Mostra: 61 - 70 of 75 RISULTATI
INTERVISTE

RONCHI

 

 

 

INTERVISTE

ROVELLI

Carlo Rovelli e la poesia

Fisico e saggista (Verona 1956), dopo essersi laureato in fisica presso l’Università di Bologna, Carlo Rovelli ha svolto il dottorato all’Università di Padova. Ha lavorato nelle Università di Roma e di Pittsburgh, e attualmente è ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille. I suoi studi vertono soprattutto sulla gravità quantistica. Si è anche occupato di storia e filosofia della scienza con il libro Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (2011). Tra le sue altre opere: Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio? (2010), Sette brevi lezioni di Fisica (2014, tradotto in 41 lingue, con una diffusione di oltre un milione di copie), L’ordine del tempo (2017, da cui la regista L. Cavani nel 2023 ha tratto l’omonimo film), Helgoland (2020), Relatività generale (2021) e Buchi bianchi (2023).
Collabora regolarmente con il Corriere della Sera, in particolare con il supplemento La Lettura. I suoi articoli sono apparsi sul supplemento culturale de Il Sole 24 Ore, e saltuariamente su la Repubblica, sul Guardian e sul Financial Times.

Professor Rovelli, ricorda quando è stato il suo primo approccio a un testo poetico, e quale è stata la prima poesia che ha imparato a memoria?

Forse la prima poesia che ho imparato a memoria è stata La Madre di Ungaretti. Penso sempre che sia stata una grande ricchezza aver imparato versi a memoria da ragazzo.

Le capita tuttora di leggere raccolte di versi, e preferisce gli autori classici o i contemporanei, gli italiani o gli stranieri?

Si, mi capita di leggere poesie. Preferisco i grandi classici. Amo molto Orazio per esempio. Ma leggo anche di tanto in tanto poesie contemporanee…

Sono noti il suo impegno politico, e l’adesione convinta al movimento pacifista. Tra i libri di poesia predilige quelli che danno voce a istanze civili, e in particolare di quali autori?

Trova che esista una corrispondenza tra l’intuizione artistica di chi scrive poesia e l’intuizione scientifica di chi ricerca lo svelamento di un mistero nella materia? In entrambi i campi non sono forse necessarie notevoli doti creative?

Penso che ci sia una vicinanza profonda fra la scienza migliore e la migliore poesia, perché entrambe sono modi per aprire uno sguardo nuovo sul mondo, per farci vedere qualcosa che prima non vedevamo, o vedevamo solo confusamente. Entrambe si aprono mondi.

Ha letto poeti che nella loro produzione si siano ispirati alla scienza? Recentemente Bruno Galluccio (fisico che si è occupato di telecomunicazioni e sistemi spaziali) ha pubblicato tre volumi nella collana bianca di Einaudi…

Esiste una diffidenza nei lettori sia verso il linguaggio poetico sia verso il linguaggio scientifico. Ritiene che tale difficoltà inerisca alla struttura specifica di entrambi i codici espressivi e alla scarsa dimestichezza con i metodi delle due diverse discipline, o a semplice disinteresse?

Penso che serva un apprendistato, un imparare, in entrambi i casi, che spesso non è semplice. Come tutte le cose che nella vita valgono la pena, serve fatica per arrivarci.

Si, molto spesso. Soprattutto i Canti di Leopardi. Ne ho imparati alcuni a memoria da ragazzo e quando sono solo, magari all’aperto, me li ripeto nella mente. E li trovo sempre meravigliosi. Il Passero Solitario per esempio, mi accompagna spesso…

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 14 ottobre 2024

INTERVISTE

RUCHAT RONCATI

floraFLORA RUCHAT RONCATI, ARCHITETTO

  •  Non è del tutto scontato che una donna eserciti la professione di architetto arrivando a occupare una posizione di grande rilievo nel suo paese, proponendosi, quindi, come punto di riferimento. Che ruolo hanno avuto, nella sua formazione, se non nella sua vocazione, l’ambiente familiare e quello culturale in cui è cresciuta?

Tendo quasi istintivamente a smitizzare il concetto di “vocazione” nel senso di richiamo imperioso a esercitare una particolare funzione nella vita. Credo che molte delle esperienze che ci troviamo a vivere siano piuttosto frutto del caso, di una serie di circostanze spesso imprevedibili. Almeno, a me è capitato che le grosse scelte – quelle gravide di conseguenze anche esistenziali – si siano imposte quasi da sole: penso agli studi a Zurigo, ai primi lavori in Ticino, alla parentesi romana. Comunque, può anche aver avuto un suo peso il fatto che io sia nata da una famiglia di costruttori, e che quindi abbia respirato sin da piccola un certo tipo di problematiche (ma anche un vocabolario, una sensibilità) relative al mondo dell’edilizia. Intendiamoci, mio nonno era muratore, e ha vissuto tutto dall’interno il destino del ticinese emigrato costretto a mettere radici in vari paesi…

  • Il Ticino, appunto, tradizionalmente considerato fucina di architetti, che importanza ha avuto nel plasmarla: prigione o trampolino?

Mi ha ovviamente condizionata, nel bene e nel male: gli anni del liceo a Lugano sono stati molto intensi, fondamentali soprattutto da un punto di vista affettivo. Ma già allora provavo prepotente la voglia, la spinta a evadere, a uscire dai suoi confini, a confrontarmi con una realtà più vasta…Zurigo è stata una scelta obbligata: era in pratica l’unico sbocco per chi – ticinese – volesse andare all’università, perché la guerra, ma in particolare il fascismo, avevano interrotto il rapporto con l’Italia che si è ricucito solo molti anni dopo. Ho vissuto Zurigo, all’inizio, con un senso di estraneità pressoché totale: la barriera della lingua costituiva una specie di diaframma tra noi e l’esterno, ancora oggi mi accorgo di non possedere il tedesco pienamente… Ma la città mi coinvolge sempre di più, tant’è vero che ogni volta che mi si è offerta l’occasione di tornarci l’ho colta al volo.

Ritornando al periodo degli studi, parecchi problemi hanno condizionato tutti quegli anni. Ricordo comunque con gratitudine e rispetto in particolare la figura di Tami, ma anche quelle di Roth e Waltenspühl, miei docenti all’ ETH. Un primo concorso pubblico, che poi ho vinto, ha segnato il mio inserimento forzato nella professione, e il ritorno in Ticino. Qui – ed è la seconda fase del rapporto con il mio cantone – per dodici anni ho lavorato a una serie di progetti nel campo dell’edilizia scolastica e residenziale, sia da sola sia in collaborazione con altri colleghi. Oggi torno spesso in Ticino, ma quasi essenzialmente per godere di quelle amicizie e di quegli affetti (persone e spazi) che durano una vita…

  • Recentemente, in una conferenza all’ETH, ha esordito affermando che «parlare architettura» è più facile che «parlare di architettura». Premesso che sono convinta che lei sappia fare molto bene entrambe le cose, quali sono state le tappe più significative della sua attività?

Negli anni ’60 si viveva in un clima particolare, pieno di entusiasmi e di utopie. Lavorare nell’edilizia scolastica significava anche essere coinvolti in un grosso processo pedagogico, e quindi politico, che mediavamo attraverso la nostra unica arma: l’architettura, a cui allora attribuivamo un ruolo strutturale, convinti che anche attraverso il discorso architettonico si potesse cambiare il mondo. Ciò comportava prese di posizione, polemiche, spesso anche rischi economici. Di quel periodo vorrei menzionare i progetti dell’asilo di Chiasso, della scuola di Riva S.rVitale e dell’asilo di Viganello. Agli anni ’70 appartiene invece una realizzazione molto discussa, il bagno pubblico a Bellinzona, in collaborazione con Galfetti e Trümpy, che è stato in pratica il mio intervento conclusivo in Ticino. Nel ’75 mi sono trasferita a Roma, dove ho vissuto per un decennio, e questa esperienza ha soddisfatto una mia ansia di uscire dai confini della Svizzera, di confrontarmi con altre realtà che mi portavo dentro dall’adolescenza. Roma è una città che comunque non può lasciare indifferenti, incide a fondo. Vivere a fianco di tanti esempi di splendida armonia architettonica, stratificati in duemila anni di storia, è un continuo stimolo: e in confronto aiuta anche a ridimensionarsi, riducendo le ambizioni. Purtroppo a Roma, quando si tratta di produrre praticamente (mi occupavo soprattutto di progetti residenziali e di recupero nel meridione), il discorso si fa complesso, ci si scontra con difficoltà di ogni genere, dalle preesistenze archeologiche, ai vincoli normativi, alle pastoie politico-legali, a un’inerzia atavica che rende tutto più difficile, ma comunque sempre coinvolgente e in qualche modo possibile.

