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RECENSIONI

RAFAIANI

MARIACHIARA RAFAIANI, L’ULTIMO MONDO – TLON, ROMA 2025 

 Mariachiara Rafaiani (Recanati, 1994) firma, con il suo primo volume di versi edito da Tlon, un visionario racconto apocalittico, in cui la desolazione ambientale e umana assume i contorni di un lucidissimo e implacabile incubo. L’ultimo mondo è suddiviso in tre Scenari e un Polittico conclusivo, che in un crescendo di figurazioni allarmate e allarmanti, predicono un futuro di dissoluzione non solo per il genere umano, ma per l’intero universo.

Così si apre la prima pagina: “Lo immagino disgregato sulle spiagge / come lacci e lembi strappati / da qualcuno in corsa, lo immagino / così il mondo”. Un mondo, quindi (l’ultimo!) che da subito appare disgregato, lacerato, marcio, in un susseguirsi di attributi più che negativi, addirittura ossessivamente terrifici e agghiaccianti. Altrettanto spaventevoli sono le immagini a cui la poeta affida il suo grido di allarme, insieme scandalizzato e impaurito, rabbioso e amaro: bambini ammutoliti, imposte sbattute, intonaci scrostati, topi, gusci vuoti, scheletri, automobili e case abbandonate, precipizi, pianeti di ghiaccio e territori infiammati, silenzio siderale.

Nulla appare più rilevante o degno di interesse e curiosità, in quello che sopravvive intorno o nelle azioni che si intraprendono, quando la fine si rivela ormai prossima e inevitabile perché “Ce ne andremo in fila. / Ce ne andremo tutti”.  Non c’è futuro, non c’è possibilità di proiettarsi in un altrove o in un domani di sopravvivenza, solo uno “scoordinato orrore umano “. Allora “i figli è meglio non farli / o non farli crescere mai”. Quindi, nessuna antica preghiera può aiutare, nessun esorcismo o magia, e nemmeno servirà a qualcosa studiare lo spazio cosmico, i buchi neri, i viaggi interspaziali: “Sappiamo che le stelle si allontanano / non come chiedergli di restare”.

Oltre a Milano, attraversata su un tram giallo “resistito alle epoche” per chiedere conforto a uno psicanalista o per ficcarsi in una libreria a scorrere libri e giornali ormai inutili, tornano alla mente altri luoghi visitati in passato: “Una foto di una città / dove sono stata o dove / vorrei essere”. Parigi, Venezia, Napoli, Ortigia, Procida, i diciassette anni slabbrati nella luce di Londra, vengono rivissuti nel ricordo però ormai sfumato, nemmeno più consolatorio, se il sentimento prevalente è la noia (“Cosa abbiamo combinato / in questa crudele noia?”).

Il bilancio dell’esistenza personale è decisamente negativo, anche nei rari momenti di un abbandono sentimentale, quando lo stesso corpo – il proprio o quello dell’amato –, si rivela solo una “condizione quantistica”, e le storie d’amore si ripresentano tutte uguali: “Riprendiamo sempre la stessa storia / dall’inizio, dietro le vetrate di un appartamento, / in una camera d’hotel, / o seduti al ristorante”.

Lo stile denotativo, puntuale, secco e conciso di queste poesie, lontano da ricerche sperimentali sul linguaggio, privo di ironia e invece consapevolmente, programmaticamente monocorde, è concepito e strutturato sull’esigenza di una voce monologante, che non attende né pretende risposte, non presuppone la possibilità di incontri o scontri con una qualsiasi alterità. L’io della poeta che parla a se stessa si riconosce come unica sostanziale realtà: “È la tua luce, / meglio di qualsiasi cosa”, quando traccia la separazione tra il tempo breve della sua vita e il tempo del mondo.

