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POESIE

IL SILENZIO, LE VOCI

Della parola è l’ombra,
la parte scura, il non detto.
La osserva sola, e sospesa,
come ingombra l’aria, intorno,
e dura, e pesa.
Perfetto, lui tace.
Conserva l’eco,
la pace.

***

La ferita che dura
se non la tocchi guarisce da sola.
Nel silenzio è la cura:
diffida, diffida della parola.

***

Ritirarsi, ritirarsi.
Lasciare spazio al vuoto.
Tacere nel brusio,
nel mormorio.
Cercarsi nell’ignoto.

***

Senza parole, immobile,
troppo oscuro per noi,
troppo lontano:
il dio che amiamo tace
quando permette al male
di essere nostro male. Non vuole
che capiamo, noi zitti
e lui incapace di farsi perdonare,
terribile e bambino.
Libertà che temiamo
è il nostro e suo destino,
dio dell’indifferenza
e dio della pietà.

***

Si schiudono come fanno i fiori,
appena appena, leggere, con pudore,
impaurite quasi dal potere che hanno,
le parole d’amore. E promettono,
sincere finché durano, sospese
dentro al fiato in cui vivono.
Poi sfinite sulle labbra dell’amato
lasciano che sia il silenzio a prevalere.

***

Riconosci la mia parola nel mio silenzio.
Fa’ tuo il tuo nome che taccio.
Intorno, anche l’aria è di ghiaccio.
Riconosci nel mio non dire il mio patire.

***

Baciarti sulle labbra la parola
che a fatica pronunci, a fatica:
quasi avessi promesso di non dire.
Aspirarla con il fiato appena,
mescolarla al mio respiro, e confonderla.
Che non abbia paura, ascoltandosi,
di restarsene lì, irrimediabile, sola.

***

Mi aggrappo alla tua ultima parola,
mentre non ti voltavi
e scendevi le scale.
Così leggera e innocua:
come un ciao che non fa male.
Però non era ciao,
era un sottile strappo
pronunciato di gola, involontario
forse, ma dichiarato.
Risalirai le scale?
Ridirai la parola?

***

Può mentire il silenzio?
Forse come un’alzata di spalle,
un’occhiata distratta,
il gesto inadeguato
con cui ci si scusa senza convinzione.
Così il silenzio tace,
rassegnato a una verità
contraffatta, alla finzione.

***

La parola non concede spazio,
ogni parola.
Ogni parola toglie spazio
alle altre. Le divora.
Detta per sempre,
è implacabile.

E rimane così,
dura, perfetta.
Immodificabile.

 

In Il silenzio e le voci, Nomos, Busto Arsizio 2011 e in Gli Stati Generali, 29 giugno 2020