Nell’85 mi è stata offerta la cattedra di Progettazione all’ETH di Zurigo, e ho accettato con qualche titubanza ma soprattutto con curiosità. Una scommessa! L’impegno didattico mi assorbe moltissimo, più del previsto, ma cerco di non trascurare il mio lavoro più propriamente pratico, confrontandomi e verificandomi continuamente con esso. Solo così penso sia possibile travasare onestamente qualcosa di proprio nell’insegnamento quotidiano; è facile altrimenti farsi spremere come un limone, e rimanere a secco…

  • Il lavoro di uno scrittore, di un pittore, è reso inconfondibile da stilemi personali, da segni di riconoscimento. Qual è il tratto che più caratterizza le sue opere?

Penso faccia stato la storia: gli infiniti esempi noti e meno noti che ci precedono costituiscono la linfa del nostro lavoro di «ricerca paziente». Evidentemente tra essi emergono figure che ci sono più consone e ci accompagnano costantemente allargando ( ma in qualche modo anche limitando, con le necessarie esclusioni) il repertorio di riferimento. È probabile che chi guarda un mio disegno, osserva una mia realizzazione, riesca a individuare una verità che mi appartiene. Anche se un architetto non è mai del tutto autonomo nel suo lavoro, deve rispondere delle sue scelte a un committente, ed è vincolato da precisi limiti e condizioni da rispettare… L’architettura è cambiata pochissimo, eppure è databile: ecco, il tentativo è quello di rispondere ai problemi di oggi con i mezzi di oggi, in un linguaggio attuale, vivo.

  • Esiste una specificità femminile nell’architettura?

Ci credo poco. In ciò che risulta dal lavoro direi di no: alla fine il progetto è lì, «in carne e ossa», o sulla carta, e il suo valore o il suo livello si giudica in assoluto, senza distinzioni di sesso. Esiste, invece, un modo diverso di lavorare: la donna è più insicura, quindi più capace di recepire positivamente la critica e di rimettersi in discussione, proprio perché da poco è arrivata a questo stadio produttivo. In genere non pretende di lasciare la sua traccia, le basta lasciare una traccia, senza avere la pretesa di inventare nulla. Inoltre c’è una grossa differenza nel gestire il proprio privato, che è indubbiamente più complesso e dispersivo per una donna che per un uomo, soprattutto nei riguardi della famiglia, della routine domestica…

  • Ci può illustrare la novità e il significato di questa mostra basilese che la vede tra i promotori?

La preparazione è stata un’esperienza piacevolissima per me – la prima di lavoro tra sole donne. Tre età, tre culture, tre stili, e nessun conflitto! Ci siamo poste l’obiettivo di comunicare, attraverso la manipolazione dello spazio concesso, alcuni aspetti indotti e/o congeniti della donna oggi, nei suoi ruoli diversi e compresenti, nel tentativo di lanciare al visitatore (senza distinzione di sesso) una provocazione a reagire, in bene o in male, forse a riflettere… La mostra è tutta lì da vedere, fino alla fine di giugno. È iniziata per caso il primo di aprile…Un pesce?

«Agorà» (Svizzera), 10 maggio 1989

INTERVISTE

SAYA

Pubblicare un libro di poesie: intervista all’editore Marco Saya
 MARCO SAYA, EDITORE E POETA

 

Le edizioni Marco Saya, attive a Milano dal 2012 (www.marcosayaedizioni.net), si occupano prevelentemente di pubblicare e diffondere poesia. Ecco un’intervista all’editore.

 

  • Brevemente, qualche cenno alla sua biografia.

Un passato da informatico e una vita parallela presente che trascorre tra un grande amore per il jazz, la scrittura poetica e una neo casa editrice. Sono nato a Buenos Aires. A tre anni sono stato dirottato a Rio de Janeiro, prima di approdare definitivamente a Milano a dieci anni. Dopo il diploma al liceo classico Giovanni Berchet e una lunga frequentazione universitaria presso la facoltà di Ingegneria Elettronica, mi sono dedicato per anni al jazz come chitarrista professionista, alla poesia con diverse pubblicazioni e alla collaborazione con numerosi siti letterari.

  • Quando e spinto da quali motivazioni ha aperto la sua casa editrice?

Ho aperto la casa editrice nel gennaio del 2012. Perché? Premetto che sono un editore che non chiede contributi all’autore. Normalmente sono sempre i soliti noti che pubblicano con i soliti editori nel solito scambio di figurine, tralasciando tutto un mondo di altrettanto ottimi poeti, spesso esclusi dal mercato dello scambio delle figurine. Non si tratta dunque di incrementare il numero di player nel catalogo della Panini, ma di dare voce a chi merita di essere selezionato e pubblicato secondo alcuni parametri in parte soggettivi, legati a un gusto personale, in parte indirizzati all’individuazione di un’univocità e ricerca della scrittura poetica che non sia omologata come tantissima poesia del 900. È inutile aprire una casa editrice che sia una copia sbiadita di tante altre, deve esistere per tutti la possibilità di dare voce a una creatività che non sia solo “imprenditoriale”!

  • Quali difficoltà trova oggi, sul mercato librario, un editore che si occupi principalmente di pubblicare poesia?

La prima difficoltà riguarda la distribuzione, ma è anche vero che sono pochissimi i lettori di poesia e dunque questo potrebbe essere un falso problema. Semmai ci dobbiamo domandare come poter incrementare il pubblico dei lettori. Personalmente mi affido e mi trovo bene con i distributori online. Per un editore il conto vendita presso un libraio non è, di questi tempi, un buon affare. Il libro, poi, si vende solo nel caso di una presentazione ben organizzata, e sottolineo il “ben organizzata”.

  • Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica italiana attuale? Perché la poesia riscuote così poco interesse tra i lettori?

La poesia dovrebbe anche arrivare al lettore/lettore e non solo, come spesso avviene, al lettore/autore. Troppi scrivono e pochissimi leggono: e chi scrive, quasi sempre, non legge gli altri. Nei primi sette mesi di quest’anno sono usciti circa 2000 titoli di poesia. Come è possibile, a questo punto, giudicare la produzione poetica attuale? Aggiungo che, secondo me, manca anche una critica (a parte qualche rara eccezione) che sappia discernere e voglia indicare nuove vie. Spesso si preferisce rimanere nei tradizionali orticelli dei già collaudati. Come editore pubblico solo 12 titoli all’anno, sperando così di poter dare una buona visibilità all’autore/autrice tramite una serie di presentazioni: l’unico modo, a mio avviso, di far conoscere e promuovere degnamente un autore. Poi, come sempre, sarà il tempo e un lettore attento a decidere se l’editore avrà operato delle scelte che caratterizzino la poetica di quel determinato scrittore.

  • Lei scrive versi. Cosa ha pubblicato finora e quali sono i poeti che sente più vicini alla sua sensibilità?

Ho pubblicato diverse raccolte, l’ultima dal titolo Filosofia spicciola nel 2014. Amo soprattutto Montale e la sua ironia presente in parte della sua vasta produzione, e poi il suo modo di intendere la poesia come “filosofia dell’esistenza”, le risposte che suggerisce discretamente alle eterne domande, al quid irrisolto che ci accompagna nella nostra fragile consapevolezza umana. E poi Ungaretti, Zanzotto, Caproni, Fortini…Ma sono tanti i poeti che amo.

