Inaspettati, insospettati,
ho trovato dei versi
in un libro non più aperto
da tempo immemorabile.
Perché oggi inservibile:
sulle lotte operaie
degli anni settanta.
Li avevo nascosti, timorosa
ragazza colpevole
di nutrire sentimenti borghesi.
Stridevano pudichi
e innamorati, tra analisi
puntuali di politologi marxisti,
di duri intellettuali,
economisti puri.
Innocui, indifesi
e forse indifendibili,
provavano a sfuggire
la prosa del reale.
Infantilmente, inutilmente,
era il mio modo
di medicare il male.
*
Dicevano caro
a un amore sbagliato,
sapendo che mai avrei osato
pronunciare davvero la parola.
Caro in quel libro
aveva un senso solo
e indirimibile,
mercantile finanziario
a valenza negativa:
costoso,
inaccettabile,
pesante da sostenere.
Ma io scrivevo caro
a chi non lo sapeva,
quanto mi fosse caro.
Nemmeno supponevo il costo
improponibile
di ardire poesia
tra cifre statistiche
sondaggi.
*
Preferivo Platone e Montale,
esitante opponevo
trascendenza a immanenza,
politico a privato.
Ed era la mia colpa,
l’infelice coscienza
– nebulosa nostalgica e scissa
tra viscere e cervello –,
soffrendo lo scandalo vero
della contraddizione.
Tradire o essere fedeli,
abbracciare la causa dei vinti
o l’allegria dei naufragi del cuore:
blandivo tristezza e ragione
con uguale viltà,
per una terza via mentale
al socialismo.
Persa dietro l’incanto impostore
di un’esile carezza,
seppellivo le rime
nel severo volume
di sociologia.
In La poesia e lo spirito, 11 febbraio 2022