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RECENSIONI

RECALCATI

MASSIMO RECALCATI, IL GESTO DI CAINO – EINAUDI, TORINO 2020

Caino, uccidendo suo fratello, compie un gesto crudele, privo di pietà, dettato da invidia e risentimento. La Bibbia lo racconta in Genesi 4,9: “Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise”. Massimo Recalcati riflette su Il gesto di Caino, lo ripercorre nel suo minuto accadere, e ancor prima, nel suo progettarsi, per poi interpretarlo psicanaliticamente, e offrirci una disamina dei suoi effetti nella storia della cultura ebraico-cristiana.

La tesi postulata in questa indagine è che “nella narrazione biblica l’amore per il prossimo viene dopo l’esperienza originaria dell’odio”, e che tale odio è motivato dal desiderio di distruggere l’Altro –vissuto come limitazione insopportabile –, per raggiungere “un ideale assoluto di autonomia e indipendenza”.

Il fratricidio di Caino è la seconda trasgressione agli ordini divini dopo quella attuata da Adamo ed Eva (il primo peccato è un furto, il secondo un assassinio). Ma appare forse ancora più grave ed eversiva della prima perché esercitata contro il parente più prossimo, contro il proprio sangue. In entrambe le storie narrate da Genesi, quella dei progenitori e quella dei due fratelli, il sentimento prevalente e condizionante è l’invidia: della coppia di sposi per la sapienza e il potere di Dio, di Caino per il fratello colpevole di avergli sottratto il prestigio presso la madre e presso il Signore.

L’invidia è un sentimento rivolto “a chi è come noi, ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso. In altre parole, l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso… quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile, colui che incarna l’immagine narcisistica di noi stessi”. Ciò che Caino non tollera di Abele è l’intrusione minacciosa nel rapporto edipico e fusionale vissuto con la madre Eva, il fatto di essere stato spodestato dal ruolo di figlio unico e prediletto, non solo dei suoi genitori, ma dell’umanità intera. Il gesto che compie è assolutamente narcisistico, in quanto teso a “coltivare un’immagine grandiosamente ideale di se stesso… La matrice dell’odio invidioso è, infatti, al suo fondo, una passione narcisistica per se stessi, per la propria identità, per il proprio Io”. Ad accrescere il suo risentimento è il fatto che Dio ha riconosciuto nel fratello, e nelle sue offerte sacrificali (carne anziché prodotti della terra, caccia piuttosto che agricoltura), un valore superiore al suo. Deluso dal rifiuto divino, umiliato nella sua esigenza di riconoscimento, Caino trova nel ricorso alla violenza un possibile risarcimento alla propria mortificazione. “La scelta di Dio gli appare un sopruso, un capriccio, un atto prevaricatore. Ma Caino, in realtà, non tollera l’esistenza dell’Altro – la sua alterità – che la scelta di Dio intende invece evocare e portare alla presenza. Tuttavia, anziché cogliere l’atto di Dio come un’occasione di crescita, Caino resta fissato nella rivendicazione dei suoi diritti assoluti, resta prigioniero della sua passione narcisistica”.

Da dove deriva questa volontà di sopprimere ciò che è altro da sé? In fondo Dio, all’atto della creazione, aveva esaltato la molteplicità, la differenziazione peculiare di ogni vivente, affermandone la libertà: a ogni creatura era stato dato un nome, sottolineandone l’identità esclusiva, la distinzione rispetto alla totalità indifferenziata.

Ponendo trasgressione e brutalità all’inizio della narrazione, dopo la generosa bellezza offerta dai primi sette giorni del creato, la Bibbia afferma che è stato l’uomo a portare il male nella storia; la propensione all’odio, alla disubbidienza, all’oltraggio sembra essere una spinta pulsionale primaria e ineliminabile: “La tendenza trasgressiva non è solamente una possibilità della vita umana, ma una sua inclinazione fondamentale”. Essa indica il desiderio di violare il limite imposto dalla Legge per proclamare la propria incondizionata autosufficienza, distruggendo ogni alterità.

La scelta della violenza è determinata dalla volontà di raggiungere il proprio scopo direttamente, “per via breve”, senza passare attraverso una faticosa mediazione con l’Altro: “colpire il prossimo viene prima dell’amore per il prossimo… all’origine della vita, dunque, non è il sentimento di fratellanza, ma la sua distruzione, la sua negazione feroce”. Secondo Freud, “La storia primordiale dell’umanità è piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli… Anche noi, considerati in base ai nostri moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini”.

Colpendo il fratello, Caino ha finito per colpire se stesso, poiché non essendo in grado di esperire l’alterità e di accettarne l’esistenza, ammette la propria incompiutezza e inferiorità. Nell’odio verso Abele, rende l’immagine di lui ulteriormente ideale e irraggiungibile: solo uccidendolo può tentare di ridurre lo scarto tra ciò che sa di essere e ciò che aspirerebbe a essere.

Solamente dopo l’omicidio Caino potrà intraprendere un percorso di recupero e salvezza. Quando Dio gli chiede conto del suo delitto, dapprima lo nega (“Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?”), quindi lo riconosce come crimine inscusabile (“Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!”). La maledizione divina lo costringerà a vagare “ramingo e fuggiasco”, a lavorare con fatica una terra arida e infruttuosa, marchiato con un segno che pur rendendolo eternamente riconoscibile in quanto assassino, ne impedirà l’uccisione vendicatrice, spezzando così la spirale della violenza e proteggendolo dall’automatismo di una Legge puramente sanzionatoria.