  • Concluda questa breve intervista con un suo verso che le stia particolarmente a cuore.

Basterebbe una sola poesia, / quattro versi che possano girare il mondo / con le proprie parole. / Di questo si tratta, / scrivere questi quattro versi.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Pubblicare-un-libro-di-poesie.html

3 settembre 2015

INTERVISTE

SEVERINI

                              Paola Severini e la poesia

Intervista alla conduttrice radiotelevisiva e giornalista Paola Severini, attiva nella difesa dei diritti umani, sul suo particolare rapporto con la parola dei poeti.


Paola Severini (Roma 1956), giornalista, saggista, ricercatrice universitaria, conduttrice e
produttrice radiofonica, televisiva e cinematografica, è una nota attivista per i diritti umani.
Laureata in Sociologia, nel 1996 ha fondato la Cooperativa Superangeli poi trasformatasi in
Superangeli srl che edita l’agenzia Angelipress.com (nata 25 anni fa); è segretario generale del
Comitato Internazionale Viva Toscanini e coordina l’Archivio Storico Piero Melograni. Grazie al
suo continuo impegno, alle attività svolte nei confronti degli Enti di Terzo Settore e alla sua lunga
esperienza nel mondo cattolico, è considerata una dei massimi esponenti del terzo settore in Italia, e
una delle prime giornaliste in Italia esperta in comunicazione sociale, avendo fondato in questo
ambito già nel 1990 l’Agenzia Paneuropa. Collabora a diversi quotidiani (QN, Messaggero,
Avvenire, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore). In Rai attualmente cura per la radio la trasmissione
bisettimanale La sfida della solidarietà e per la televisione il programma O anche no sulla disabilità
da lei ideato. Registra le puntate delle sue trasmissioni radiofoniche e televisive quattro volte alla
settimana, con una media di duecento all’anno, per un totale di circa duemila trasmissioni sui temi
del Sociale, dei Diritti dell’uomo, della Disabilità, delle Minoranze religiose ed etniche. Ha curato
approfondimenti sulle guerre del Kosovo, del Ruanda, del Libano, della Yugoslavia, dell’Ucraina,
del Kurdistan, conflitti che ha vissuto recandosi personalmente in loco dal 1988 ad oggi.
Sposata una prima volta con Antonio Guidi, politico e neurologo da cui ha avuto tre figli, nel 2007
si è sposata con Piero Melograni, scomparso nel 2012.
Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: Premio Marisa Bellisario nel 1989 per il lavoro sulla
salute della donna italiana in gravidanza; Premio Diego Fabbri nel 2001 per la una serie di
biografie, realizzata per Rai International; Microfono d’argento per la rubrica radiofonica Punto
d’incontro; Premio Saint Vincent di Giornalismo per la direzione giornalistica dei portali Internet
sul sociale; Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica nel 2011 per la direzione dell’Agenzia
giornalistica Angelipress.
Tra le sue produzioni e attività radiofoniche e televisive:
Passioni d’amore – RAI International – 2001; Un popolo di Poeti – RAI – 1995; Testimoni del
nostro secolo – RAI – 1996-1998; Le Bugie della Storia – Rete 4 [co-produttrice, 2005]; La Sfida del
Federalismo Solidale – in onda dal 2010 su Radio RAI GR Parlamento; La Sfida della Solidarietà –
in onda su Rai GR Parlamento; No Profit – in onda dal 2011 su Radio RAI GR Parlamento; L’Italia
è un paese fondato sulle nonne – RAI – 2013; Miss Sarajevo – RAI – 2018; Il Giorno della Libertà –
RAI 3 – 2019; O anche no – RAI 2/RAI 3 – 2019-in corso; Insieme con…la Rai per il Sociale – RAI
1 – 2020; Stravinco per la Vita e O anche no dedicato alle Paralimpiadi e ai diritti fondamentali – Rai2 – 2021/2024
Tra le sue pubblicazioni:
Manuale d’informazione sull’handicap, editore “Temi di vita italiana” 1992 (Presidenza del
Consiglio dei Ministri); Ersilio Tonini Il grande comunicatore, edizioni San Paolo e poi Minerva
2013; Le mogli della Repubblica, Baldini& Castoldi Dalai 2006, Nuova edizione 2008 Marsilio;
Manuale dei Diritti Fondamentali e Desiderabili, a cura di, Oscar Mondadori 2013; O Anche No.
Da vicino nessuno è normale, Castelvecchi Edizioni, 2024.

 

O anche no. Da vicino nessuno è normale - Paola Severini Melograni - copertina

● Gentile Dottoressa Severini, lei può vantare un’intensissima attività culturale coniugata a
un encomiabile e proficuo impegno sociale, che le ha meritato importanti riconoscimenti non solo a livello nazionale. In che maniera l’ambiente familiare, la formazione scolastica,
l’educazione al cattolicesimo hanno contribuito a creare il suo progetto di vita e di lavoro?

L’ambiente familiare, soprattutto l’esempio di mio padre che è stato un medico di
profonda fede cattolica e uomo generoso nei confronti dei più fragili, la scuola paritaria
frequentata dalle suore di Santa Maria degli Angeli fino alle terza media, quindi
l’educazione al cattolicesimo sono stati determinanti per il mio progetto di vita e di lavoro.

● Quali sono state le personalità letterarie, filosofiche e spirituali che più hanno segnato la
sua maturazione intellettuale? E quali gli incontri umani fondamentali nella costruzione
del suo profilo personale?

Poichè mi sono sposata a diciassette anni con una persona disabile che svolgeva il
lavoro di medico e attivista dei diritti fondamentali ho potuto conoscere il mondo dei
movimenti dei leader e dei fondatori di quello che sarebbe stato chiamato Terzo Settore:
ho conosciuto quindi Don Pierino Gelmini, Don Oreste Benzi, Madre Teresa di Calcutta,
Andrea Riccardi, Ernesto Oliviero, Chiara Lubich, Don Albino Bizzotto (nel
mondo cattolico) e molte personalità importanti nel mondo laico che si occupavano di
diritti fondamentali come Vincenzo Muccioli che ha fondato San Patrignano, Mario
Tomassini, l’uomo che insieme a Franco Basaglia ha cambiato la condizione dei malati di
mente in Italia ed è riuscito a realizzare e promuovere una legge fondamentale come
quella della chiusura dei manicomi. Queste persone sono soltanto alcuni di coloro che io
ho avuto il privilegio di poter frequentare.

 

● Nel 1995 ha ideato e condotto il primo programma tematico sulla poesia contemporanea
mai realizzato nel nostro Paese: Un popolo di poeti per Video-Sapere RAI (oggi Rai Cultura), andato in onda sulla terza rete della televisione di Stato e replicato per addirittura
due decenni. Quali motivazioni l’hanno spinta a ideare queste trasmissioni, e quali tra i
poeti da lei incontrati l’hanno emozionata maggiormente?

Uno dei miei professori all’Università degli studi di Urbino è stato Umberto Piersanti.
Il professor Piersanti è tra i maggiori poeti viventi italiani, è stato grazie a lui che ho
potuto ideare un popolo di poeti che mi permesso di conoscere da Alda Merini a Attilio
Bertolucci, da Dario Bellezza a Patrizia Valduga insomma tutti i poeti italiani ancora
viventi negli anni Novanta. É molto difficile se non impossibile dichiarare una preferenza:
sono stati tutti incontri straordinariamente emozionanti. Se dovessi però davvero essere
costretta a scegliere, il poeta del mio cuore è proprio il mio Maestro Piersanti: la mia
poesia preferita è L’anima. Eccola :
Io non avevo mai capito
da dove l’anima viene tra gli spini
ma l’anima è piccola, fatta d’aria,
passa tra gli spini e non si graffia

● Legge sempre poesia? Preferisce i classici o i contemporanei, gli italiani o gli stranieri?

