MARIO BONANNO, IL NEMICO NON È – PAGINAUNO, VEDANO AL LAMBRO (MB), 2021 p.148

L’editore PaginaUno ha da poco pubblicato Il nemico non è, volume in cui Mario Bonanno racconta come i più noti cantautori italiani si siano fatti portavoce della volontà popolare di impegno civile, di antagonismo di classe, di protesta politica, di pacifismo, negli anni appassionati in cui il conflitto sociale occupava le prime pagine dei quotidiani e le coscienze della gente. Bonanno (Catania, 1964) ha pubblicato diversi libri e saggi sulla canzone d’autore italiana.  Nel 2007 ha fondato il periodico Musica e Parole di cui è stato direttore fino al 2013, e oggi collabora a diverse testate giornalistiche, a blog e riviste.

Introducendo il suo saggio, sottolinea quanto sia cambiata la canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni del boom economico. Al paese depresso e sconfortato che tentava di risorgere moralmente ed economicamente servivano testi consolatori e incoraggianti, retorici, edulcorati, che offrissero modelli stereotipati di famiglia, amore, patria: Vola colomba, con cui Nilla Pizzi vinse a Sanremo nel 1952, era il prototipo del sentimentalismo più trito e inoffensivo. Ad esso si contrapponeva, già nel 1962, Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco, che raccontava di una relazione imperfetta, annoiata e vissuta con la consapevolezza sincera della relatività di ogni rapporto sentimentale. In seguito, sulla spinta delle canzoni di protesta provenienti da oltreoceano (Bob Dylan e Joan Baez), ma recuperando anche il repertorio popolare dei canti di lavoro di fine ottocento (la cui eco risuonava nella produzione di Pino Masi, Ivan Dalla Mea, Giovanna Marini, ecc.) e delle “canzoni della mala” (Strehler, Amodei, Fo, Svampa, I Gufi) portate al successo da Ornella Vanoni, iniziò a farsi strada la canzone d’autore, connotandosi come rappresentativa delle istanze politico-sociali di un intero decennio. Dopo il 1968, nuovi contenuti animarono testi e musiche di una schiera di cantautori che seppero trarre ispirazione e volontà di denuncia dalla storia contemporanea, aprendosi alla realtà circostante allora politicamente sensibile e attenta alle dinamiche di lotta e resistenza sia nei conflitti bellici internazionali, sia nello scontro esistente tra Potere e individuo.

La parte più corposa del volume di Mario Bonanno (il cui titolo è tratto da una canzone di Enzo Jannacci, Il monumento) riguarda i testi – riportati e commentati nella loro interezza – dei cantautori dichiaratamente schierati contro ogni tipo di violenza e ingiustizia.

Racconta quindi gli esordi corrosivi di Edoardo Bennato, violentemente antimilitaristici e polemicamente contrari a ogni indottrinamento ideologico impartito dalle istituzioni (famiglia, scuola, chiesa); l’insofferenza nei confronti di ogni  forma di sistema repressivo in Pierangelo Bertoli, fedele a un’accezione marxista di lotta di classe; l’umanesimo poetico di Massimo Bubola; l’ironia svagata ed evocativa di Mario Castelnuovo; il sarcasmo di Mimmo Cavallo; le rivisitazioni storiche di Edoardo De Angelis; la malinconica goliardia di Ivan Graziani; la vertiginosa dinamicità tra presente e storia di Mimmo Locasciulli; l’interesse per le aritmie sociali di Claudio Lolli, l’operaismo di Paolo Pietrangeli, il surrealismo di Gianfranco Manfredi.

Passa poi in rassegna il repertorio degli interpreti maggiori, illustrando le loro canzoni più agguerrite nel denunciare il sistema di potere che schiaccia, corrompe, disarma non solo attraverso lo schieramento di eserciti e l’armamentari bellico, ma anche con metodi educativi e repressivi che condizionano le esistenze dei singoli. Conflitti e soprusi che schierano “uomini contro altri uomini, idee contro altre idee, divise (mentali e non) contro divise”.