Nel confessarsi colpevole, Caino può espiare il suo peccato e iniziare una nuova vita, lontana dall’Eden, in un lento e difficile processo riabilitativo che lo condurrà alla costruzione della prima città umana e della propria paternità, atti generativi aperti al futuro. Il fratricida si assume così una responsabilità etica nei confronti del prossimo, persino dello sconosciuto o del nemico, e può recuperare in sé un sentimento di fraternità non esclusivamente biologica, ma compiutamente umana.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 13 settembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RECALCATI

MASSIMO RECALCATI, AMEN – EINAUDI, TORINO 2022

Amen, atto unico di Massimo Recalcati, dopo la dedica all’amico e poeta Francesco Scarabicchi scomparso lo scorso anno, reca come epigrafe questa frase tratta da Finale di partita di Samuel Beckett: “Hamm: Intorno a te ci sarà il vuoto infinito, tutti i morti di tutti i tempi non basterebbero, risuscitando, a colmarlo, e sarai come un sassolino in mezzo alla steppa”, a indicare come sia la morte la protagonista assoluta di questo testo teatrale.

Sul palcoscenico, all’interno di una scenografia dimessa, si muovono tre personaggi: un uomo maturo (Enne 2), un soldato e una madre. Al protagonista, alla sua riflessione sconsolata e a tratti rabbiosa, spetta il compito di coordinare ieri oggi e domani, a partire dalla propria nascita tribolata, così come viene raccontata dalla madre, poi da un passato che assume la voce di chi ha combattuto in guerra, per immaginare un futuro di decadenza fisica e mentale, fino all’inevitabile esito della scomparsa dal mondo dei vivi.
Enne 2 esprime il suo tormento filosofico nei riguardi del significato dell’esistenza, e soprattutto della sua conclusione: “dopo” risulta il termine più carico di spessore emotivo, nell’inquieto interrogarsi metafisico sul niente e sul buio che attende ogni essere vivente: “Ma si potrà «dopo» ancora bere? mangiare? respirare? camminare? Avremo ancora «dopo» occhi, gambe, mani, orecchie, capelli, piedi? Potremo ancora «dopo» ridere? respirare? parlare? O saremo solo degli spettri freddi, fradici, separati per sempre dalla vita, inghiottiti dalla notte, morti per sempre, perduti, vinti, senza luce, caduti nel buio più buio della notte…”, “«Dopo» dove sarebbe? In cielo, sotto terra, in un altro mondo?”

Il destino ingiusto e crudele di essere destinati a sparire in quanto creature, viene stigmatizzato in un elenco rabbrividente di sostantivi e attributi che descrivono i corpi quando perdono ogni funzione vitale: “spettri freddi, fradici, separati per sempre dalla vita, inghiottiti dalla notte, morti per sempre, perduti, vinti, senza luce, caduti nel buio più buio della notte…”, “finiti, sfiniti, spenti, scomparsi, ridotti a marmi freddi, al silenzio totale”, “segatura, sabbia, cenere, polvere…”, “resti putridi, avanzi, scarti, sabbia, detriti…”

L’amplificazione del concetto nel reiterato susseguirsi di sinonimi serve a Recalcati per indicare quello che la morte toglie, con cieca ferocia, a chi vorrebbe poter continuare a godere della bellezza, dell’amore, degli affetti familiari: “Voglio vedere ancora le cose, i corpi, i volti, gli odori, il sole, le stelle, i mari, le città, i ruscelli, la montagna, il bosco, le case, le strade…”, “bere, mangiare, respirare, baciare, toccare, vedere, leggere, scrivere, amare…”, “Troppo bello nuotare, correre, amare, respirare, camminare, vedere la luce…”

Al lamento funebre dell’uomo risponde la madre, rievocando il suo parto difficile, da cui lui è nato prematuro, sofferente, “gattino indifeso”, lottando con forza per rimanere aggrappato alla vita, per non essere risucchiato nel silenzio e nel vuoto del niente. E gli fa eco il ricordo del giovane alpino, coperto da un logoro pastrano, che ricorda le marce nelle notti gelide, il ritmo cadenzato dei passi di soldati in colonna sulla neve, il sacrificio di tanti ventenni caduti senza poter godere della loro giovinezza: “C’è solo la vita che resiste. Il ghiaccio attorno e la vita che resiste. Il passo e il cuore. Nient’altro. Tutto attorno morte e poi c’è la vita del passo e del cuore. Il passo e il cuore, amico. È tutto lì”.

È lo stesso cuore che batte, implacabile e mai arreso, nel neonato chiuso nella scatola trasparente di un’incubatrice e nel soldato sfinito che vorrebbe lasciarsi andare; ciascuno combatte furiosamente la sua battaglia per non arrendersi alla fine che tutto cancella: il partigiano come il terrorista, il toro portato al macello come i conigli scuoiati, i giovani amanti avvinghiati nel desiderio sessuale e gli anziani ormai inebetiti.