Sì leggo sempre poesia italiana e straniera: tra gli stranieri ho presentato in Italia il
lavoro del nostro contemporaneo tedesco Durs Grünbein e ho avuto in televisione anche (ed è stata la prima volta) Mariangela Gualtieri. Credo che ci sia una grande fioritura, anzi
una primavera della poesia italiana soprattutto dopo l’epidemia di Covid. Il periodo
terribile che sta passando il mondo e le due guerre che abbiamo alle porte di casa nostra
stimolano e fanno si che la poesia contemporanea conosca una grande fioritura.

● Nel programma “O anche no” da lei curato su Rai 3, le è capitato di confrontarsi con
esperienze di poesia singole o collettive espresse dal mondo delle disabilità e della
marginalità sociale?

Sì, certamente ed è ogni volta un grande dono. Mi permetto di ricordare una scrittrice, che ha raccontato la sua esperienza personale in modo magistrale ed alcuni brani sono vere e proprie poesie: Ada d’Adamo.

INTERVISTE

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, POETA E PERFORMER
Intervista a Marco Simonelli, poeta, traduttore e performer
Marco Simonelli, poeta, traduttore e performer, è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia. Tra le più recenti: “Will. 24 Sonetti” (2009), “L’estate sta finendo” (2011), “Il pianto dell’aragosta” (2015). Nel 2012 Firenze Mare è apparso in “Poesia Contemporanea, XI Quaderno Italiano”.

 

  • Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato, ti sei formato culturalmente, e in cui oggi vivi e lavori?

Ho avuto la fortuna di avere due genitori che, fra le altre cose, mi hanno sempre incoraggiato a leggere. Culturalmente mi sono formato in una Firenze perennemente post-ermetica al cui clima un po’ opprimente ho reagito per opposizione. Oggi la scena letteraria fiorentina è animata soprattutto da narratori; i poeti, seppur affiatati, sono un po’ più defilati.

  • Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla poesia?

Ho iniziato a leggere poesie da adolescente: dai maledetti francesi passai ai beat americani e ai futuristi russi, tipiche letture un po’ ribelli. Frequentavo altri giovani poeti, organizzavamo serate di letture a microfono aperto che in poco tempo divennero molto popolari. Era un’epoca pre-internet e per noi l’incontro era fondamentale: ci scambiavamo libri ed esperienze. Un incontro decisivo per me fu quello con Mariella Bettarini e i libri della sua casa editrice Gazebo: fu lei ad introdurmi alle tecniche di revisione di un testo poetico, mi insegnò il cosiddetto labor limae. Tramite Mariella entrai in contatto con poeti fiorentini di poco più grandi di me: Massimiliano Chiamenti, Elisa Biagini, Rosaria Lo Russo.

  • In che relazione si trovano la tua produzione poetica, quella di performer teatrale e l’attività di traduttore?

Si tratta di un rapporto di interdipendenza: la traduzione e l’interpretazione vocale di testi altrui è nutrimento fondamentale per la mia scrittura. A tutt’oggi, l’unico sistema che ho per valutare se un mio testo è riuscito o meno, è quello di leggerlo ad alta voce.

  • Quale dei tuoi libri ha avuto più successo, a quale sei più legato emotivamente, e a cosa stai lavorando adesso?

Direi “Sesto Sebastian”, un monologo drammatico del 2004 sul martirio di San Sebastiano che costituì per me un coming out in versi. È stato ristampato di recente in “Poesie d’amore splatter”, un’antologia dei miei testi più “performativi”. In questo periodo sto lavorando ad una nuova raccolta intitolata – per ora – “Le buone maniere” e si ispira ad una tradizione letteraria che da Bonvesin de la Riva e Giovanni Della Casa arriva fino a Donna Letizia: è una riflessione sulle regole del vivere civile aggiornate alla violenza dei nostri tempi.

  • Leggendoti, sembra che sulla tua scrittura agiscano influssi non solo letterari, ma anche – e forse soprattutto – cinematografici e musicali. È un’impressione esatta?

Sì, lo è: in realtà ciò che mi ha sempre affascinato è la contaminazione fra forme espressive di differente provenienza. Sono dell’opinione che un testo poetico possa e debba essere in grado di esprimere il tempo in cui vede la luce. Io sono nato nel 1979, la mia è stata un’infanzia prettamente televisiva. Nel 2007 realizzai un libro, “Palinsesti”, interamente costruito sfruttando la carica mitologica (e quindi anche comunicativa) dell’immaginario televisivo degli anni ’80. La mia intenzione era quella di creare un canzoniere che fosse anche un peana generazionale per la fine dell’infanzia. L’operazione puntava al riciclaggio di un immaginario sporco, innescava nel lettore coetaneo una sorta di riconoscimento immediato seppure surreale. Dal 2010 in poi la mia scrittura tenta di avvicinarsi all’altro in maniera più decisa e per raggiungere questo risultato mi avvalgo anche di tecniche narrative. La metrica poi, che per sua stessa natura interferisce coi processi mnemonici, cerca di mimare, nel suo costituirsi in strofe, vere e proprie inquadrature la cui dinamica viene impressa tramite il ritmo del verso.

  • Dai tuoi versi traspare un’adesione vivace, quasi fisica, alla vita in ogni sua manifestazione. Una partecipazione gioiosa e ironica a tutto quello che ti accade intorno. Vivere, amare, osservare, rincorrere la felicità, è più importante che scrivere. Giusto?

Direi che senza una naturale curiosità per le realtà che ci circondano e che incrociamo quotidianamente, difficilmente si arriva a scrivere qualcosa di valido. In qualsiasi corso di scrittura creativa, una delle prime lezioni che si apprendono è «Scrivi di ciò che conosci». Noi iniziamo a conoscere le cose nel momento in cui stabiliamo un contatto, nel momento in cui iniziamo a confrontarci con esse. Da questi contatti può accendersi la scrittura che a volte segnala solo l’inizio di un percorso di indagine: ciò che la scrittura scopre in genere è una vasta complessità in cui è facile (ma in fondo anche utile) perdersi.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Intervista-a-MarcoSimonelli.html    11 novembre 2016

INTERVISTE

SQUIZZATO

 GILBERTO SQUIZZATO, REGISTA E SCRITTORE

Gilberto Squizzato si racconta in quest’intervista.

  • Qual è stata la tua formazione culturale (studi, letture, maestri…), e radicata in quale humus ambientale?

Durante il liceo classico (frequentato in una media città di provincia benestante e borghese quasi come un intruso, dal momento che venivo da una modesta famiglia di operai, soffrendo pertanto il disagio dell’inferiorità economica e sociale, a cui reagivo trovando risarcimento negli ottimi risultati scolastici che mi consentivano di primeggiare sui pigri e demotivati figli del ceto dominante) ebbi la fortuna di avere come docente d’italiano uno splendido professore che fremeva di passione civile nell’introdurci al mondo della letteratura. Le sue memorabili ed estasianti (per me) lezioni su Dante, ma anche le emozionanti escursioni che andavano dal Gilgamesh sumero al mondo proto-biblico, fino a giungere alla contemporaneità uscita dalla Resistenza che egli aveva vissuto nelle sue Langhe sature di echi letterari, da Pavese a Fenoglio, mi aprirono all’orizzonte prima neppure immaginato degli studi letterari e, fatalmente, anche filosofici e teologici.
L’altra mia fortuna, da bravo ragazzo di Azione Cattolica che ero, fu quella di non iscrivermi alla Cattolica (allora dominata da una stantia neoscolastica uggiosa e pretesca) per inseguire un amore giovanile risoltosi nel nulla, che mi fece però il dono di precipitarmi un quel crogiolo fervido di passioni che era la Statale di Milano negli anni dal ’68 al ’73. Era la Statale in cui si era dovuto trasferire Mario Capanna cacciato dalla Cattolica, ma era anche un laboratorio superlativo di pensiero critico e di consapevolezza politica e civile: Pochi altri, se non i miei compagni di allora, ebbero la fortuna di avere come maestri, tutti in una volta, e di persona, personalità come Paci, Cantoni, Fergnani, Rovatti, Dorfles, Catalano, Berengo, Salinari, Antonielli, Ferrero, Brizio, Cazzaniga, Gambi, Rosci… Era il gotha della cultura italiana di quegli anni, lì riunito per singolare congiuntura, ma credo anche perché Milano era il territorio fecondato da quel gran seminatore di pensiero marxista (ma critico)
di Banfi. Ma non voglio neppure dimenticare che quelli gli anni in cui si studiavano Sartre, Althusser, il Freud di Musatti, Laing, Levi Strauss, Margaret Mead, Marcuse e Adorno…
Così vissi quella che credo essere stata una delle stagioni più fortunate dell’Università italiana ma anche immerso nel vortice di quel tumultuoso rivolgimento culturale e antropologico che fu il Sessantotto milanese: è in quel contesto che i fermenti di un fervore civile e politico così potente si fusero, in me, con quelli della novità prodotta nel mondo cattolico dal Concilio. Fu in quegli anni che venni in contatto con i miei autentici maestri spirituali: Turoldo anzitutto, che tuonava a Sotto il Monte ma anche con le sue poesie civili e teologiche dalle pagine della rivista Sette Giorni, e con lui Milani, Balducci, Franzoni, Mazzi, Lutte, La Valle, i tanti cattolici del dissenso (Gozzini, Masina…) che trasmigrarono nella sinistra aprendo un fecondo confronto fra le differenti antropologie che provenivano dal marxismo e dalla tradizione cristiana.

