettuosa presenza, i cui testi sono tratti dalla corrispondenza, allora inedita, con il poeta fiorentino Alessandro Parronchi, da sempre suo estimatore e  attento critico letterario.

Estraneo allo sperimentalismo e alla neoavanguardia degli anni ’60, ma altrettanto distante dal cronachismo neorealista e dal descrittivismo pacato della linea lombarda, Umberto Bellintani era più orientato verso un lirismo classicheggiante (risuonano in lui echi di Dante, Leopardi, D’Annunzio), capace sia di usare registri bassi e popolareschi, sia di proiettarsi “in una dimensione aperta all’ «immenso della vita», in un’avventura poetica segnata da una violenta, insolita forza espressiva, capace di increspare di continuo il verso e la pagina”, secondo Maurizio Cucchi, curatore del volume di cui ci occupiamo. Fu poeta irregolare, fuori dagli schemi, guardato con qualche sufficienza  dall’establishment letterario e accademico, come si evince dalle parole che gli dedicò Eugenio Montale nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”. Poeta di paese, quindi, addirittura campestre e terragno, alla pari del suo concittadino Virgilio amante della natura, degli animali, del paesaggio. Materia dei suoi versi fu essenzialmente la frazione di Gorgo in cui abitava, e che chiamava “il guscio”: tana, ovile, culla protettiva ma anche prigione e limite, vero e proprio gorgo di passioni contrastanti e scrigno di ricordi (“O mia Gorgo, / amici arrampicati sopra i pali, / allodole nel cuore, canto lieto / alle rive dei fiumi, amici, / salviamo la memoria, la memoria / almeno del riso, la memoria”.

Scriveva dei suoi compaesani, redigendo una cronaca malinconica di nascite, malattie, tradimenti, lutti. Tra i vivi, avvertiva una solidarietà sociale e politica – visceralmente “di classe” –, per gli sfruttati, i contadini e gli operai (“Poveri affaticati nelle membra, / servi della gleba, paria, / per noi la morte è riposo”), esprimendo inoltre un coinvolgimento turbato nei riguardi degli infelici nel corpo e nella mente, come il ragazzino che di notte, terrorizzato dai rumori e dalle ombre nel buio, aveva perso la parola “e il senso naturale delle cose”. Verso i morti nutriva una familiarità pietosa e stizzita; la sua Spoon River padana abbraccia con uguale indulgenza buoni e cattivi, vittime e carnefici: “I poveri morti sono i miei fratelli / passeggio con loro per il cimitero, / non vi è nessuno che abbia il cuore felice. / Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato / in questa vita così fatta per gli uomini; / chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino / e ha distrutto le colture, e chi la donna / dell’amico ha condotta a perdizione”. In questa dedizione al ricordo, alla memoria collettiva e personale, è presente uno sguardo complice alla storia universale, delle trasformazioni geologiche e dei grandi eventi politici: “Amo il passato. In esso mi ritrovo / nell’unno forte, nell’ominide che balza / sopra la preda, nell’urlar del dinosauro”.

Il senso profondo di fratellanza che lo accomunava a tutto l’esistente, si riflette in particolare nel mondo animale, non solo in quello a lui prossimo, ma anche nell’universo delle creature fantastiche create dalla sua visionaria immaginazione. Il gatto e la rana, “voci dell’arcano”, e poi mucche, uccelli, pesci, cani, in una metamorfosi che lo rendeva loro uguale: “Sono un topo di campagna, sono il grillo / che nel cuore mi ricanta ogni sera / se l’ascolto dal paterno focolare”, “Il grande ragno che mi sta nel cuore, / la tarantola maligna della mia sofferenza”. Un bestiario medievale e futuristico, onnivoro e consolatorio, a cui dedicava espressioni di gratitudine: “Le mie parole sono capra / ed erano capra e pecora / le mie parole sono zappa / e asino vanga e pietra / per affilare la falce erba / medica farfalla e ragno / nella ragnatela al sole / nel granturco e mulo erano / e cavalla scrofa carretto / le mie parole amate”. Dall’immersione visiva nelle savane e nelle foreste africane, popolate da gorilla, giraffe, bufali, iene, gazzelle ed elefanti, passava al panorama apocalittico de “La terra spenta”, rinsecchita e disabitata, con i calabroni ronzanti su ossa umane dissepolte, in un paesaggio dominato da insetti: “E fu il tempo e lo spazio inondato dai ragni. / Orrendo a dirsi coprivano ogni cosa, / e non fu posa nel mondo sinché / d’esseri alfine non rimase che lo scheletro”, sempre tornando poi alle stalle, ai canili, ai fossi della sua terra. Così fa anche la mucca che in cima all’altura spaventa il paese col suo potente muggito (“e si poteva ben crederla il più grandioso dio”), ma all’arrivo del buio rientra nel recinto “come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino”.