POESIE

INNOCENTI

Un minimo scarto, un’ impercepibile distrazione
della natura. Un’errata colpevole
istruzione genetica, un cromosoma
incautamente danneggiato. Il trascurabile
abbaglio di una cellula sprofondata
nel mutismo, nell’inerte atonia.
Che risveglio, o riscatto, o qualsivoglia
premio ultraterreno? Sfrontato il pensiero
se spera che il male aiuti il bene, e serva
soffrire per trovare salvezza.
Non serve, né soccorre.
Eppure un respiro appannato
rimane respiro, sbucando dal niente:
e prima mancava.
*
Balbetta, non parla. Non sa.
Non pensa, ma sogna – forse. Forse vede
cose invisibili ai più. A stento
cammina (dove andrebbe, da chi).
A stento sta seduto. Sua madre lo lava.
Suo padre lo veste. E’ vivo di una vita
dolorante; aspetta lo scorrere dei giorni
senza un’idea di cosa sia aspettare.
Cresce, diventerà vecchio,
non gli dispiacerà morire.
Incosciente, innocente.
*
Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?
Chi ha scagliato la prima pietra?
Chi ha ucciso per invidia il fratello?
Qualcuno ha taciuto, più di uno
si è nascosto. Lo sciocco alla finestra
non si accorge di nulla, nemmeno
se ridono i vicini, se gli tirano sassetti
sul vetro i bambini usciti da scuola:
lo sciocco alla finestra controlla
le nuvole che si muovono piano,
come lui senza fare del male si muovono
piano.
*
Rinchiuso, stuprata; sgozzato,
fatta esplodere. Rapita. Annegato
nella vasca da bagno. Soffocato
col cuscino, dissanguata in un campo.
Nessuna reazione, nemmeno un tentativo
di difesa.
Perché temere (infatti) la mano cara,
il fuoco amico, la voce che consola.
Solo stupore:
a sorriso interrotto, a occhi spalancati,
a cuore interrogante.
*
Ciò che impunemente definiamo santità
talvolta è presunzione, eccessivo amore
di se stessi, sfida titanica contro
la propria cenere.
Invece, al silenzio incolpevole dovremmo
devozione e gratitudine, al male
immeritato, allo strazio innocente:
lontano dagli altari, fuori scena, indecoroso.
Talmente innocuo da non lasciare tracce
nella storia, talmente rassegnato alla sua
croce da suscitare scandalo.
*
Nel suo tacere porta le colpe
del mondo, sopporta i peccati, li sbianca:
agnello a cui sarà risparmiato il giudizio
finale (perché non ha giudicato – incapace
di intendere, impedito
a volere). Ma ecco che si alzerà in piedi,
sicuro di forza insperata, inattesa;
a passi giganti camminerà senza orme
e privo di peso: incontro a un perdono,
a un’ostia luminosa di trofeo.
Neppure avvertirà la sua vittoria;
solo l’aria intorno, solo cielo.
In Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2017 e Nulla Die, Piazza Armerina 2022

 

POESIE

JOSEPH

JOSEPH

 

Otto anni Benedictus

poi gravatus senectute

sofferente di salute

a basite eminenze

in concistoro

flebilmente scandisce

inaudita insospettata

decisionem

dopo fervida preghiera

tormentata riflessione

ribadisce

pervenuto

ad certam cognitionem

supplicando comprensione

declaro renuntiare

io semplice operaio

nella vigna del Signore

coscientia coram Deo

explorata

risolto ad abdicare

se si trova zizzania

più che grano

nel campo della Chiesa

Benedictus iam Joseph

preferisce migrare

spogliato di mitrie

pivali fanoni

sontuose liturgie

si allontana silenzioso

il più antiquus

vegliardo

della storia vaticana

invocando

la schiera dei santi

i saggi timonieri

della barca di Pietro

testimoni

di una croce sostenuta

restaurando

nel solco traditionis

ha scelto

il vicino più spoglio

monastero

dove un gatto

lo attende

e Mozart lo consola

pontifex non summus

ma emerito soltanto

altero curvo bianco

patiendo

et orando

lui teutone severo

così stanco

del mondo.

 

 

© Riproduzione riservata                   «La Poesia e lo Spirito», 31 dicembre 2022

POESIE

JUVENILIA

Inaspettati, insospettati,

ho trovato dei versi

in un libro non più aperto

da tempo immemorabile.

Perché oggi inservibile:

sulle lotte operaie

degli anni settanta.

Li avevo nascosti, timorosa

ragazza colpevole

di nutrire sentimenti borghesi.

Stridevano pudichi

e innamorati, tra analisi

puntuali di politologi marxisti,

di duri intellettuali,

economisti puri.

Innocui, indifesi

e forse indifendibili,

provavano a sfuggire

la prosa del reale.

Infantilmente, inutilmente,

era il mio modo

di medicare il male.

*

Dicevano caro

a un amore sbagliato,

sapendo che mai avrei osato

pronunciare davvero la parola.

Caro in quel libro

aveva un senso solo

e indirimibile,

mercantile finanziario

a valenza negativa:

costoso,

inaccettabile,

pesante da sostenere.

Ma io scrivevo caro

a chi non lo sapeva,

quanto mi fosse caro.

Nemmeno supponevo il costo

improponibile

di ardire poesia

tra cifre statistiche

sondaggi.

*

Preferivo Platone e Montale,

esitante opponevo

trascendenza a immanenza,

politico a privato.