Un mondo che va alla deriva, non più recuperabile, nemmeno nella bellezza dell’arte (le tele di Bellini, Carpaccio, Bosch…), nemmeno nella solida consistenza degli oggetti (“Il legno ruvido di un tavolo, / il piede levigato di una statua”). In questa plumbea visione di un universo distopico, potrebbe infine illuminarsi una tenue possibilità di resistenza, magari da parte dei più giovani, capaci ancora di coltivare qualche speranza: “Però con le braccia scoperte / aggrappiamoci a un autobus qualsiasi, / andiamo ovunque a patto che sia qui, / fra le cose degli uomini”. Perché gli altri, i potenti, i maggiori responsabili del disastro verso cui l’umanità si dirige, rimangono inerti, come tristemente constata l’ultimo verso della raccolta: “Senza sapere andarsene. / Senza sapere restare”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 26 gennaio 2025

 

 

 

RECENSIONI

RAFFO

SILVIO RAFFO, AL FANTASTICO ABISSO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Il secondo volume dell’elegante collana che le edizioni Nomos dedicano alla poesia contemporanea propone ai lettori i versi classici e raffinati di Silvio Raffo, stimato e versatile autore, traduttore e critico. Secondo la prefatrice, Marisa Ferrario Denna, «l’uso colto e sapiente della rima, la sonorità calda e precisa dell’endecasillabo e dei settenari» evidenziano una dotta e cosciente abilità di alternare con uno stile tradizionalmente erudito e alto «testi di grazia quasi infantile a testi più marcatamente filosofici». I motivi fondamentali della raccolta sono già tratteggiati nei titoli assegnati alle tre sezioni: La magica angustia, Fiaba dell’intertempo, Al fantastico abisso. Senz’altro, infatti, il tono favoloso e sospeso di alcune composizioni riesce a rendere la particolare levità di un mondo innocente e perduto (lasciando che nel secondo capitolo irrompa la magia della fiaba con i suoi attori più consumati: il principe, il drago, la fanciulla, il bosco, il castello, lo specchio, «i luminosi paggi»), ma sono soprattutto due i temi che si stagliano prepotentemente dalle pagine di questo libro: appunto l’angustia, l’abisso della solitudine e il corteggiamento assiduo e per nulla tragico della morte.

«Il destino che abbiamo condiviso / con i grandi poeti è di durare / nella coscienza della solitudine», «Da poche ore eravamo / al grigio paese arrivati, / la mia solitudine ed io», «Svanire io voglio / come la rugiada / … goccia di fiume che lento discende / al fantastico abisso che l’attende», «Son solo e come sempre sorridente / Non aspetto nessuno – al mio passato, / all’amore e alla morte indifferente», «Ce ne andremo da veri signori / senza strepiti o clamori»

Un’accettazione tranquilla e saggiamente conscia della propria finitudine, dunque, e un accordo placido e rasserenante con il fluire magico e sacro della natura («Avvolgimi di te, nulla infinito», «Ieri, un millennio fa, sostava il Tempo / a una fermata d’autobus con me», «Nel tuo grembo m’immergo / notte – o notte»), insieme alla consapevolezza fiera della propria e vivida unicità di persona e di poeta, in un dialogo inesausto con un “tu” che è sì ricerca dell’altro, ma anche una ribadita sottolineatura della propria irriducibile grandezza: «Sono la fiamma errante / che divaga del sogno alla deriva», «Tu guardalo con l’occhio della lince / il tuo dolore, guglia d’alabastro- / … ma con lo stesso sguardo ammira il volo / della tua gioia, alata Durlindana». Ecco: la gioia, l’inscalfibile pietra preziosa che ogni poeta, interprete di una scintilla di assoluto, porta in sé, e che in Silvio Raffo è orgogliosamente declamata : «V’è una sorta di ebbrezza / nel più acuto dolore-», «Era il mio personale paradiso. / E dovevo tenerlo chiuso in me, / senza svelare del mio rango il segno?», «Quella gioia suprema / d’essere sempre te stesso».
Queste poesie così parche di punteggiatura, quasi a voler esibire un’aperta continuità di pensiero e di collegamento al tutto, a cui un po’ nuocciono, anche graficamente (ed è forse l’unico appunto da rilevare a questa squisita raccolta) la definizione pleonastica e rapsodica di date e luoghi di composizione nell’ultima parte del libro, hanno sempre una loro leggiadra compiutezza, una loro generosa offerta di gratuita verità, che talvolta le apparenta al tono lieve di Sandro Penna, come in questi riuscitissimi versi: «Dei treni in partenza in arrivo / del tutto ignaro, sostavo / nell’atrio, semplicemente / solo, con il mio niente / Ma a un tratto all’edicola antico / un libro prezioso scoprivo / da tanto invano cercato / Lieto poi, col mio dono / al cuore in subbuglio serrato / la soglia fumosa varcavo».