Alle voci dei protagonisti, stentoree nei loro disperati monologhi, fanno da sottofondo nella resa teatrale preghiere, canzoni popolari, versetti dei Salmi, i battiti amplificati di un cuore, lo scalpiccio di scarponi militari sulla neve, slogan di lotta armata, voci di bambini, pioggia e tuoni, e le parole dell’ultima lettera di Aldo Moro (“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”).

Dal battesimo all’estrema unzione, dal vagito del neonato all’Amen che accompagna la sepoltura, (“Amen! Ma io non voglio che finisca!”), tutto il testo di Massimo Recalcati risulta un drammatico de profundis che implora salvezza e pietà, ma grida anche la sua ribellione per la caducità dell’esistenza, che non merita di dissolversi nel nero della morte. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, ha debuttato al Festival di Spoleto l’8 luglio del 2021 con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli, per la regia di Valter Malosti.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Amen-Recalcati         27 aprile 2022

RECENSIONI

REMUZZI

GIUSEPPE REMUZZI, LA SALUTE (NON) È IN VENDITA – LATERZA, BARI-ROMA 2018

Da tempo assegno il 5 per mille della mia dichiarazione dei redditi all’Istituto Mario Negri, che sostengo anche con una donazione annuale, non solo per la stima che provo per la profonda competenza scientifica e l’impegno umano del suo fondatore, Prof. Silvio Garattini, ma anche per l’esperienza diretta che un mio conoscente ha avuto affidando ai ricercatori del Negri la diagnosi di una sua rara malattia genetica, male interpretata da centri medici europei di eccellenza.

L’attuale direttore dell’Istituto, Prof. Giuseppe Remuzzi, che abbiamo imparato a conoscere nei suoi frequenti interventi televisivi sulla pandemia, aveva pubblicato da Laterza nel 2018 un pamphlet appassionato sulla situazione della medicina nel nostro paese, che oggi suona amaramente profetico: La salute (non) è in vendita. Con fervore e autorevolezza, Remuzzi difende l’essenziale e insostituibile importanza del nostro Servizio Sanitario Nazionale, istituito nel 1978 e riformato nel 1992. Prima della sua creazione, in Italia esistevano le mutue, pubbliche e private, che non garantivano pari livelli di omogeneità sul territorio. Invece il SSN risponde a tre principi fondamentali: universalità, solidarietà e uniformità, confermando così il diritto civile enunciato dall’articolo 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure agli indigenti”. Si sancisce in tal modo il principio (che a tutt’oggi non viene riconosciuto nella maggior parte del mondo) che la salute non è un bene da lasciare alle dinamiche del mercato, ma va assicurata a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche e dallo stato sociale dei cittadini. Una grande conquista democratica del nostro paese, che anche oggi va assolutamente difesa e rafforzata.

Il Servizio Sanitario Nazionale implica per lo stato costi di finanziamento molto elevati (per quanto ancora ridotti rispetto a quelli di altre nazioni), e destinati a crescere in futuro, con l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle malattie croniche, il prezzo delle nuove terapie e degli strumenti diagnostici. Ma si possono già ideare e programmare soluzioni atte a contenere le spese. Il Prof. Remuzzi ne indica alcune:

1) La ricognizione delle esigenze dei territori per eliminare attività inutili o ridondanti, promuovendo solo le cure di provata efficacia, chiudendo i piccoli ospedali che disperdono risorse e accreditando gli istituti privati solo laddove l’intervento pubblico sia carente. 2) L’abolizione dell’intramoenia, l’attività privata dei medici dipendenti in ospedale, per mettere fine a corsie preferenziali tra chi può permettersi di pagare e chi no. 3) La creazione di strutture di lunga degenza, che consentano agli ospedali una migliore organizzazione e ricoveri più brevi e meno dispendiosi. 4) L’assunzione dei medici di medicina generale alle dipendenze del SSN, con uguali diritti-doveri-retribuzione degli ospedalieri. 5) L’investimento nella ricerca e nella formazione dei giovani da inserire a tempo pieno nella sanità pubblica.

L’OMS prevede che nel mondo tra dieci anni sarà necessario reclutare 40 milioni di addetti nel settore della salute: l’impiego di ognuno di loro genererà possibilità di lavoro per almeno altre due persone nel campo dell’amministrazione, delle assicurazioni, dell’informatica, dei trasporti e dei servizi. Una reale rivoluzione del mercato del lavoro a livello globale, che produrrà anche un notevole cambiamento nelle abitudini e nella mentalità delle persone. Ci sarà una presenza rilevante della robotizzazione di alcune funzioni all’interno dei laboratori di ricerca e degli ospedali, un massiccio incremento degli studi sulla genetica, sulla prevenzione delle malattie, sulla scoperta di nuovi vaccini. Ciò comporterà anche un’inevitabile modificazione ideologica e comportamentale rispetto a temi fondamentali quali la durata della vita, l’accanimento terapeutico, l’utilizzo di strumenti di informazione informatici, una consapevolezza scientifica sempre più diffusa tra gli utenti. Indispensabile è comunque preservare il mantenimento di un Servizio Sanitario Nazionale efficiente e democratico, che garantisca le stesse possibilità di cura al Nord come al Sud, evitando le differenziazioni economiche, gli sprechi di investimento, le lunghe liste d’attesa e la disorganizzazione cui oggi assistiamo ancora troppo spesso.