  • Cosa ti ha spinto a passare dagli studi letterari alla cinematografia?

Non ho mai abbandonato gli studi letterari (e filosofici) per il cinema, ma provai a fondere i due interessi che mi appassionavano così fortemente. Ma mi accostai al cinema non solo sotto il profilo della ricerca teorica: continuando a frequentare l’università decisi di imparare quel linguaggio sul set, diventando prima assistente e poi aiuto regista di diversi maestri, fra i quali, più che Lattuada, Argento e Monicelli, ebbi come maestro anche di politica e d’impegno civile Carlo Lizzani: lo stesso che era stato assistente e sceneggiatore di Rossellini e De Sanctis, che aveva partecipato alla Resistenza Romana, che si era formato nel primo nucleo clandestino del PCI di Trombadori, Alicata, Ingrao, che volendo diventare politico militante di professione era stato consigliato proprio dal partito a impegnarsi nella settima arte. Da Lizzani mutuai non solo la scelta per una cinematografia asciutta ed essenziale, ma anche la passione per la discussione sul linguaggio filmico letta con i paradigmi della politica, l’etica (oggi un po’ desueta) del cineasta engagé, come si diceva allora. Erano i tempi del nuovo cinema brasiliano di Rocha, di Pasolini, di Godard, per intenderci…
Finché la RAI bandì un concorso per registi destinati a operare nella neonata Terza Rete, superai la selezione e fui però assunto come giornalista: un’ottima occasione per imparare la sintesi e la tempestività nel racconto del reale. E da allora, archiviati i tre anni d’insegnamento di lettere nella scuola media superiore, mi diedi al servizio pubblico, provando a coniugare la lotta politica e la ricerca di nuovi linguaggi (docu-fiction, real-movie, fiction storica con documenti filmati autentici, ecc.)

  • Com’è nato il tuo interesse per la teologia, e in che modo ritieni di poterti definire cristiano?

Altra immensa fortuna: da ragazzo, all’oratorio, incontrai un giovane prete che piuttosto che buttarci nel campo di calcio preferiva metterci in mano la “Bibbia” e ci insegnò a studiarla.
Un’emozione violentissima e inestinguibile, che accese in me non solo l’interesse per la teologia (Kung, Moltmann, la teologia della Liberazione, Kaspers, Cullman, Schillebecx, per citarne solo alcuni, ma anche la lettura marxista del Vangelo di Belo e di Gutierrez, la demitizzazione di Bultmann, e poi via via la scuola americana di Altizer e Hamilton, il Jesus Seminar di Crossan, la teologia e l’ecclesiologia critica di base dei movimenti popolari del dissenso cattolico, per non dire di quel continente fascinoso che furono (e sono per me) gli studi biblici che incrociano antropologia, analisi delle forme, psicanalisi, storia, nuova archeologia… Un vero peccato che Massoneria italiana dell’Italia riunificata nel Regno abbia bandito dalle università italiane gli studi teologici e biblici, con il beneplacito del Vaticano che li volle rinchiudere e proteggere nei propri seminari e nelle proprie accademie (mentre in Germania, Francia, Svizzera, Stati Uniti, Olanda, paesi nordici, questi studi hanno fatto progressi enormi e abitato in profondità generazioni di coscienze. Così oggi abbiamo, in Italia, il popolo di fedeli più ignorante al mondo in fatto di Bibbia e i ceti culturali laici (di livello universitario) più digiuni di queste discipline, capaci solo di balbettare quando si cita una pagina del Vangelo e di chiudersi dentro gli schemi di un neopositivismo ottocentesco… Un disastro.
Da questo mio studio frenetico e da questo intensa esperienza dentro il laboratorio della teologia elaborata dalla base nel movimento dei cristiani critici ha preso forma il mio modo di credere, da cui sono scaturiti i tre volumi in cui ho provato, nell’ordine:

  1. a tradurre il Credo di Nicea (scritto con un armamentario concettuale e filosofico greco, ormai incomprensibile) in un linguaggio significativo oggi per i miei figli, nati e cresciuti nella cultura post-moderna, scientifica, tecnologica, digitale, nichilista;
  2. a indagare il senso più autentico della parola ambigua, abusata, maltrattata (Dio) di cui ignoriamo il significato originario, in direzione di una fede (apofatica) che rinuncia a ogni immagine del divino e preferisce il silenzio davanti al Mistero esistenziale che Gesù chiamava il Padre;
  3. a dimostrare possibile e liberante una fede laica che archivia l’immaginario religioso ormai inservibile dei millenni passati. Se sono cristiano. Sì, ma non essendo ebreo, e dunque non attendendo alcun Messia (Unto, Cristo in greco) preferisco oggi definirmi gesuano.

  • Ci puoi illustrare brevemente in cosa è consistito il tuo lavoro alla RAI? Che giudizio dai della programmazione televisiva attuale?

Prima il giornalismo, laboratorio efficacissimo per imparare a essere curiosi e preparati a indagare tutto, a provare a interpretare in tempo reale gli eventi, a costruirne una narrazione ipersintetica che obbliga a un linguaggio (visivo e verbale) preciso ed efficace. Poi il reportage e la direzione di un settimanale (Europa) che mi consentì di indagare gli ambiti più diversi (politica, storia, ambiente, società, cultura, arte…) del nostro continente. Più tardi, invitato da Guglielmi, mitico direttore della nuova RAI Tre, il “racconto del reale” in forma cinematografica, sperimentando di volta in volta anche forme di fiction sempre fedeli al reale e al dato storico. Sul collasso delle motivazioni e delle regole di un autentico servizio pubblico radiotelevisivo scrissi un saggio molto critico dieci anni fa che non bastò a mobilitare i dipendenti dell’azienda, i suoi sindacati e le aree più attente e consapevoli del Parlamento a una rifondazione dalle fondamenta della RAI, per sottrarla al livellamento verso il basso della qualità dei programmi e dei linguaggi, al servizio di una malintesa concorrenza con la TV commerciale. Se vuoi fare servizio pubblico NON devi inseguire il degrado e gli stilemi delle altre emittenti che hanno come scopo il profitto economico, ma fare ricerca, sperimentazione, innovazione (e informazione autenticamente libera e indipendente). Non vedo traccia, se non in qualche raro frammento dei palinsesti RAI, di queste logiche e finalità diverse e antitetiche.

  • Dopo anni di impegno come regista sei tornato alla scrittura. Con quali esiti, e quali obiettivi?

Senza mai rinunciare, in segreto, a coltivare saltuariamente le mie velleità liriche e/o di poesia civile, con il tempo mi sono reso conto del fatto che l’immagine può mostrare moltissimo, ma non riesce a dire tutto. Ci sono continenti del vissuto umano che solo la parola può provare a esplorare e raccontare. Un’affermazione forse ovvia, banale, ma è così, a pensarci bene. Pasolini (maestro supremo nella narrazione per immagini) non abiurò mai alla parola del verso, del romanzo, del saggio.
E così, sempre in segreto, mi sono scoperto bisogno di racconti romanzati, che mi hanno dato la soddisfazione di scoprire anche l’amore per la parola narrativa. Se e cosa valgano questi miei romanzi, proprio non lo so. Ci sarà pur un motivo se sono tuttora inediti.