 

«incroci on line», 21 marzo 2013

RECENSIONI

RAIMO

CHRISTIAN RAIMO, LE PERSONE, SOLTANTO LE PERSONE – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Christian Raimo, tra i più noti narratori quarantenni contemporanei, e coordinatore del blog Minima&Moralia, ci dà in questi nove racconti una prova della sua elegante capacità affabulatoria e versatilità tematica. Il protagonista delle sue narrazioni è sempre una sorta di alter ego, talvolta addirittura esplicitamente biografico, più spesso invece modulato sulla sua vicenda esistenziale, che resta comunque paradigmatica di tutta una generazione. Maschio ma non macho, intellettuale ma non inserito, adulto ma non maturo, perennemente precario dal punto di vista economico e sentimentale, oscillante tra convivenze pseudo-matrimoniali e ritorni fallimentari nella casa dei genitori. Come fa dire a uno dei suoi personaggi: «…sapevo appena badare a malapena ai miei bisogni. Ero in un periodo di desertificazione finanziaria e di quello che definirei etere progettuale».

Se viaggia, rimane ancorato alle rassicuranti nostalgie domestiche, e continua a sentirsi impermeabile a nuove esplorazioni ambientali, diffidente verso le altre culture. Se ama lo fa senza mai lasciarsi sconvolgere visceralmente dai sentimenti: tradisce ed è tradito, si dedica quasi meccanicamente a una sessualità compulsiva e ansiosa nei riguardi delle sue prestazioni. Nel lavoro preferisce qualsiasi tipo di indipendenza intellettuale rispetto a ogni gratificazione carrieristica. Gli affetti familiari e le amicizie ruotano sempre intorno ai suoi bisogni e alle sue opache fantasie di pura sopravvivenza quotidiana. Raimo insomma offre al lettore uno specchio sconsolato, ironico e autoironico di come i suoi irrealizzati coetanei affrontano l’esistenza, un po’ depressi e molto scazzati, con una prosa riecheggiante i più noti modelli statunitensi, anche se l’ambientazione nell’ intellettualità piccolo-borghese romana potrebbe ricordare l’amaro sarcasmo de Il male oscuro di Giuseppe Berto, se pure con meno mordente e con qualche morbosità in più.
Il più originale (e surreale, e paradossale) dei racconti è quello che reinventa un Calvino rivoluzionario, paranoico e fumato che si scontra con un Pasolini integratissimo boss editoriale: beffardo stravolgimento delle due più importanti figure intellettuali del nostro dopoguerra.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Le-persone-soltanto-le-persone.html    12 novembre 2015