Ed era la mia colpa,

l’infelice coscienza

– nebulosa nostalgica e scissa

tra viscere e cervello –,

soffrendo lo scandalo vero

della contraddizione.

Tradire o essere fedeli,

abbracciare la causa dei vinti

o l’allegria dei naufragi del cuore:

blandivo tristezza e ragione

con uguale viltà,

per una terza via mentale

al socialismo.

Persa dietro l’incanto impostore

di un’esile carezza,

seppellivo le rime

nel severo volume

di sociologia.

 

 

In La poesia e lo spirito, 11 febbraio 2022

POESIE

L’APPARTAMENTO

Le pareti

Di quale altro colore,
che non si perda l’essenziale che sono
–  lisce, senza bisogno di niente?
Gente diversa ama appendervi quadri,
abbracciarvi rampicanti, fare ombra
con lampade astratte. Ma è gente
che le teme, vuole sentirsi
indispensabile anche a loro:
che non hanno bisogno di niente.
Le ho lasciate come sono, bianche.

Gli spigoli

Impietosi stabiliscono confini, delimitano spazi:
gli spigoli, rigidi guardiani del solido,
sanno il diritto dell’aria che occupano
e da padroni mi marchiano
a sangue quando dispersa mi giro intorno,
cercando un posto al mio corpo.
Implacabili a ferirmi, io goffa inconsistenza
nel loro pieno, mi riduco alle mie ossa,
battuta e immobile, non esisto.

Il soffitto

Così basso che lo posso toccare
simulando un salto al canestro,
«ti ho preso» con un dito
strisciandolo, il mio cielo
a misura del braccio destro.
Di fuori quello alto
si allontana: ha paura, il mito.

Le tende

Le tende non ci sono, per questo occupano
tanto spazio. Ospiti che arrivano
portando in dono cioccolatini, si guardano
coi volti di chi attende qualcosa,
tetri si chiedono cos’è che manca
in questa casa. Sono a disagio,
si fingono disinvolti davanti alle finestre,
ma ogni tanto ticchettano sui vetri, fanno
un cenno ai vicini che li spiano.
Non ci sono le tende, la loro inesistenza
riempie le stanze.

Il tavolo

Attenta a questo tavolo
di favola,
che a detta del padrone di casa
ci si può mangiare in due.
Attenta al piatto al bicchiere
che non tintinnino
che non ti spaventino il cuore
toccandosi.

Il letto

Dormo sull’orlo, di fianco.
Inutile è il resto che si offre;
lo ingombro di altre cose,
lenzuola che non mi somigliano
coperte che non sono me.
Io amo i margini mi piace
stare scomoda. Ai corpi
simulacri, ai fantasmi
che si litigano millimetri di spazio
«state buoni», protesto,
ma loro «fatti in là!», ingrati
roditori cui ho ceduto anche il letto.

Lo specchio

Che non mi veda,
soprattutto,
e non si insospettisca del mio
non volerlo guardare.
Ma è sempre stato così stupido,
irrimediabile nella sua piattezza.
Loro ci si specchiano
con indubbio gaudio: dalla porta
li osservo mentre si piacciono
tanto da salutarcisi dentro.
E lui, neutrale,
fa finta di niente.

La fotografia

È come se dicesse
non ci sono, invece c’è:
è lì. Tutti la vedono:
c’è. Si teme assente dopo che
ha riempito ogni atomo
della sua presenza.
«Ma di chi parli? – ironizza
tacendo – di una che non esiste».
Però mi guarda come se fossi io a non esistere.

Il tappeto

Con tutta la loro carne, a gambe aperte,
alcuni lo pestano con incoscienza
guardando in alto o di fianco,
i signori del mondo.
Fosse un tappeto volante, potrebbe
scrollarseli di dosso, loro
e le loro scarpe piene di tacchi.
Ma così, costretto al pavimento, deve amare
i piedi discreti di chi gli gira intorno,
la leggerissima orma dei bambini scalzi.