  • Attualmente insegni al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Pensi che esistano in questo ambito possibilità concrete di lavoro e di successo per le generazioni più giovani?

Oh, certo, se vuoi diventare un ciarlatano (o un prestigiatore) del video, le occasioni sono immense. Le TV e la rete non chiedono (quasi) altro. Se poi teniamo conto delle prodigiose possibilità espressive fornite oggi dalle camere digitali ad alta definizione e dai programmi di montaggio che offrono un repertorio illimitato di effetti digitali, allora le chance risultano sconfinate. Se invece vuoi indagare seriamente il reale, scrivere cinematograficamente un racconto dignitoso, sperimentare nuove scritture, gli spazi di manovra si restringono enormemente.
Soprattutto si è persa, in Italia, un’autentica scuola di sceneggiatura filmica e televisiva. La TV del talk show è diventata in sostanza radio filmata in diretta, e il nostro cinema non può che guardare con rimpianto allo spessore narrativo e alla sapienza di altre stagioni che fecero la grandezza suprema del nostro cinema (anche quello di serie b, commedia all’italiana compresa). Oggi vediamo sullo schermo quasi solo commediole generazionali o pretenziosi esercizi di calligrafia. Ma chi sa scrivere oggi (se non pochissimi, rari autori) le sceneggiature di De Sica, Antonioni, Visconti, Petri, Scola, Rosi, Pasolini…
Sopravvive, a fatica, qualche vecchio maestro (Taviani, Bellocchio, Bertolucci). Per il resto (con l’eccezione di pochi come Sorrentino e Tornatore) chi sa scrivere cinema oggi in Italia all’altezza di quella scuola che ebbe sceneggiatori immensi (Zavattini, Sonego, Age, Scarpelli, Pirro, Benvenuti, Guerra…)?

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Intervista-a-Gilberto-Squizzato.html          29 marzo 2018

INTERVISTE

TALAMO

Silvio Talamo. Un artista napoletano a Berlino

Silvio Talamo è un musicista, producer e cantautore napoletano, oggi residente e operante a Berlino. Il suo repertorio spazia tra musica elettronica e acustica, pop e techno. Come performer di successo si esibisce in teatri, trasmissioni radiotelevisive, club, festival e street stations. Ha pubblicato nel 2017 il disco Living in a Bubble, e quest’anno il libro Poesie/Gedichte in un’elegante versione bilingue delle edizioni ProMosaik.

In quale ambiente familiare e culturale sei cresciuto, e cosa di esso hai assorbito positivamente, cosa invece ti senti di rifiutare o rinnegare come zavorra e ostacolo alla tua crescita umana e professionale?

Per quanto riguarda la mia famiglia, mia madre dipingeva da giovane. Poi ha dovuto lasciare per la vista. Questa è l’unica relazione diretta che io possa trovare con la produzione artistica in famiglia. Ma quando si parla di ambiente io penserei a qualcosa di più vasto, oserei dire anche sociale. Non credo sia un momento facile per le arti e forse non lo era neanche venti anni fa, non so. Uno dei problemi che ho spesso avuto è rientrare in un genere, sembra una cosa importante per poter diffondere i messaggi. Un altro ostacolo lo troverei in  una competizione non sempre proficua, anzi addirittura debilitante sul piano della creatività. Le porte è sempre meglio aprirle… Ma se dobbiamo parlare di formazione il mio ambiente è stato più un ambiente di astrazione, con questo intendo dire che non ho fatto altro che creare connessioni tra esperienze culturali anche diverse, lontane, e me le sono portate appresso.

 

Dagli studi di filosofia a quelli musicali: attraversando quali percorsi, superando quante difficoltà e inseguendo quali miti ed esempi, sei arrivato ai risultati artistici attuali?

Ho iniziato scrivendo poesie verso la fine del liceo e il periodo iniziale dell’università. Poi insieme ad amici aprimmo una piccola associazione culturale, la sede ora a pensarci era molto “underground”, direi. Incominciammo a fare reading e poi, dopo qualche tempo, la cosa finì, ognuno prese la sua strada. Allora studiavo percussione oltre che Filosofia alla Federico II e la cosa che mi colpì fu mettere in relazione la voce, quella dell’allora lettore-performer, con la musica. Approfondii la strada del canto. Si aprirono universi nuovi e tutti risiedevano nel campo dell’oralità anche se in forme lontane. Mi interessai per qualche tempo all’etnologia e al folklore, così come alle produzioni delle avanguardie.

 

Verso dove si orienta oggi la tua ricerca musicale?

Ho scoperto le potenzialità che le strumentazioni elettroniche possono offrire. Credo che in questo ambito stia succedendo qualcosa di molto importante nel mondo. Per me il nuovo è lì: tra midi, loop, messaggi cc, onde sonore, sintetizzatori, software, sample…  È un lato che ha subito proprio negli ultimi anni una evoluzione gigantesca, a patto che il concetto di nuovo sia considerabile come una cosa interessante. Al tempo stesso continuo a usare la mia chitarra e il canto ovviamente, una strada quindi più tradizionale, in un certo senso. Mi piacerebbe sintetizzarle tutte! In fin dei conti è un lavoro sul tempo. Viviamo in un mondo dove non c’è solo compresenza di spazi culturali diversi ma anche di tempi. Il tempo si è spezzato, la sua linea è più simile ai labirinti di Borges o a qualche narrazione di fantascienza che ad un moto progressivo. Poi arriva il ritmo, il cerchio e quindi il nostro rapporto disperato con la natura. Il problema è che quando le cose vanno troppo veloci, la ruota sembra ferma, così come talvolta mi appare il nostro presente: simile a un limbo.

Oltre alla musica, ti dedichi anche alla poesia. Quali sono state le tue letture formative, e in che direzione ti poni dal punto di vista letterario? Più tradizionale o di avanguardia?

La poesia è fondamentale, quasi una salvezza. Nella mia adolescenza rimasi folgorato dal simbolismo francese. Mi piacque un certo romanticismo inglese. Ho letto con interesse le avanguardie, specialmente quella surrealista e poi la neoavanguardia italiana. Anche l’inafferrabile esperienza dell’ermetismo mi incuriosiva. Spesso si tratta di esperienze contrastanti. Ricordo i reading e le interviste che lessi di Allen Ginsberg e Gary Snyder. Mi interessava la lirica giullaresca con il suo carico di istanze antropologiche e para-teatrali. Ma il bello della letteratura è che è una materia illimitata, non finita e che risponde sempre con spessore in qualsiasi epoca o periodo storico si vada a cercare.
Posso dire che negli ultimi tempi, anche durante la stesura del mio libro, ho due autori presenti sulla mia scrivania: Dylan Thomas e le poesie di Friedrich Hölderlin. Ma sono stati importanti anche libri che non hanno direttamente una valenza, diciamo così, letteraria, nel senso proprio di letteratura. Cioè le elaborazioni sul montaggio cinematografico di Sergei Eisenstein, quello passato alla storia nella cultura popolare italiana per altri motivi, e il libro sull’alchimia di Carl Gustav Jung.
Alla questione se “tradizionale” o “avanguardia” però non saprei rispondere, non me lo domando neanche. Certo dall’Ottocento in poi le esperienze letterarie, quelle più tradizionali e quelle più di avanguardia, si sono sempre espresse attraverso una rottura, almeno quelle che interessavano a me.

 

In cosa Berlino ti ha avvantaggiato rispetto a Napoli, e come giudichi l’interesse e il calore con cui ti segue il pubblico delle due città?