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RAIMONDI

EZIO RAIMONDI, LE VOCI DEI LIBRI – IL MULINO, BOLOGNA 2012

«Non sono mai stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l’ossessione dell’ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee», afferma nell’ultimo capitolo di questo interessante volume il Professor Ezio Raimondi, insigne critico e storico della letteratura. «Nel caos vivente della biblioteca» i suoi volumi sono affastellati in maniera disordinata e quasi misteriosa, a farne «luogo della stabilità e della metamorfosi, della protezione e del rischio»: ne sono testimonianza le fotografie che corredano queste pagine, e ne immortalano l’autore sommerso da migliaia di libri. Libri viventi, pulsanti, con una loro voce inconfondibile, che da sempre ha forgiato e ammaliato l’intelligenza inquieta, curiosa e appassionata dello studioso. Nato nel 1924 in una casa «dove non c’erano libri» e si parlava il dialetto, figlio di un calzolaio e di una donna di servizio, proprio dall’umiltà rispettosa della cultura della madre il bambino Ezio apprese la funzione «liberatrice, democratica della lettura». In questi otto capitoli viene raccontata tutta un’esistenza dedicata ai libri: dalle prime bibliotechine di classe delle elementari, alle lezioni studiate sul tavolo della cucina, «fra il piacere della scoperta intellettuale e l’odore di soffritto», agli incontri fondamentali segnati sempre dall’intreccio tra cultura e vita. Quindi l’amicizia con straordinarie personalità bolognesi degli anni bellici e del dopoguerra (Franco Serra e Giuseppe Guglielmi), le loro discussioni interminabili e i reciproci arricchimenti disciplinari, le lezioni di Roberto Longhi all’università: in un clima storico senz’altro stimolante, pur nelle difficoltà provocate dalla miseria economica e dai contrasti politici e ideologici dell’epoca. Ma soprattutto furono le letture esaltanti e sprovincializzanti dei grandi intellettuali stranieri (Heidegger, Marc Bloch, Curtius, Huizinga, Lucien Febvre) che venivano a innestarsi sulle fondamenta radicate nello studio di De Sanctis, Flora e Devoto, ad aprire nuovi orizzonti nella mente e nel cuore del giovane studioso. E in queste pagine si rincorrono i nomi di tanti altri autori che hanno segnato la crescita intellettuale di Raimondi, da Pasolini a Gadda, da Broch a Céline a Queneau, all’amato Bachtin. Come suggerisce nella sua attenta e affettuosa postfazione Paolo Ferratini, «l’ascolto delle voci degli scrittori è stata (ed è) un lungo esercizio di attenzione all’altro, … un percorso autoformativo durante il quale filologia e affetti, folgorazioni dell’intelligenza e moti del cuore hanno sempre congiurato all’edificazione del proprio profilo morale». Un grande studioso e un appassionato insegnante, quindi, Ezio Raimondi, che ha saputo ascoltare le voci dei libri rendendosene innamorato interprete, «in una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza».

 

«incroci on line», 9 maggio 2013

RECENSIONI

RAIMONDI

STEFANO RAIMONDI, PORTATORI DI SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Chi sono, per il poeta e critico letterario milanese Stefano Raimondi (tra i fondatori dell’ Accademia del Silenzio), i «Portatori di silenzio»? I poeti, i filosofi, gli artisti, gli emotivi, gli scalfibili, gli ultimi, i vinti, i malati? Coloro che non fanno chiasso, che non si impongono, che non urtano imperiosamente gli spazi altrui: forse… Certamente, chi sa «concentrarsi maggiormente sull’eleganza e la grazia del proprio portarsi nella vita e nel proprio irrefutabile passare nel mondo della vita». Chi è «in grado di abitare per silenzio il mondo ammutolito e afasico dei rumori, della celaniana ‘chiacchiera comune’ che violenta, stupra e offende chiunque, mediante i suoi carichi di disattenzione, indifferenza coatta e berciante».

Nei tre brevi interventi che compongono questo libriccino, sospesi tra meditazione filosofica e poesia, prosa lirica e illuminazione, Raimondi affronta teoricamente senso e significato del silenzio, inteso come «luogo di rivelazione», forma concreta di attesa, attenzione, possibilità epifanica.