 

© Riproduzione riservata         SoloLibri.net › Salute-non-e-in-vendita-Remuzzi    21 aprile 2021

 

 

 

RECENSIONI

RENAN

ERNEST RENAN, VITA DI GESU’ – NEWTON COMPTON, ROMA 2012

Papa Wojtyla sospese dall’insegnamento nell’università di Tubinga il teologo Hans Küng che, con il grande successo di pubblico ottenuto dal suo libro Dio esiste?, si era reso portavoce di una forte critica alle teorie ufficiali vaticane. Un destino analogo, e di ben più ampia rilevanza, ebbe Ernest Renan, che nel 1863 venne revocato dalla Cattedra al Collège de France per il clamore suscitato da un suo libro considerato eretico Vita di Gesù. Renan nacque a Treguier nel 1823, e molto giovane si indirizzò verso studi religiosi al Seminario di San Sulpicio, a Parigi. Non prese però la veste talare, già tormentato da dubbi circa la veridicità della lettura canonica dei testi sacri. Filologo, studioso di lingue semitiche, mantenne per quindici anni la cattedra universitaria di lingua ebraica, viaggiando in Palestina e dedicandosi a pubblicazioni specialistiche. Quando ormai la sua fama era consolidata, pubblicò questa Vita di Gesù, che doveva far parte di una più vasta storia del cristianesimo. La curiosità, lo scandalo che l’opera sollevò furono superiori a quello provocato dalla Madame Bovary di Flaubert, anch’essa messa all’indice. Quello che la gerarchia ecclesiale e la cultura ortodossa francese non perdonavano a Renan, era di aver applicato rigorosi metodi scientifici (confronti filologici, studio delle incongruenze tra i Sinottici e il Vangelo di S.Giovanni) a verità rivelate e indiscutibili. Di avere cioè sottoposto a indagine critica e razionale ciò che si doveva accettare per fede e ubbidienza. Per Renan, convinto della giustezza del suo metodo, fu soprattutto una questione di coerenza intellettuale condurre l’esame dei testi alle estreme conseguenze: «Io vedo queste contraddizioni con un’evidenza così assoluta, che ci scommetterei sopra la mia vita, e anche la mia eterna salvezza».

La Vita di Gesù, che Oscar Wilde definì «un incantevole Vangelo secondo San Tommaso», ripercorre l’esistenza del personaggio storico di Cristo, rivelando l’humus culturale in cui si era formato, riscrivendo quale tipo di rapporti lo legava al suo ambiente, alla famiglia, ai discepoli. Senz’altro inaccettabile parve ai denigratori di Renan la sufficienza con cui egli sottovalutava il miracolistico e il soprannaturale in genere nella vicenda umana di Gesù, definendo Cristo «taumaturgo per forza», rifiutando anche la resurrezione come prodotto «della passione di un’allucinata». Renan fu un biografo laico innamorato del disegno umano, sociale del suo eroe, e si lasciò affascinare dalla follia mistica, dalla sete di giustizia e di luce di Gesù, al punto di riscriverne la vita tenendo conto solo della sua utopia terrena.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Vita-di-Gesu-Ernest-Renan.html      16 ottobre 2015

RECENSIONI

RENSI

GIUSEPPE RENSI, APOLOGIA DELLO SCETTICISMO – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Giuseppe Rensi, filosofo sui generis tra i pensatori italiani, fu antiidealista e anticrociano; sotto il fascismo perse la cattedra all’Università di Genova e passò alcuni anni in esilio. Ebbe interessi molteplici, che spaziavano dalla filosofia antica allo studio di Spinoza e Nietzsche, e assunse una posizione critica nei riguardi di tutte le retoriche dei suoi anni: dall’esaltazione del Risorgimento alle teorie estetiche e politiche del futurismo e del dannunzianesimo. A partire da questa sua posizione isolata e forse elitaria nella cultura del nostro primo 900, propose una rilettura meditata e insieme polemica dello scetticismo, scrivendo un manuale che fu pubblicato nel 1926, e viene oggi riproposto in un’elegante edizione, con un’acuta introduzione di Armando Torno. Partendo dai filosofi greci dichiaratamente scettici (Pirrone,e poi Sesto Empirico, che ne fu il diffusore nell’antichità), ma risalendo addirittura a Eraclito e Parmenide, per poi recuperare tracce del pensiero scettico nel corso di tutta la storia della filosofia, Rensi offre un’appassionata difesa dello scetticismo contro tutti i pregiudizi e le banalità che ne danno un’idea falsa e riduttiva. “Scettico vuol dire per i più, uomo indifferente a ogni convinzione, pronto se occorre ad assumerne senza scrupoli una qualsiasi e a cambiarla quando fa d’uopo, irrisore di tutte le fedi”. In realtà “lo scetticismo stabilisce la sua tesi in contrapposizione al dogmatismo nazionalista e idealista”; esso nega che il reale sia deducibile dalla ragione, ma afferma che deve essere constatato a partire dall’osservazione dei fatti,concludendo che non esistono verità assolute. A partire da questa convinta e perentoria affermazione, Rensi esamina i presupposti dello scetticismo nei vari aspetti della ricerca filosofica:nella metafisica (confutando sia l’essere sia il divenire), nella logica, nell’estetica e -con toni decisamente infiammati- nel campo dell’etica e della politica. Un libro da leggere, per chi non crede o crede troppo…