Il pacifismo di Fabrizio De André esprime forse il suo tratto ideologico preponderante: “L’idea di pace secondo De André è subordinata a una rivendicazione di libertà, di affrancamento, di presa di distanza dai (dis)valori borghesi. Passino essi da religione, guerre sante, governi e bandiere, di qualunque estrazione”. Il suo impegno pacifista, già esplicito in Fila la lana del 1965, anima canzoni diventate un simbolo dell’antimilitarismo: Girotondo, La ballata dell’eroe, La guerra di Piero, Fiume Sand Creek fino ad Anime salve, del 1996. Con lui, Francesco De Gregori ha rivestito un ruolo rivoluzionario nella nostra canzone d’autore, come portatore di un linguaggio formalmente inedito (“doppi e tripli sensi, ossimori, impennate, metonimie, simbologie palesi e/o sottese, sinestesie spiazzanti, apparenti nonsense”), attraverso cui veicolare contenuti di dirompente carica sovversiva, rileggendo memorie individuali e collettive senza alcuna pesantezza didascalica e restituendole al loro reale valore di testimonianza storica: 1940, Il cuoco di Salò, Pilota di guerra, La storia, Cercando un altro Egitto, Generale, Saigon, San Lorenzo. La ricca discografia di Eugenio Finardi lo indica come rappresentante di una generazione inquieta, alla ricerca di una propria identità, sia nell’ambito politico che in quello privato e familiare, avendo come elemento caratterizzante il rifiuto dell’autoritarismo e di ogni sopraffazione istituzionalizzata (Quando stai per cominciare, Giai Phong, Soweto). Di Ivano Fossati Bonanno mette in luce la sensibilità priva di declamazione con cui si suggeriscono stati d’animo interiori più che avvenimenti esterni (Dieci soldati, Poca voglia di fare il soldato, Speakering, L’abito della sposa, Bella speranza, Treno di ferro). Speculative, filosofiche più che politiche sono le ballate di Francesco Guccini (Amerigo, Eskimo, Auschwitz, Primavera di Praga, Il matto, Noi non ci saremo, L’atomica cinese, Il caduto), in cui il cantautore emiliano si interroga “sull’ambiguità che fa da    sfondo all’esistenza umana”. Con Vincenzina e la fabbrica Enzo Jannacci (“ossimoro vivente”) scriveva una poesia di epica quotidiana, estendendo il concetto di guerra allo sfruttamento sul posto di lavoro, tema ripreso in La costruzione. In Matto e vigliacco, un outsider della nostra canzone come Gino Paoli fece dell’obiezione di coscienza l’atto di disobbedienza civile per antonomasia. Il disincanto e la protesta di Luigi Tenco diedero voce al rifiuto della guerra in Io vorrei essere là e in E se ci diranno. Filosofia e storia nutrono le narrazioni di Roberto Vecchioni (Waterloo, Aiace, Gaston e Astolfo, Millenovantanove, Tema del soldato eterno e degli aironi, Il cielo di Austerlitz, Shalom).  Epos e impegno si ritrovano anche nella prima produzione di Antonello Venditti (L’orso bruno, Le cose della vita, Brucia Roma, Ma che bella giornata di sole).

A questo esauriente e dettagliato capitolo sui testi pacifisti e antimilitaristici, Mario Bonanno fa seguire altre importanti sezioni dedicate agli anni di piombo e alle istanze movimentiste del ’77, quando la contestazione si fece più dura, gli scontri di piazza più pesanti, la divaricazione tra società civile e classe diri gente sempre più accentuata: anni di stragi, di tentazioni golpiste, di lobby occulte. Ancora una volta furono gli stessi cantautori sensibili al disagio sociale a interpretare la rabbia popolare e la voglia di partecipazione e di cambiamento dello status quo. Giorgio Gaber firmava con La presa del potere e Io se fossi Dio “una radiografia impietosa delle cancrene di una nazione in rovina”.

Non solo colombe che volano, io tu e le rose, tuca-tuca e cuori matti, quindi, nel repertorio della musica leggera del nostro paese. Il nemico non è offre un’ampia e documentata rassegna di canzoni che, con la poeticità dei loro testi, hanno saputo opporsi alle logiche del mercato, del facile consumo, del disimpegno di massa, rifiutando l’enfasi e la retorica degli anni cinquanta, e offrendo un degno contraltare al vuoto e alla futilità della produzione attuale. Le due interviste a Finardi e Lolli riportate da Mario Bonanno a conclusione del volume ne suggellano meritevolmente il messaggio di risoluto impegno intellettuale e politico.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 17 aprile 2021