«Al silenzio si arriva per atteggiamento e propensione dunque! Si giunge concedendogli spazio e dignità: afferrandolo quasi per commozione!» Modo di essere, modo di porsi tra gli altri e per gli altri: «è la postura di un pensiero, è la deambulazione di un’insistenza incastonata nel proprio stile di vita… da qui, da questo punto di coincidenza di sé con sé, si riparte per iniziare altro, per diventare Altri». E forse silenzio per eccellenza è quello offerto dalla parola poetica, a cui «non si addice lo spreco e neppure la superficialità dell’uso»: il bianco «dicente» e silente dei versi appuntiti e contratti di Celan, di Ungaretti: «bianco… assoluto, rarefatto. Quel bianco della decifrazione, dell’ermeticità, del fraintendimento». Nel suo ultimo saggio, Raimondi suggerisce poeticamente di imparare il silenzio, coltivandolo «come si coltiva un orto», disponendosi ad ascoltarlo, finché diventi «orizzonte, realtà, deserto, oceano, isola, meta».

 

«Accademia del silenzio», 22 novembre 2013

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RAIMONDI

STEFANO RAIMONDI, IL CANE DI GIACOMETTI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2017

«L’oscillazione tra solitudine, miseria e armonia, tra luce, stella, tremore e senso d’abbandono, è forse davvero la cifra del nuovo libro di Stefano Raimondi… Esplorare l’abbandono, il senso d’abbandono, dentro le parole e dentro l’orizzonte urbano… ricercarne le costellazioni di immagini, le risonanze interiori, la voragine di un tombino che si spalanca e il viaggio che tuttavia si apre, in una luce incerta: ecco l’orizzonte di quest’opera…».

Così Fabio Pusterla nel risvolto di copertina del volume di versi Il cane di Giacometti del poeta Stefano Raimondi (Milano, 1964), che individua con precisione il leitmotiv che attraversa queste pagine, il senso acuto di impotenza e incomunicabilità, nostalgia e rimpianto, isolamento e timore. Facilmente rilevabili già da una prima, superficiale lettura, in cui riscontriamo da subito il reiterarsi di una stessa preposizione (“senza”, ripetuto una decina di volte), degli stessi verbi (tremare, finire, sparire), di aggettivi che paiono rincorrersi (spezzato, schiacciato, inutile, vuoto). Anche i nomi, sia quelli astratti (buio, paura, silenzio, abisso), sia quelli concreti (stortura, taglio, crepa) sottolineano continuamente l’idea di una ferita immedicabile, di un distacco doloroso, di un addio definitivo. E se nella descrizione degli interni (cucine e camere disadorne, fredde) si citano finestre, vetri, porte, le vediamo serrate od opache, mai in grado di segnalare un passaggio, un’apertura; mentre l’immagine che più caratterizza l’arredo urbano è quella del tombino, che grigio e gelido ha il compito di coprire i rifiuti della città.

«Devastati dalla fedeltà prendiamoci / carezze, spasimi, boccate, brani di fiato / ognuno dalla sua parte, disossata e accesa. / Sentire il peso dell’aria, l’abisso / dei tombini, stare nella cerchia buona / dell’ultima parola, tra una città / che cade tra sé e sé».

Una Milano disumana, quella raccontata da Stefano Raimondi, sfregiata da «scavi aperti», in cui la «vita rasoterra» si trascina per inerzia, tra muri sordi, cantine, ringhiere, parchi desolati, passanti «dormienti»: una metropoli malata, che non offre scampo o ancore di salvezza. «Ci si guarisce così nelle città: / aspettando».

In questo libro di prose che sembrano poesie, e di poesie cadenzate narrativamente, il cane solitario di una scultura che Alberto Giacometti descriveva all’amico Jean Genet è puro pretesto allusivo per Stefano Raimondi, essendo tutto interiore il cane che a lui rode il cuore e accerchia i pensieri: scodinzola, ringhia, minaccia, tiene a bada, morde, annusa, insegue. Impietoso come ogni solitudine dopo ogni abbandono.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Il-cane-di-Giacometti-Raimondi.html      9 settembre 2017

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RAMAT

SILVIO RAMAT, UNA FONTE – CROCETTI, MILANO 1988

Queste cinquanta poesie di Una fonte, pubblicate nel 1988, sono state scritte da Silvio Ramat nell’arco di sei mesi, dal gennaio al luglio dell’81. Solo due di queste liriche sono state composte nello stesso giorno (il I aprile), molte invece in giornate contigue: infatti l’autore chiarisce, nella postfazione, di aver creduto “nel valore traente, nell’energia aggregante e autogenerativa che ha l’idea forma del poema”.