IBS, 20 aprile 2011

 

RECENSIONI

REVELLI

MARCO REVELLI, UMANO INUMANO POSTUMANO – EINAUDI, TORINO 2020

Tra un Prologo inquietante (Il virus del disumano) e un Epilogo sgomentato (Finis terrae), Marco Revelli racchiude i nove densi capitoli del suo saggio Umano Inumano Postumano, costernata riflessione sulla nostra contemporaneità, così come si è andata trasformando dalle ceneri di un tragico passato novecentesco, e un futuro che si prospetta complesso e allarmante.

Revelli (Cuneo 1947), storico, accademico, attivista politico, ha al suo attivo molti importanti volumi di analisi e denuncia dello stato attuale della società italiana. In questo ultimo lavoro prende le mosse da alcune considerazioni relative al concetto di umanità, termine introdotto a Roma nel I secolo a.C. sul modello della philantropia greca, atteggiamento di benevola e rispettosa attenzione verso i propri simili, e strumento essenziale nella costruzione della convivenza civile. Ideali sostenuti e diffusi negli scritti di Terenzio, Plauto, Cicerone, che penetrarono nelle coscienze delle popolazioni europee insieme a una nuova idea di umanesimo, inteso come valore specifico, indipendente sia dal divino sia dal naturale, condiviso già dal primo Cristianesimo, e poi dal Rinascimento e dall’ Illuminismo. Secondo Revelli, questa fede nell’umanesimo si è infranta meno di un secolo fa, con il nazismo e lo scandalo di Auschwitz: “Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l’irruzione massificata del disumano nell’umano”, quando l’uomo ha potuto essere considerato nulla per l’altro uomo. Tale dis-umanità è la stessa espressa dal feroce spettacolo, protratto quotidianamente da anni, della morte in massa dei migranti nei nostri mari, “osservato dapprima con pena poi sempre più con disattenzione, assuefazione, fastidio infine, e persino odio”.

In alcune figure emblematiche della cultura europea tra la fine del 1400 e il 1600 (Hieronymus Bosch, Amleto, Don Chisciotte, Giordano Bruno), Marco Revelli ravvisa i sintomi della prima grave rottura dell’armonia classica, con l’avvento di una crisi spirituale determinata dalle nuove istanze religiose della Riforma, dalle rivoluzionarie scoperte scientifiche, dal dilatarsi dei confini terrestri.

La modernità si affaccia in un mondo non più interpretabile secondo i parametri culturali del passato, e sempre più sconvolto dallo sgretolarsi di certezze rassicuranti sul ruolo dell’individuo nella società, nella storia e nell’universo. Tra ’600 e ’700 si impone un nuovo principio d’ordine, dettato dal concetto di Sovranità inteso come potere assoluto, a cui il suddito si assoggetta volontariamente, e con timore, per pura necessità di sopravvivenza. Il potere si giustifica da solo nella sua dimensione statuale, secondo il fondamento teologico-politico che assume il male e la violenza come instrumentum regni per mantenere l’unità, utilizzando la paura dei cittadini per assicurarsene la fedeltà.

In questa sua particolare e talvolta discutibile ricostruzione storica, Revelli pone molta attenzione alle espressioni artistiche che hanno accompagnato evoluzioni e involuzioni sociali, adeguandosi non solo agli umori popolari, ma soprattutto alle esigenze delle classi dominanti.

Se per due secoli e mezzo la vita quotidiana si è svolta ubbidientemente “sotto l’ombrello della Spada e della Legge” (ma come non considerare il principio libertario dell’Illuminismo, della rivoluzione Francese, delle lotte risorgimentali?), con il passaggio dalla Monarchia assoluta a quella costituzionale e poi allo Stato liberale rappresentativo, secondo l’autore torna a prevalere la difesa del vantaggio individuale rispetto a quello della collettività. Dopo il crollo delle fedi religiose, dopo la morte di Dio, anche la morte del prossimo sottolinea la fondamentale solitudine, verticale e orizzontale, dell’uomo.

Nel Novecento, con la strage industrializzata della Grande Guerra, e poi con i lager nazisti, l’inumano riprende a dominare lo spirito del tempo, dilagando senza freni spirituali. Le guerre mondiali e il nazismo certificano “la progressiva desertificazione del paesaggio interiore, l’abbattimento inarrestabile degli strati di civilizzazione sedimentati nei secoli fino a raggiungere l’osso di un’elementarità crudele, da branco predatore”. L’umano si fa disumano nell’esibita indifferenza per l’altro da sé, negli ultimi decenni divenuta ancora più manifesta soprattutto verso gli strati poveri e fragili della popolazione. Un’insensibilità nemmeno più giustificata da ragioni ideologiche, ma solo dalla corsa competitiva verso l’utile, per cui la persona viene considerata puro soggetto economico. Verità divenuta tanto più evidente con lo scoppio della pandemia, quando molti governi hanno cercato di salvaguardare più che la salute dei cittadini, gli interessi finanziari e industriali delle nazioni.