La poltrona

Troneggia maestosa benché
sfondata nelle molle, pronta
a proteggere chi si abbandona
tra le sue braccia, e legge
o racconta o tace – gli occhi sbarrati
di un folle – , e le tormenta
il broccato a fiori, si abbraccia
i ginocchi, stenta a trovare pace.
Ma lei generosa lo calma
lo culla, è buona: le basta
una carezza, che le si dica
«sei la mia poltrona».

Le sedie

Le vedi, in fila, sembrano soldati
così severe, senza mollezze,
con lo strato di polvere – loro uniforme –
che le condanna: nessuno ci si siede,
piuttosto uno si affanna a stare in piedi
fino a notte. Ma loro non demordono,
immobili a vedetta della casa
che dorme, inutili ma fiere.

Il televisore

Mi hanno suggerito di venderlo,
piuttosto di lasciarlo spento
col suo cieco occhio che mi sorveglia
attento. Voglio deluderlo
nelle aspettative, non guardarlo.
Accenderlo nel fuoriprogramma,
che fischi a vuoto o resti muto.
Retrocederlo al posto del giradischi.

La porta

Chi entra non la guarda nemmeno,
preso com’è a ripassarsi la futura scena.
Lei non prepara a niente, non assomiglia
a chi nasconde; è come tante, appena scura,
tarda ad aprirsi.
Ma chi evade ne osserva col peso la resistenza.
Sente che le premono addosso i folletti
domestici, gli oggetti prigionieri.
Senza la porta, la casa sarebbe
già scappata da se stessa, sparsa
nelle strade, dietro il visitatore incauto.
E’ un bene che sia così pronta a richiudersi,
fedele come una serva, in silenzio come una morta.

 

In Nuovi Poeti Italiani 3, Einaudi 1984 e in Rosa Rosse Rosa, Bertani 1986.

POESIE

L’ESECUZIONE

I
Da lontano stava ad osservare
loro che innalzavano capestri:
abili nel condannare,
e delle esecuzioni sommarie
maestri.
Si grattò la testa, pensò
che era meglio andare.
Pestò l’erba, sputò in aria.
Ma poi si avvicinò,
si mise ad applaudire,
che iniziava la festa.
II
Non che gli piacessero
spettacoli del genere.
Ma cos’altro fare
di domenica mattina,
d’agosto, visto che non poteva
andare al mare?
III
Col piede sinistro segnava
il tempo alla banda,
nella mano destra un boccale di vino.
C’era aria da fiera di paese,
da mercato delle pulci a Samarcanda.
Ondeggiavano tutti,
si sbandavano, in punta di piedi
per meglio osservare,
a braccetto incatenati cantavano
dondolandosi come acqua nel mare.
IV
Lui guardava e non guardava,
ogni tanto volgeva altrove
gli occhi, un po’ per pena
di sé, dei carnefici innocenti,
o degli sciocchi spettatori
gaudenti.
V
La vittima non lo interessava:
se a tanto era arrivata
da farsi giustiziare
evidentemente
pativa la fine meritata.
VI
Gli era sembrato un po’ troppo giovane
e nei gesti lontani
burattino, al punto che si chiese
se non stessero impiccando un bambino.
VII
Bambino o no
era quello che ci voleva:
come quel vino fresco
nel caldo d’agosto.
Un’emozione forte
e sentirsi come tutti,
giusti davanti a ogni morte.
VIII
Sembrava di essere allo stadio
da tanto spintonavano, tifavano.
C’era chi scommetteva
sulla grazia finale:
l’evento mesto era insomma
un pretesto per quel baccanale.
IX
Una donna tra la folla lo fissava,
faceva di tutto per farsi vedere.
Le si mise dietro
per sfregarle col sesso il sedere.
X
Il rullo di tamburo
annunciò l’avvenuta esecuzione.
Lui si premette duro
al culo d lei in rilievo.
Fu un orgasmo collettivo,
eccitazione, urla e poi sollievo.
XI
Camminava svuotato
come gli altri
sul prato, tra carte e bucce,
stracci e péste.
Brindava a sconosciuti
faceva boccucce alle ragazze.
Nessuno guardava
dalla parte dove il corpo pendeva.
XII
Ci furono allora discorsi ufficiali.
Si applaudiva, ma le grida
coprivano le parole.
Le autorità sembravano ancora più sole.
XIII
Poi attaccò l’orchestrina,
cominciarono a ballare.
Non trovava la donna di prima.
Si strinse a una con voglia di baciare.
XIV
E bacia e gira e trallallà.
si trovò a caccia proprio là dove
non voleva andare, coi piedi lunghi
del giustiziato che davano ombra
sotto il sole a picco.
Stringendosi a una pazza dama unghie
dipinte lo guardò di sotto in su
e gli sembrò di vedersi com’era
lui da piccolo,
stessa faccia stessa razza.
XV
Gli veniva da dirgli
«Ehi amico, scendi giù che abbiamo
scherzato!»  Ma quello freddo
impassibile dall’alto indifferente
alle sue suppliche
e a tutta l’altra gente…
«Peggio per te, allora,
chi se ne frega,
aiutati che dio t’aiuta»,
continuò il ballo che l’orchestra
era ormai muta.
XVI
I più sciamavano via,
chi a piedi chi in macchina,
qualcuno in bicicletta.
Lui continuava a bere
a ballare da solo,
perché non si pensasse
che come gli altri aveva fretta.
Rimase nel prato
solo con l’impiccato:
sembrava addirittura stesse lì
per ripicca, per fargli compagnia.
XVII
Dovevano apparire ben strambi,
il morto rigido ma indulgente
l’altro accucciato a guardia lì vicino.
Venne la notte e a consolarli
entrambi:
l’ubriaco pentito e impotente,
l’impiccato con la faccia da bambino.
In Idra, anno II, n.3, 1991; in Litania Periferica, Manni, Lecce 2000, in Il Pickwick, 12 maggio 2018