L’essere stati prodotti in un periodo di tempo circoscritto, e il fare parte di un unico flusso poetico, fa s^ che questi versi abbiano tutti uno sfondo ambientale comune: un’unica stagione dominante (l’inverno), un’ora prediletta (l’alba che sfora nel mattino), un colore ricorrente (il grigio, nelle sue varie sfumature dal bianco al nero), un paesaggio urbano e nordico, con o senza fiume (“Il fiume che manca a questa città / duole di mattina come il frammento / dell’arto reciso”).

Scritte quasi in stato di trance, o comunque “imposte” da un’inconscia pressione coercitiva (“Dettando / a me stesso invasato invischiato / in una dettatura d’abisso o / alla mia altezza”, “Questi versi paiono tradotti da altro / e magari lo sono, il testo-base / è in una lingua sospesa, la parlavano / qualcuno la parla tuttora in qualche terra sospesa”), le poesie alludono cripticamente a un messaggio di salvezza, o forse indicano con foga millenarista nella loro stessa possibilità d’espressione l’unica alternativa alla condanna del silenzio.

Il poeta è di nuovo vate, profeta, vox clamans: a lui è demandata la comprensione ultima del significato reale dell’esistenza e la rivelazione finale della sua verità agli altri. Ne è un chiaro esempio la poesia XXXIII (un’allusione agli anni di Cristo?): “Ma – fuori tema, fuori poema oggi / tocca al poeta, a chiunque s’accerti / nei suoi panni sensitivi segnato / consegnato alla febbre intempestiva – // misurare in minuti / dove i più leggono anni lo scempio / lo sbriciolarsi dell’ostia”. Il poeta è “tardivo come ogni divinante”, “demonico”, “erede / sensitivo non del fuoco, del fumo”. E ancora in XXII: “I poeti dicono la verità. / Una parte di essa duole in altri / ed è quella che dura”.

Il libro, secondo l’autore, “stringe l’essenziale dei suoi nuclei nella stessa parola-titolo”. Una fonte è infatti parole-chiave nel volume: fonte come origine, sorgente lustrale, ma anche come eredità culturale, o sollievo nel cammino, oasi nel deserto: in quest’ultimo caso collegata all’idea di palma (“Un’isola di capogiro / … una palma, una fonte”, “la fonte occulta / verso il cuore occulto della palma?”). L’albero (più spesso, appunto, individuato come palma, segno di pace, di festa, ma anche segno inquieto, interrogativo) è un altro simbolo ricorrente, come la briciola, l’animula, il sole, la caverna. In un crescendo di spessore culturale, di tradizione filosofica a sottolineare quanto più la poesia diventi messaggio, idea.

Molteplici nodi concettuali e morali vengono toccati: la partecipazione politica (“Sali – mi cercano – alla nostra corte. / Siamo dalla parte della storia ‒. / Mi danno in mano la carta più facile / per il labirinto, nessun’ombra da scansare”), la polemica letteraria (“Adesso incontrerò / qualche Innamorato della Parola, / qualche Parola che per Amore si fa / Società di Poesia”), l’esserci nella storia (“Persi, persi di vista, / slittati in punta d’ali giù dai margini / bassi del quadro, i committenti umiliati – // … chi sta in campo nessuno lo cancella”), il rifiuto dei maîtres à penser, gli “immortali” delle ultime pagine. Qui la vis polemica rasenta lo sdegno, la poesia si fa civile riuscendo a elevarsi in versi molto intensi: “Gli immortali tramontano. / Qualcuno aveva mentito, / se non loro gli agiografi, i servi”, “Il tacere, il tacere oltre il tempo / non meno che nel tempo, questa dote / inflessibile hanno gl’immortali / in vincoli. Non potrò amarli mai, / neanche se le apparenze mi trasportano / con loro, in una stessa caverna”, Il teatrino / dei dotti – pentole con strani coperchi / nel cui brodo non voglio mescolarmi – / sto fuori scena, un’altra la mia scena”.