Nelle pagine dedicate alla tragedia del Covid, al Revelli storico si sovrappone l’attivista politico, il giornalista impegnato nella denuncia. Sono i capitoli più convincenti del volume, quelli in cui l’autore si interroga sull’attualità, confrontando dati, citando testimonianze, elencando statistiche e riferimenti bibliografici, offrendo un ricco apparato di note. La sua indignazione si fa palpabile nel constatare che esiste una parte dell’umanità esclusa dal trattamento sanitario sulla base dell’età, dello stato sociale, delle condizioni fisiche: la terapia intensiva garantita dai macchinari dimostra quanto la civiltà contemporanea sia più dipendente dal denaro e dalla tecnologia che dall’etica.

Ecco allora che il passaggio dall’Umano all’Inumano si estremizza ulteriormente nell’approdare al Postumano, lungo un percorso che ha declassato l’uomo dalla posizione di centralità, unicità e autosufficienza occupata nell’Umanesimo, rendendolo quasi l’appendice di sofisticate strumentazioni meccaniche. Assediata da biotecnologie, neuroscienze, machine learning, nanobionica, ingegneria genetica, cyborg, nel futuro prossimo l’umanità sarà destinata a compiere un doppio salto di specie: verso l’alto (in una posizione simil-divina, creatrice di vita in laboratorio) e verso il basso, diventando un manufatto artificiale: costruito, riparato, sostituito anche nelle mansioni intellettuali.

Come genere umano, stiamo forse pagando un peccato di superbia, avendo preteso di ergerci a dominatori trionfanti dell’universo intero, e l’attuale crisi del soggetto ci riduce all’insignificanza che meritiamo, laddove “le cose si personalizzano mentre le persone si reificano”, oggetti tra gli oggetti. In conclusione di un quadro tanto pessimistico, Marco Revelli indica l’unica possibile via di salvezza nell’esortazione suggerita da papa Francesco nella sua rivoluzionaria enciclica Laudato si’, ad abitare responsabilmente la terra di cui ci siamo ritenuti padroni assoluti, sfruttandola e violentandola, e a ritrovare una pacifica collaborazione non solo tra individui, ma con tutte le altre specie viventi e con l’ambiente che per millenni ha sopportato i nostri soprusi.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 14 dicembre 2020

 

 

RECENSIONI

REYNOSO

OSWALDO REYNOSO, GLI INNOCENTI – SUR, ROMA 2016

Lo scrittore peruviano Oswaldo Reynoso (1931-2016) ebbe vita letteraria non facile nel suo paese: accusato di estremismo politico e di amoralità provocatoria nella sua scrittura, si trovò spesso isolato e preso di mira dalla censura, al punto di scegliere un volontario esilio in Cina. Le edizioni romane SUR, che già avevano proposto ai lettori italiani il suo romanzo “Niente miracoli a ottobre”, pubblicano ora il suo primo libro di racconti, Gli innocenti, uscito in Perù nel 1961, e qui presentato nella traduzione di Federica Niola e con la prefazione di Matteo Nucci.

Si tratta di cinque racconti brevi che hanno come protagonisti alcuni adolescenti inquieti o disperati, rabbiosi e privi di prospettive, che trascinano le loro giornate nelle strade assolate e sporche di Lima, sotto “un cielo pesante e ardente”, oppure nei bordelli dei quartieri più malfamati, o nei bar a giocare a dadi e a biliardo.
Si chiamano Faccia d’Angelo, Principe, Carambola, Rossetto, Ciambella, Corsaro, Cinese: nemmeno proprietari dei loro veri nomi, innocenti come tutti i ragazzi che si affacciano alla vita senza alcuna possibilità di riscatto, colpevoli di affrontare l’esistenza in maniera quasi animalesca, istintiva, spinti da una fame atavica di cibo, alcol, sesso, trasgressione.

La «prosa poetica» di Reynoso, come viene definita da Nucci, in bilico tra realismo e ispirazione meditativa, oggi non scandalizza più nessuno, anche se cinquant’anni fa aveva turbato le coscienze dei benpensanti; le avventure e le scazzottate dei protagonisti, le loro ribellioni verso gli adulti, i furti e gli scippi, gli accoppiamenti annaspanti non bruciano più nelle pagine che ormai ci paiono quasi innocue.
Il credo dei questi ragazzi (“Devi saper fumare, bere, giocare, rubare, marinare la scuola, cavar soldi ai froci e andare a puttane”) risulta quasi patetico rispetto alle violenze esibite oggi da qualsiasi cronaca giornalistica.
Rimane, quindi, in questa scrittura, il fascino delle descrizioni, ricche di odori, colori, sapori: fisicità, insomma. “Il vento, opaco e caldo, sollevava fogli di giornale ingialliti e sporchi. Il pomeriggio – lento, sudaticcio, pieno di suoni sordi e lontani – si svegliava bambino. La città reggeva il peso, selvaggio e violento, del sole”; “Sembra che i corpi siano coperti di miele e le camicie si appiccicano addosso, tiepide. L’odore acre e bruciante delle ascelle si mescola, con violenza, al vapore umido e dolce del prato. Furia. Voglia di mandare il papa a farsi fottere”; “Sono andato subito sotto casa di Alicia. Le ho fatto un fischio. È scesa. Ed era fantastica: con le occhiaie e quell’odore di letto sporco che mi fa infoiare”.

