GIANFRANCO BETTIN, CRACKING – MONDADORI, MILANO 2019

In questi giorni in cui Venezia e il suo hinterland sono saliti drammaticamente alla ribalta, il nuovo romanzo di Gianfranco Bettin (Marghera 1955) ci introduce nei sulfurei meandri di un sistema produttivo e culturale veneto rischiosamente alterato, tra fabbriche dismesse, acque inquinate, effluvi di gas cancerosi, giovani allo sbando e un sottoproletariato rabbioso, nella tradizione di narrativa industriale che la letteratura nostrana ha colpevolmente abbandonato. Bettin nel 1989 aveva ottenuto un lusinghiero successo con Qualcosa che brucia – pubblicato da Garzanti e ripreso da Baldini Castoldi nel 2003 -, romanzo in cui descriveva la degradazione della Venezia mercantile, tra l’abbrutimento del lavoro nei capannoni, consumo e spaccio di droghe, rapporti interpersonali ridotti a violenza, sopraffazione, sfruttamento.

In Cracking, uscito quest’anno da Mondadori, persiste nel suo determinato e riconosciuto impegno civile e politico, già attestato da una lunga militanza nel Partito dei Verdi e nella sinistra radicale, e da un’attività di scrittore transitante dal reportage alle collaborazioni giornalistiche e ai romanzi di invenzione.

Cracking narra la vicenda umana di Celeste Vanni, operaio in pensione del Petrolchimico di Porto Marghera, ossessionato nella quotidianità e nell’inconscio dall’incubo degli effetti venefici provocati dall’inquinamento dell’ambiente naturale e sociale. In una gelida notte d’inverno del 2014, il protagonista, protetto da un pesante abbigliamento da scalatore, si arrampica sulla ciminiera più elevata della zona portuale della laguna di Venezia. Dall’alto osserva lo spettrale panorama che gli si apre davanti: i pochi impianti rimasti in funzione, e poi tralicci, gru, torri di raffreddamento, la centrale elettrica. Più in là, nel porto, le luci dei cantieri navali, i transatlantici in attesa, i carriponte con i nastri trasportatori; la ferrovia con i treni in transito e i binari morti coperti dalla vegetazione. Una visione spettrale che, avendo fatto da sfondo alla sua vita intera, adesso riconsidera con affettuosa malinconia mista a rancore, abbandonandosi ai ricordi della giovinezza e del suo passato lavorativo.

Cosa ci fa un robusto pensionato sessantenne, appollaiato nel buio stellato e ventoso di gennaio, a 150 metri dal suolo, in un temerario atteggiamento da cospiratore, avvolto dalle “sapide esalazioni che salgono dalla terra incarbonita: arsenico, furani, diossine, metalli pesanti”? E soprattutto, chi è Celeste Vanni? Bettin ne ripercorre la vicenda esistenziale, comune a molti operai nati nel dopoguerra e cresciuti sul litorale veneto all’epoca dell’industrializzazione incontrollata: vita scissa tra un’occupazione ripetitiva e sfibrante, l’impegno politico e sindacale, il volontariato, con poche pause ricreative offerte dallo sport, dalle scarpinate in montagna, dalle cene con gli amici. Accanto a lui, a sostenerlo con fedele dedizione, la moglie Rosi, sua compagna dall’adolescenza. Entrambi orfani presto, figli dello stesso retroterra povero e rivoltoso, lei lo aveva aspettato quando era finito in carcere per rapina, convertendolo a una realtà più laboriosa e tranquilla. Celeste faceva i turni al Petrolchimico, Rosi la cameriera nella locanda dello zio. Alla morte della moglie per cancro, lui si ritrova solo e spaesato, ma deciso ad agire per salvare quello che resta della dignità di un territorio calpestato.

La storia privata del protagonista si intreccia, nella narrazione secca e puntuale di Bettin, con la storia sociale e politica della nostra nazione, nelle sue pieghe più drammatiche e scandalose, con la strage dei morti sul lavoro, la contaminazione dell’ecosistema a lungo negata, le malattie professionali derivate dagli effetti tossici del cloruro di vinile e di altri agenti chimici. L’indignazione dell’autore, militante ecologista, si fa tangibile nella descrizione documentata dell’avvelenamento metodico e programmato dell’intera laguna, in un lungo elenco di acidi, solventi e fosfati dai nomi impronunciabili. Poi il suo punto di vista si allarga su diversi fatti tragici che dagli anni di piombo fino al nuovo millennio hanno colpito Marghera e il basso Veneto: le attività criminali della banda del Brenta, l’uccisione di due dirigenti e di un commissario di polizia da parte delle Brigate Rosse, l’infiltrazione capillare di mafia e ’ndrangheta nella regione. La malavita nei decenni si era evoluta: dalle rapine e dallo spaccio di droga aveva allargato i suoi tentacoli sullo smaltimento dei rifiuti, sulle operazioni di bonifica e il riuso dei terreni inquinati, sulle gare di appalto, sulla conversione di fabbriche decotte. Nemmeno gli ingenti flussi di turismo verso Venezia erano rimasti indenni da corruzione e delinquenza organizzata.

L’industria chimica lentamente e inesorabilmente era stata smantellata secondo un preciso piano politico-finanziario-industriale, falcidiando vittime tra gli operai e le loro famiglie. Celeste Vanni pensa a loro, alla fabbrica cui ha regalato decenni di vita, all’unico reparto di cracking rimasto in funzione per spezzare le molecole pesanti del petrolio trasformandole in composti organici più leggeri, di idrogeno e carbonio. Pensa ad altri “cracking”, a fallimenti personali e collettivi che gli hanno sconvolto l’esistenza. Ha in mente una “cosa semplice ed estrema”, un atto dimostrativo di solidarietà verso i compagni che hanno perso il lavoro. Indossa l’imbracatura da montagna e con una lunga fune si cala fuori dalla ringhiera di protezione, lasciandosi penzolare nel vuoto.

Centocinquanta metri più sotto si radunano poliziotti, giornalisti, lavoratori. I video e le foto che lo ritraggono “appeso là in alto, messo a fuoco in primo piano, che sembri un Cristo in cielo…”, vengono trasmesse sui media internazionali. L’anziano operaio Celeste Vanni, oscillante nel buio della notte come un’ultima e coraggiosa bandiera di libertà e ribellione, diventa simbolo di lotta, resistenza e denuncia, contro un’economia corrotta, pronta a sacrificare uomini in favore del profitto economico.

 

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20 novembre 2019