Il rifiuto dell’apparenza, che talvolta ricalca moduli espressivi montaliani, assume qua e là echi evangelici, lascia affiorare ricordi di versetti di Marco (XLVI) e Matteo (XXXIII), parabole rovesciate (XVI), termini di indubbia risonanza (vigna, samaritana, Damasco), nell’ipotesi di un nuovo Getsemani, ma senza salvezza, senza riscatto finale (“Che cosa è in ritardo, / quanto di previsto non sta accadendoci?”)

Un libro non facile, questo di Silvio Ramat, carico di suggestioni, denso di chiavi di lettura diverse, “Un libro da avverare in mille rami”, e che merita tutto il tempo che il lettore gli deve dedicare per penetrarlo almeno in alcuni dei suoi sensi.

 

© Riproduzione riservata              10 aprile 2020

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RAMEY MOLLENKOTT

VIRGINIA RAMEY MOLLENKOTT, DIO FEMMINILE – MESSAGGERO, PADOVA 1995

L’autrice è una teologa protestante americana molto nota per la sua competenza di biblista e per il suo impegnato femminismo. In questo libro, partendo dalla tesi, tanto dibattuta quanto ormai scontata, che l’origine del sessismo e della dominazione maschile si possano situare nel linguaggio, prodotto da un inconscio marchiato dalla cultura patriarcale, propone con forte vis polemica un’operazione difficile e senz’altro anticonformista, quale quella di «cambiare il linguaggio liturgico», adattando alle nostre espressioni religiose tradizionali il «linguaggio inclusivo».
Così viene definito in area anglosassone quel modo di esprimersi che non fa riferimento a un sesso specifico, o li include entrambi, con lo scopo di poter parlare di un ente supremo che trascenda da caratteristiche sessuali peculiari: non più God=Dio (termine che rimanda in modo marcato a un immaginario maschile), ma preferibilmente Divinità, Deità, Essere, Uno. O, ancora, l’uso di pronomi neutri (quali l’inglese “it”) e di particolari circonlocuzioni onde evitare la meccanica associazione a caratteri virili della divinità.
Virginia Mollenkott distrugge stereotipi per proporre una divinità tenera, materna, che dà vita e nutre; perché davvero Bibbia e Vangelo presentano frequentemente immagini femminili applicate a Dio: dio padre e madre, dio partoriente, dio che allatta e levatrice, dio donna di casa e dio simile a tanti animali al femminile (aquila, chioccia, orsa, pellicano femmina), dalla Genesi all’Apocalisse, passando soprattutto attraverso i profeti, ma non trascurando i Vangeli.
Molto toccanti sono le pagine sul pellicano femmina, che restituisce alla vita i piccoli trucidati dal padre spargendo su di loro il suo sangue, e assurgendo così a simbolo (fin dai bestiari medievali) del sacrificio di Cristo. Altrettanto coinvolgente risulta il capitolo sulla creazione della donna, definita in ebraico “Ezer”, aiuto, sostegno per l’uomo. Tale termine viene attribuito solo a due entità: a Dio e a Eva, entrambi chiamati a un servizio che deve essere reciproco tra uomo e donna, tra Creatore e creature.
Scrive la Mollenkott : «Sì, io credo che anche Dio debba servire gli uomini. La nomina di Adamo ed Eva da parte di Dio fu sicuramente un atto di sottomissione di Dio, un atto con cui Dio volutamente faceva un passo indietro e tracciava dei limiti al suo io, per divenire dipendente dalle sue creature».