Un Sudamerica lontano, chiuso in un’eternità immobile e astorica.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Gli-innocenti-Oswaldo-Reynoso.html     22 luglio 2016

 

RECENSIONI

REZA

YASMINA REZA, DA NESSUNA PARTE – ARCHINTO, MILANO 2012

Cinque brevi racconti della scrittrice “iraniana, russa, ebrea, ungherese”, naturalizzata francese, Yasmina Reza, nota a livello internazionale soprattutto per la sua produzione teatrale: scritti con levità e sospesa malinconia, quasi con pudore e timore di approfondire sentimenti e situazioni, evitando descrizioni accurate di luoghi e figure. Non si tratta nemmeno di ricordi: immagini, piuttosto, sensazioni che hanno qualcosa di impressionistico. Acquerelli dai colori tenui. «I luoghi mi ispirano quando li vedo da una strada o da un treno per esempio». Mai da molto vicino, piuttosto dall’alto, o di lato. Come quando racconta il rito del saluto ai suoi bambini che vanno a scuola, il timore di seguirli troppo con gli occhi, o troppo poco. La paura di penetrare con eccessiva partecipazione nelle vicende altrui, nelle anime degli altri: che così vengono colti in un solo gesto, e in esso immortalati (il tuffo in piscina, un maglione nero con le frange, il cocker nero inquietante dei genitori, la camera troppo ordinata dell’adolescenza…). Tutto viene come mediato, filtrato, attraverso lo spettro impersonale della letteratura; i sentimenti rivivono soprattutto nelle parole degli scrittori più amati. Questa quasi estraneità alla vita reale («occorre astrarsene o considerarla l’unica salvezza, con la sua banalità, le sue inerzie i suoi continui ricominciamenti?») viene motivata nel racconto finale, che dà il titolo al libro. L’autrice non ha origini, è una déraciné: «Io non ho radici, a nessun luogo è mai importato di me….Non conosco le lingue, nessuna lingua, dei miei padre, madre, antenati, non riconosco né terra né albero, nessun suolo è stato il mio… non so di quale linfa mi sono nutrita…» Troppi luoghi e troppe lingue l’hanno resa lontana ed esclusa, incapace di riconoscersi in ricordi e tradizioni, incapace di rimpianti. E così la sua scrittura elegante e leggera dà al lettore l’impressione di uno smarrimento soffocato a lungo, di un disagio mai vinto, di una tristezza quasi rassegnata.

 

«Leggere Donna» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

REZZA

ANTONIO REZZA, CREDO IN UN SOLO OBLIO – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2023

La Nave di Teseo ripubblica un romanzo di Antonio Rezza (Novara 1965), uscito in prima edizione da Bompiani nel 2007 e vincitore del Premio Feronia: Credo in un solo oblio. Si tratta di una sorta di poema in prosa, provocatorio, angoscioso, ossessivamente autoreferenziale. In uno stile che sperimenta lo stream of consciousness, viene eliminata ogni barriera tra la percezione effettiva delle cose e la rielaborazione mentale. Ne risulta una narrazione surreale, scandita in frasi brevi e assiomatiche, separate nei primi capitoli da continui a capo, come nei versi di una poesia. Che della poesia, e della recita ad alta voce (Rezza è celebrato attore teatrale) mantengono il ritmo e le pause, la forza della declamazione stentorea. Già evidente nelle righe di apertura: “Era una giornata iniziata da poco. / Comincia così la giornata, da poco. / E a poco a poco si fa lunga, insopportabile, fino a sfinire. / E così i mesi. / E così gli anni. / E i secoli che non vedremo”. Più sotto, ancora, una definizione drammatica dell’esistenza: “Nasciamo morti e moriamo vivi. Questo è il problema”. Il gusto dello spiazzamento, dell’iperbole polemica che talvolta si fa ingiuria, istigazione, è già evidente dalla dedica in esergo: “A tutti coloro”, che potrebbe significare a tutti e a nessuno, a quelli come me e a quelli diversi da me.

La voce narrante è un alter ego ovviamente chiamato Antonio, la cui caratteristica principale è l’odio impaurito verso il mondo circostante e l’odio-amore verso sé stesso: “Da circa sette anni vivo in un inferno interiore. Brucio dentro. / Sono la mia ulcera. Sono il mio tormento. / Senza me vivrei meglio, ma mi occupo quel tanto da non darmi scampo”. Antonio ha un amico che lo fa ridere, ma si frequentano poco. Ha avuto una moglie morta di parto, e una bambina di nome Maria che nessuno ha mai visto, e lui rinchiude nei suoi pensieri compulsivi per non contagiarla del suo male oscuro.

Caducità del tempo, caducità degli avvenimenti e dei sentimenti sono il leitmotiv della riflessione filosofica e morale dell’autore: vanità del Qoèlet, indifferenza sartriana, finzione borgesiana, Cioran e Houellebecq rivisitati. Ripetizione, inutilità di ogni sofferenza, noia. “Non c’è noia che non sia eterna. / La noia è immortale. / La noia è come Dio. E in più esiste. / Tutto riesce ad annoiare”.