 

POESIE

L’IMPERFEZIONE DELLA PIOGGIA

(Omaggio a Andrea Zanzotto, rileggendo La Beltà)

 

Obstrepente pluvia, effusis imbribus,
(scende la pioggia ma che fa?) scende
battente, bat-tente, bat-tenta: tenta
di sciacquare scialacquare allagare alluvionare
il mondo (Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente).
Ma il troppo da lavare sbiancare pulire
a cieli arcaici aciduli; basterà? basterà?
Una pioggia universale, un diluvio epocale
o la buriana che le sceme
fosse inacqua e aera le supreme
nullezze: annientando annullando dilavando
il niente ex nihilo usque ad libitum…
E affilare e affiorare
di sassi di massi di fango di melma
e pozzanghere: grigio grigio bigio nero.
Piove, per tutti gli dèi, piove,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
attraverso sidera et coelos,
pioggia perfetta, perfettissimo essere d’acqua,
sciogliti, infine!, impregnati di te, beviti,
ingozza la terra e slurp slurp
(sniff sniff gnam gnam yum yum),
affoga affonda affluisci affluente
fiume, precipita sui tetti aguzzi,
sui tegoli vecchi, a secchi, a cisterne,
a imbuti e caverne, affonda, innaffia,
annega. Oppure picchia argentina
«rain and tears»,
piccolina-ina-ina, pioggerellina
d’aprile crudele, sciacquetta,
moltofiore moltocielo moltorugiada
gentile sottile primaverile rinfresca
cose e cosine
musichette lucignoli e zuccheri,
lucida foglie asfalti vetrine suv e tir,
aziona lenti tergicristalli, rinfresca le menti,
röslein rot, rosellina tra le spine:
«Passata è l’uggiosa invernata,
Passata, passata!»
E che sarà di noi?
Che sarà del libero arbitrio e del destino?
Ancora uccellini svolazzanti nell’azzurro
di un cielo ripulito
vivario acquario dei verdi dei vivi:
Beltà beltà gorgheggiano
passeri rondoni cinciallegre
e fontanelle ruscelletti cascatine
da-de-ex-ab alto scendono gorgogliano
l’inno alla natura alla bellezza agli universi
espressione di che? (pensiero: no; azione: no;
amore: no; paesaggio: no)
la vigna pesa trasuda e fa mamma-mamma…
E io? E io? E frottole e scippi
magnifici di p-poeti.
Una riga tremante Hölderlin fammi scrivere:
sull’acqua sulla pioggia (la sua perfetta
imperfezione abbondante intrusione eclatante benedizione)
mentre balbetto ondeggiante fremo
e viene avanti il più nulla di tutti i miei nulla,
I’m singing in the rain e ballo e sguazzo e rido
sotto l’ombrello, il tutto del tutto intuendo
(ahi il primo brivido del salire, del capire)
ringrazio la pulizia dell’acqua, la polizia, la poesia,
i così sia, larga la foglia stretta la via
–  dite la vostra che ho detto la mia.
Il sale della lacrime, il sale del mare, il sale della terra,
e piante e fiori e erba
dentro la mondiale tenerezza.
Disinibiti monti caduti disagi;
e piove piove sul nostro amor.