All’animalità del proprio corpo, negli aspetti più materiali, sono dedicati i versi di All’aperto, in cui “L’uomo che sta accucciato nella vecchia latrina”, nella più prosaica soddisfazione dei suoi bisogni, appena tornato fuori si riconosce “padrone di tutto ciò che vede / e sente attorno a sé e lontano: / sia la distesa di campi, sia il bosco del barone / proprietario di pianure e di montagne; / sia la tana del topo, sia il gorgo impetuoso / del fiume che agguanta e annega un temerario / o sfortunato nuotatore; / e sia la nube del cielo e il sole e lo spazio / e tutto il passato e futuro giro del tempo”.

In versi di fuoco malediceva chi vigliaccamente si divertiva a distruggere i nidi degli uccelli, facendone cadere i piccini “ancora ignudi”, e chiunque – uomo o animale – recasse violenza agli indifesi, ai deboli, come nella poesia bellissima e crudele, che forse meglio racchiude lo spirito indocile della sua scrittura: “Poiché veramente sono fratello / del topo nella bocca della gatta / che svelta se ne corre via / e sopportare non posso il ragazzo / scemo che inchioda al tronco / dell’acero la lucertola // ecco che uccido il ragazzo / con il cuore e gli tronco le mani, / poi rendo la testa della gatta / in poltiglia con colpi di pietra / ed è davvero perché sono fratello del fossato / della latta arrugginita e dei ciottoli / della strada e di ogni essere che vive o non vive / ecco che amo e odio follemente il mondo”.

Bellintani aderiva con furore mistico all’amore francescano per tutte le creature, all’ingiusto sacrificio del Golgota e a un senso paganeggiante e panteistico del divino, lontano dalla ritualità del messaggio clericale, e invece intriso dell’animismo primitivo che rende l’uomo un’unica cosa con l’esistente non-umano, bestie, piante, nuvole, terra: “Forse non esiste Dio. Forse / solo il rapporto / fra noi esiste e gli alberi / annosi o appena d’anni / uno e le erbe / e i coccodrilli e il buon tepore / della sera”, “Quest’albero era / quando ancora non erano / i nostri padri i nostri avi. / Ed ecco io sento che qualcosa gli devo, / ma non so cosa, amici, ma la mano / mia ecco lo accosta e lo carezza, / e tutta trema la mia mano, amici”. La terra, quindi, quella umida o inaridita che patisce le piene e le secche del Po, la pianura millenaria sempre uguale a sé stessa nella sua distesa uniforme è la vera nutrice e ispiratrice della sua poesia: “E ditemi voi se non è bella una pianura verde / tutta gremita di margherite e bianchi scheletri”, “case morte della mia pianura / vite spente della gioia / aie al sole della luce / mia tristezza che non taci mai”, “Io cara mi espando nella grande pianura / ed estasiato l’ammiro…. // È la mia pianura ancor più vasta e sonora d’un gran mare”.

La grande pianura padana, oggi resa uniforme e grigia dalla cementificazione, privata dei suoi profumi dai miasmi industriali, attraversata da corsi d’acqua sempre più sofferenti e umiliata da rivendicazioni sovraniste, si staglia nei versi di Umberto Bellintani nella sua antica bellezza, di natura primigenia e profonda umanità.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 27 aprile 2023