Napoli è in un momento certamente migliore rispetto a quando l’ho lasciata, un buon momento che esprime anche buona volontà nel fare cose; molta vitalità nonostante tutti i problemi. Probabilmente, con il tempo, sarà portata a moltiplicare ancora più gli spazi dedicati all’espressione.  Torno a fare cose lì, quando è possibile.
Berlino è una grande città, un centro internazionale come pochi.  Qui a Berlino, che mi sembra quasi un’isola, c’è molto interesse sincero per l’arte. C’è una popolazione dove la percentuale di artisti e creativi è altissima, molti spazi per esprimersi e semplicemente la gente ascolta e non è interessata solo al puro intrattenimento. Nessuno si preoccupa se quello che fai è ordinario o no. È molto alternativa, underground. Intendiamoci, ritagliarsi uno spazio non è facile, anzi anche difficile ma al tempo stesso c’è posto per tutto. Io personalmente faccio molto. Vedremo se cambierà… Una cosa importante è che posso incontrare artisti di tutto il mondo e affacciarmi a molteplici linguaggi. Tutti vogliono fare, realizzare libri, registrazioni e spettacoli.

 

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 25 ottobre 2018

INTERVISTE

TAU EDITRICE

Intervista a Tau Editrice: programma culturale e prossime uscite

Tau Editrice, nata alla fine degli anni Novanta, si fonda sull’obiettivo di promuovere la crescita spirituale e la formazione cristiana dei suoi lettori, ispirandosi ai valori cattolici e spirituali di san Francesco, san Benedetto e del beato Jacopone da Todi. In questa intervista, la casa editrice ci apre le sue porte, parlandoci della sua redazione, dei rapporti commerciali, del proprio programma culturale e delle prossime uscite, fino a trattare l’annosa e fondamentale questione del rapporto fra cartaceo e digitale.

Intervista a Tau Editrice: programma culturale e prossime uscite

La nostra collaboratrice Alida Airaghi ha intervistato la casa editrice TAU; per la redazione risponde Michela Serangeli. La casa editrice ci apre le sue porte, parlandoci dei rapporti commerciali, del proprio programma culturale e delle prossime uscite, fino a trattare l’annosa e fondamentale questione del rapporto fra cartaceo e digitale.

  • Quando è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità? Come avete scelto nome e simbolo di TAU?

Tau Editrice è nata alla fine degli anni ’90 grazie all’iniziativa di un piccolo gruppo di persone accomunate da un percorso di fede condiviso. Il progetto iniziale era la pubblicazione di brevi sussidi divulgativi per le parrocchie, soprattutto opuscoli da utilizzare durante le Benedizioni delle Famiglie. Da questa esperienza locale la casa editrice è cresciuta, ampliando le sue attività e collaborando con nuovi autori, fino a diffondere i suoi titoli anche a livello nazionale. Il nome e il simbolo di Tau derivano dalla lettera tau (o taw), ultima dell’alfabeto ebraico, che nella sua forma latina (Ʈ) ricorda la croce di Cristo. San Francesco d’Assisi, infatti, scelse proprio questo segno come firma e sigillo, vedendolo come simbolo di umiltà, salvezza e amore.
Questo profondo legame con il simbolo cristiano riflette la missione della casa editrice, radicata nei valori spirituali dell’Umbria di san Francescosan Benedetto e il beato Jacopone da Todi.

  • Qual è la specificità editoriale che vi caratterizza? L’esplicito riferimento al cattolicesimo che vi definisce limita le vostre scelte programmatiche a un ambito totalmente confessionale?

L’esplicito riferimento al cattolicesimo non rappresenta un limite per Tau Editrice, ma piuttosto definisce una nicchia altamente coinvolta e motivata. La nostra specificità editoriale si fonda sull’obiettivo di promuovere la crescita spirituale e la formazione cristiana dei lettori, sempre ispirati ai valori cattolici. Attraverso le nostre pubblicazioni, miriamo a contribuire alla diffusione del Vangelo e a sostenere la fede, mantenendo un forte legame con la dottrina e il Magistero della Chiesa Cattolica.
Questo impegno ci consente di produrre contenuti originali che rispondono a un pubblico desideroso di approfondire il proprio cammino di fede, senza limitarci esclusivamente all’ambito confessionale ma valorizzando al massimo il nostro orientamento spirituale.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione, e su quanti collaboratori esterni potete contare?

Il nostro team editoriale è composto da quattro risorse principali: due persone si occupano della redazione e del coordinamento, una gestisce la comunicazione e un’altra è responsabile della parte commerciale. Inoltre, collaborano con noi internamente tre grafici editoriali che curano la parte visiva delle nostre pubblicazioni. A questo si aggiungono le risorse che si occupano di logistica e amministrazione, garantendo un’efficace gestione operativa.
Per quanto riguarda i collaboratori esterni, contiamo su una rete di autori e altri professionisti che ci supportano nella creazione dei contenuti e nella crescita del nostro progetto editoriale.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti di critica e di pubblico, e secondo voi per quali motivi? E quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra le nostre pubblicazioni che hanno ottenuto maggiore riconoscimento, sia dalla critica che dal pubblico, spiccano quelle di alcuni autori di punta come Luigi Maria Epicoco, Franco Nembrini e Francesco Cristofaro. Questi scrittori sono considerati dei veri e propri punti di riferimento e non solo per l’editoria cattolica. Le loro opere hanno riscosso un grande successo per la capacità di unire profondità spirituale e chiarezza espositiva, rendendo i temi religiosi accessibili a un vasto pubblico.
Oltre a questi autori affermati, siamo orgogliosi di supportare tanti altri scrittori, più e meno emergenti, che stanno portando avanti percorsi significativi in libreria. Crediamo fermamente nella nostra vocazione di far crescere questo tipo di autori e di accompagnarli nel loro percorso editoriale.
Per quanto riguarda i titoli in uscita, abbiamo in programma entro la fine dell’anno tre libri di grande interesse:

  1. Un libro testimonianza di Claudia Koll, che promette di toccare profondamente il cuore dei lettori attraverso la sua esperienza di fede.
  2. Un manuale di psicologia spirituale per la gestione della crisi di coppia, un progetto innovativo e curioso: un libro double face, per lei e per lui, scritto da venti influencer cattolici sotto la supervisione di una stimata psicoanalista.
  3. Il Testa di Catto, un’opera narrativa ironica e dissacrante ma rispettosa, che esplora con umorismo e talento le curiosità della Chiesa cattolica, scritto da un gruppo di giovani autori talentuosi.
    Siamo entusiasti di queste prossime uscite e crediamo che possano incontrare l’interesse e l’affetto dei nostri lettori.
  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti, e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Per pubblicizzare i nostri prodotti utilizziamo principalmente i social network e il web, che ci permettono di raggiungere un vasto pubblico in modo immediato e coinvolgente. Inoltre, le ospitate e le interviste con i nostri autori sui principali media di settore rappresentano un canale fondamentale per far conoscere le nostre pubblicazioni. Anche il punto vendita stesso si rivela un ottimo strumento di comunicazione, in quanto permette un contatto diretto con il lettore.
I traguardi che ci proponiamo di raggiungere a livello di mercato includono un consolidamento della nostra presenza nelle librerie e una crescente diffusione dei nostri titoli online.
Dal punto di vista culturale, miriamo a diventare un punto di riferimento per chi cerca contenuti che promuovano la crescita spirituale e la riflessione cristiana, contribuendo così all’arricchimento del dibattito culturale nel nostro Paese.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Anche se ci verrebbe da rispondere in modo pessimistico, osservando che la gente sembra leggere sempre di meno, in realtà i dati più recenti dell’AIE ci indicano che il settore editoriale è in crescita: si vendono più libri. Quindi, c’è effettivamente chi continua a leggere, o perlomeno ad acquistare libri (se poi li legga o li usi per fermare la porta, questo non possiamo saperlo!).
Il dato più interessante, però, riguarda i canali di vendita: il settore online sta superando le librerie fisiche e questo è un vero peccato. Le librerie sono luoghi di incontro, luoghi da visitare, in cui sostare, in cui soffermarsi, magari senza avere un’idea precisa di cosa si stia cercando. E poi, come per magia, trovare il libro che proprio si stava aspettando. Tutto questo non c’è nelle vendite online, e questo limita molto anche le occasioni di vendita e di contatto con il pubblico.
Siamo comunque ottimisti riguardo al futuro del libro cartaceo rispetto al digitale. Il cartaceo è un oggetto da vivere: si sottolinea, si consuma, si regala ed è parte di un’esperienza più tangibile e coinvolgente che, a nostro avviso, continuerà a trovare il suo spazio e la sua importanza nel mondo della lettura, a discapito del libro digitale che, probabilmente, resterà prerogativa della scolastica.