«È tutto, potete andare».

 

In L’Immaginazione n. 278, novembre 2013 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

POESIE

LA CONFESSIONE

(Omaggio a Giorgio Caproni, rileggendo Congedo del viaggiatore cerimonioso)

 

Amici, una cosa vi devo raccontare.
Di una mia confessione – anni fa.
Scolpita nella memoria.
Ma io i ricordi
non li amo.
Questo però è vivo. Più di ogni altra storia.
E allora, ne scrivo.
Entrai in chiesa,
era buio. Entrai, come avessi patito un’offesa.
Sentivo rancore, nel cuore.
Ma (vi giuro: le mani
mi tremano), cominciai a pregare.
Non so ben dire
chi e per cosa; sentivo,
lieve, una costernazione.
E la voglia di mettermi
a piangere. Di disperazione.
La casa di Dio profumava
di fiori, e io respiravo
un’aria dolce di pena.
Che vale temere il nemico
fuori, quand’è già dentro?
Così mi accostai al confessionale:
mi inginocchiai. Feci il segno di croce.
Parlai. Di cosa, non so.
Forse del peccato più grave
– la colpa di omissione.
Il prete taceva.
A me, si incrinava la voce.
«Potrei fare e dare.
Non do e non faccio».
E poi «Non sono sicura
di credere. C’è troppa nebbia».
Infatti, che ne sappiamo
noi tutti, di quel che ci aspetta
di là, passata la cresta?
«Lei prega?» mi chiese severo
il pastore di anime.
«Di rado», risposi.
«E non, come accomoda dire
al mondo, perché Dio esiste:
ma, come uso soffrire
io, perché Dio esista».
«Ha dubbi di fede, dunque»,
ripeteva, quasi parlando a se stesso.
E poi mi chiedeva dei miei rapporti
con gli altri. «Ma io non vivo.
Così, non pecco. Scrivo.
Scrivo». Ammettevo
contrita. «Io, da soldato
semplice, il mio dovere
e stop». Aspettavo una parola
di condanna. Tra noi,
rammento, circolava
un’aria che mi sgomentava
di solitudine. E lui,
impaziente:
«Chi fabbrica una fortezza
intorno a sé, s’illude
quanto, ogni notte, chi chiude
a doppia mandata la porta».
«Ma Dio può entrare?
E’ in grado di forzare
le catene del cuore?»
Sbuffava, pensando («Che mai volete
da me – da questa mia miseria
senza teologia?»).
Teneva il piede
saldamente posato
sulle cose concrete. Chiedeva
che gli enumerassi i peccati.
«Non sono molti.
Altra cosa è la fede».
«Ma allora, cos’è venuta a fare?
In fin dei conti, cos’ha da confessare?»
Sembrava irato, forse turbato.
Capii il mio errore,
mentre pronunciava la formula
dell’assoluzione.
«Cosa vuole da me, signora?
Sono un povero prete. E in Dio
– non so se riesco a crederci più.
Dubito anch’io».
Mi alzai (nemmeno salutai)
uscii all’aperto. Il freddo
pungeva. Premeva ancora tutto l’inverno
(il brivido: il caldo)
del mio infantile inferno.

 

In Nuovi Poeti Italiani 6 – Einaudi, Torino 2012 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.