La miseria in cui ci dibattiamo non è colpa del Cielo, dello Stato, del destino: è colpa nostra. “Siamo quel che meritiamo, non siamo quel che siamo. / Fossimo ciò che siamo saremmo felici. / Ma non siamo felici. / Forse neanche siamo. / Siamo a sprazzi”. Siamo tutti “Sfottuti. Sfittati. Sfiniti. Finiti. Finiti per sempre. / Finiti in vita. / E pronti a ricominciare”.

Come vive, cosa fa Antonio? L’elenco delle sue banali azioni quotidiane (dormo mangio fumo parlo esco) viene subito contraddetto dal loro contrario (non dormo non mangio non fumo non parlo non esco). “Non lavoro, non ho rapporti sociali, mi sveglio ogni giorno e cado in balia di una deriva implacabile che mi condurrà all’infermità mentale”.

Ma improvvisamente gli capita qualcosa di incredibile e dirompente, che rivoluziona la sua intera esistenza e il suo modo di rapportarsi col mondo: decide di andare a farsi una foto per “vedersi chiaro”, per dare sostanza alla sua faccia, alla sua fisicità, e avere un riscontro concreto di sé in un documento ufficiale. La foto esce mossa perché Antonio si distrae e scompone: “Scatto durante lo scatto. / E vengo mosso. Mosso nella foto. Nella foto mosso come vorrei nella vita”. Il ritratto non corrisponde realmente al suo viso, non gli assomiglia. Quindi, al primo controllo della carta d’identità da parte della polizia stradale, lo straniato e incolpevole protagonista viene arrestato per detenzione di documenti falsi.

Alla narrazione cadenzata dalle pause e dagli a-capo si alternano brani pseudo-normalizzati tipograficamente, ma ancora febbrili nello stile e deliranti nei contenuti. Inizia infatti un vorticoso accavallarsi di avvenimenti paradossali, privi di logica, che conducono Antonio a uno sdoppiamento della personalità, a uno schizofrenico incarnarsi nei corpi di tutti coloro che incontra, e sulle cui facce si sovrappone la fotografia della sua carta d’identità. “Chiunque mi è di fronte io sono. Ma pur essendo in tutti continuo a non essere nessuno. Muovendomi nello studio del fotografo al momento dello scatto sono entrato nelle foto dell’umanità”. L’unico modo di uscire dal suo bloccato, atonico egotismo è il movimento subitaneo e involontario che, squarciando i confini rigidi e incasellanti del ritratto, lo mette in comunicazione con un esterno perturbante e maniacale, ma comunque concreto. L’ossessione per la fotografia prende di mira l’esibizione di sé oggi imperante sui social e nei media (“se un giorno m’impicco lo faccio in autoscatto”) e nello stesso tempo esprime la convinzione che noi siamo “l’immagine del nulla”.

Antonio evade dalla prigione e scopre il suo viso su tutti i cartelloni pubblicitari, nel casellario della polizia, nelle riviste, nei bar, sui tram, nei ritratti dei defunti al cimitero. “Entrando e uscendo dalla carta d’identità posso vivere due vite. Nessuna come vorrei. Ma almeno due”. Gira per la città a volte deserta a volte affollata, sentendosi privato della propria personalità e dei connotati fisici ora trasformati in una tragica maschera fittizia, diffusa ovunque. Il cimitero è l’habitat abituale del protagonista, a significare che la vita dei morti equivale o supera in autenticità quella dei vivi. Prova a recuperare il passato riesumando i corpi sepolti di madre padre e nonna, anch’essi incorniciati in un’inespressiva fotografia, e con loro si ritrova protagonista in un film pornografico e in diverse trasmissioni televisive. Come un becchino impazzito continua a disseppellire salme di parenti e sconosciuti, per poi interrarli di nuovo, sostituendo i ritratti sulle lapidi nel tentativo di ripristinare un ordine che lui stesso ha sconvolto. L’incubo da tragico si trasforma in comico, creando situazioni farsesche di agnizioni e sconfessioni continue, omicidi e resurrezioni, fughe e ricomposizioni. I defunti si aggirano come ectoplasmi, ombre di un Ade ciclicamente svuotato e ripopolato da proiezioni allucinate di anime inconsistenti. Antonio si innamora del cadavere di una donna, la sposa e la rende madre di un bambino nato morto. Poi ne sposa un’altra, da cui nascerà un esserino con l’unico carattere distintivo di una voce urlante. Infine appare luminosa tra le tombe Maria, “bimba riemersa…figlia del buio”, tenuta nascosta per preservarla dal male paterno e universale. È la sua bambina, ma è anche sua moglie, le loro foto si sovrappongono in un delirante incubo incestuoso. Infine, mentre la follia si impossessa della mente ferita del protagonista, il suo corpo si sgretola e si spande nell’universo.

Antonio Rezza, che da sempre si muove sui nostri palcoscenici in un teatro dell’assurdo e della crudeltà sulle tracce di Artaud, Ionesco, Genet, può ben affermare, in conclusione di questo volume spietato, geniale e disturbante nel suo ostentato narcisismo, che “la realtà senza recita è la più tragica recita della realtà”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 24 luglio 2023