INTERVISTE

TESTA

Annamaria Testa e la poesia

 

 

15 Febbraio 2025

Annamaria Testa (Milano 1953), pubblicitaria, giornalista e saggista, inizia la sua carriera come redattrice pubblicitarianel 1974. Tra il 1983 e il 1996 è presidente e direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria TPR, poi Bozell TPR, da lei fondata. Giornalista pubblicista dal 1988, collabora con diverse testate giornalistiche e con la RAI (Rai 3 sotto la gestione di Angelo Guglielmi), e si occupa di comunicazione politica. Dal 2012 ha una rubrica fissa sull’edizione online di Internazionale. Dal 1996, come consulente, realizza interventi di carattere strategico e progetti di comunicazione per imprese e istituzioni. Nel marzo del 2005 fonda a Milano la società Progetti Nuovi, che si occupa di progetti integrati di comunicazione. Nel 2008 ha messo online Nuovo e Utile, un sito non a scopo di lucro dedicato alla diffusione di teorie e pratiche della creatività. Tra il 2010 e il 2011 ha fatto parte della Giuria dei Letterati del premio Campiello. Nel 2012 è entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, prima donna pubblicitaria negli oltre 25 anni di vita del club. Dal 1989 al 1997 è stata docente al master dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha insegnato “Teorie e tecniche della comunicazione creativa” in varie università: tra il 1994 e il 1995 all’Università La Sapienza di Roma (facoltà di sociologia); dal 1998 al 2006 all’università IULM di Milano (facoltà di scienze della comunicazione); tra il 2001 e il 2002 all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi di Torino; tra il 2007 e il 2016 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, continuando ad essere consulente di diverse grandi aziende. Nel febbraio 2015 si è fatta promotrice dell’iniziativa #dilloinitaliano che mira a ridurre l’uso frequente e arbitrario di termini inglesi, il cosiddetto itanglese, in particolare nel linguaggio dell’amministrazione, aziendale e pubblicitario.

Tra le sue opere: Leggere e amare. 21 racconti, 1993 – Feltrinelli; Farsi capire. Comunicare con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita, 2000 – Rizzoli; La pubblicità, 2003, Il Mulino; Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole, 2004/ 2021 – Garzanti; La creatività a più voci, 2005 – Laterza; La trama lucente – Che cos’è la creatività, perché ci appartiene, come funziona, 2010/2023 – Garzanti; Minuti scritti – 12 esercizi di pensiero e scrittura, 2013 – Rizzoli; Il coltellino svizzero – Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia, 2020 – Garzanti – La parola immaginata (Nuova edizione, il Saggiatore 2024).

La figura del pubblicitario, tra quelle che operano all’interno del mondo produttivo, mantiene un’aura di creatività, fantasia e libertà da schemi preconcetti che lo avvicina al ruolo dell’artista. Ma mentre a quest’ultimo si demandano la critica e l’opposizione, chi opera nel marketing viene ritenuto di supporto acritico alla produzione consumistica. Ritiene sia realmente così?

Poesia e pubblicità hanno tratti in comune nell’uso del linguaggio? L’utilizzo degli stessi artifici retorici (metrica, rime, assonanze, ripetizioni, filastrocche) accomuna entrambe? Ci può fare un esempio di qualche sua “invenzione” linguistica che si sia servita dei dispositivi specifici della scrittura in versi?

In realtà le filastrocche, le assonanze, le rime si sono usate in pubblicità soprattutto nel periodo tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, direi fin quasi al termine degli anni Sessanta. Da allora in poi, la caratteristica emergente e la tipicità del linguaggio pubblicitario è consistita nella capacità della parola di integrarsi perfettamente con l’immagine che la accompagna (non a caso il primo libro che ho scritto, nel 1988, si intitola La parola immaginata. Parla di pubblicità, spiega proprio questa integrazione, è diventato un piccolo classico adottato nelle scuole e nelle università ed è stato ripubblicato infinite volte – l’ultima edizione, riveduta e aggiornata, è del 2024). Credo di aver usato i versi per qualche jingle pubblicitario (scelta per molti aspetti obbligata quando si scrive un testo che deve essere musicato). Credo di aver usato solo una volta rime e versi in un testo scritto: ma si trattava di un limerick (anzi, di una serie di limerick) intesi a promuovere in modo scherzoso un altrimenti noiosissimo software per la gestione di paghe e contributi. Oggi non riesco a recuperare i testi originali, ma si trattava di cose come C’era un ragioniere di Forlì/che a far conti penava ogni dì… Sto invece sempre, e molto, attenta al ritmo e al suono di quanto scrivo in prosa. Lo faccio anche quando non si tratta di un testo pubblicitario ma, invece, di un articolo o di un saggio.

Che rilievo hanno il registro comico, parodistico, o addirittura sarcastico, da sempre utilizzato anche in poesia, nel suo lavoro? Capita che la pubblicità prenda in giro se stessa?

Come dicevo prima, humor e ironia (e anche autoironia) sono stati ampiamente usati in passato. Oggi si vede in giro solo qualche raro esempio e, mi creda, è una vera boccata d’aria fresca. Il sarcasmo, no. Perfino in una campagna sociale, che ha ambiti di libertà espressiva molti più ampi di quelli propri di una campagna commerciale, il sarcasmo rischia di essere controproducente: la pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva, e la persuasione è di per sé stessa delicata, articolata e seduttiva (altrimenti parliamo di propaganda, che è tutt’altra cosa: brutale, semplificata, imperativa).

Anche la poesia moderna, a partire dai Calligrammi di Apollinaire fino alle sperimentazioni di Lamberto Pignotti, accosta l’elemento visivo a quello verbale, utilizzando il segno grafico e l’immagine per accompagnare il testo. In quale sua campagna pubblicitaria tale abbinamento ha ottenuto più successo?

L’uso della pausa, del silenzio, di termini settoriali (tratti dalla scienza, dalla musica, dalla medicina) e il plurilinguismo hanno avuto una funzione importante nelle sue creazioni?

Mah, la peculiarità del lavoro pubblicitario consiste soprattutto nell’invenzione di titoli brevi o brevissimi, scanditi dalla punteggiatura, adeguatamente impaginati e accostati a un’immagine. Quindi, la scrittura finisce subito… certo, nei rari casi di titoli più lunghi, gli a capo diventano importantissimi.  Pause: ci sto attenta quando scrivo testi lunghi (per esempio un saggio, o un articolo). Termini settoriali: il meno possibile, e solo quelli davvero indispensabili. Precisione del linguaggio: sì, ci sto attenta. Plurilinguismo: mi è anche capitato di scrivere qualche buon titolo in inglese, ma di norma cerco di scrivere in decoroso e piacevole italiano.

Tra i poeti contemporanei, ci sono voci che ritiene più vicine alla sensibilità giocosa e ironica del suo lavoro, o preferisce invece stili più impegnati, tradizionali o addirittura classici?

Non sono una gran lettrice di poesia, ma adoro Wislawa Szymborska. Ricordo come se fosse oggi la prima volta che mi sono imbattuta in una sua composizione: era un lungo testo riprodotto sul muro bianco di una mostra fotografica, alla Triennale di Milano. Credo che fosse Amore a prima vista. È stato tanti anni fa, e Google non c’era ancora. Mi sono scritta su un kleenex il nome dell’autrice stando bene attenta a non sbagliare con quell’accrocco di consonanti esotiche. E sono andata a cercarmi i libri: una scoperta folgorante.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 15 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

error: Content is protected !!