E ancora Dio-aquila, che insegna agli aquilotti a volare e a essere autosufficienti, è un dio che sta cercando di creare esseri uguali, capaci di non sfruttarsi unilateralmente, ma semmai di scoprire una nuova vicendevole solidarietà. Le immagini bibliche di Dio l femminile costituiscono, secondo l’autrice, una specie di «resoconto minore», a fianco dell’immaginario maschile (spesso addirittura bellicoso, violento) predominante: eppure ad esse dovremo saper ricorrere se vogliamo favorire la crescita di una coscienza religiosa che sia fondata sull’uguaglianza e la reciprocità dei sessi.
In un breve excursus storico all’inizio del volume, La Mollenkott suggerisce l’ipotesi che le chiese occidentali (frequentate ormai quasi esclusivamente da fedeli donne) siano così disertate dagli uomini perché essi sarebbero «inconsciamente respinti dall’idea di essere chiamati a un’intimità con un Dio esclusivamente maschile». Ostacolo che nei secoli è stato superato dal clero maschile con un escamotage non solo linguistico: la Chiesa è diventata madre, l’anima del sacerdote sposa di Cristo.
Culturalmente, quindi, alle soglie del duemila, si impone di imparare a parlare di Dio in termini inclusivi sia per il maschile sia per il femminile: l’Essere perfetta/o nell’unità, della cui natura divina ogni creatura è chiamata a partecipare.

 

«Leggere Donna» n.57, luglio 1995

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RAPINO

REMO RAPINO, SULLE SIGNIFICANZE DELLE PERIFERIE – BORDEAUX, ROMA 2020

Remo Rapino (1951), vincitore dell’ultimo Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, in un breve pamphlet recentemente pubblicato da Bordeaux, Sulle significanze delle periferie, recupera il protagonista del suo romanzo per offrire ai lettori una stimolante riflessione sull’importanza della letteratura e del linguaggio come pratica di intervento sociale.

Nel romanzo di Rapino, Liborio Bonfiglio esprime la lotta per la sopravvivenza combattuta da un emarginato, che per tutta la sua “svalvolata” esistenza paga, tra lutti familiari, carcere, manicomio, la condanna alla marginalità e all’ininfluenza in un contesto culturale discriminante. Liborio assume su di sé il ruolo di figura simbolica dei senza storia, “barboni, contestatori, vagabondi, menti incomprese… idioti esemplari…filosofi del quotidiano”: a questi personaggi Remo Rapino demanda l’unica possibilità di ribellione “a un mondo soffocato sempre più dal crisma della normalità”, resistendo ai processi livellanti di assimilazione culturale.

I rifiutati, gli esclusi indicano “nicchie di salvezza, atti di libertà” che trovano il loro regno nella periferia, nella strada, nella piazza. Chi abita la piazza? “Vagabondi, prostitute, ladri, quanti vivono di espedienti, abitatori di margini al contempo fisici, sociali e mentali, non inquadrabili in alcuna classe…Figure che, se ben fotografate, danno alla letteratura la capacità di affrescare un’immagine complessa e stratificata del Paese reale”.

In che modo comunica il suo rifiuto Liborio, e con lui tutti “gli ultimi” nella scala sociale? Attraverso un linguaggio spontaneo (gergale, meticciato, sdrucito, stralunato, deformante), che lo scrittore utilizza osservando di sguincio nelle crepe di una realtà rimossa, imbavagliata, e documentandolo sulla pagina.  Ecco che allora “la parola letteraria – …che non assolve mai, e solo, la funzione di un meccanico rispecchiamento della realtà – …può porsi come strumento di conoscenza e di trasformazione del mondo”. Con la volontà di recuperare i valori di fratellanza, solidarietà, accettazione dell’altro, contestando il mito imperante del successo, del narcisismo, dell’obbedienza servile. Gli eroi letterari indicati da Rapino sono dunque i non allineati, gli idioti inutilizzabili: il Principe Myškin di Dostoevskij, Don Chisciotte, Bouvard e Pecuchet, Mattio Lovat di Sebastiano Vassalli, Lennie Small di Uomini e topi, Frank Drummer di Edgar Lee Masters, Macario di Juan Rulfo, Gimpel l’idiota di Isaac I. Singer. Tutta una galleria di eroi bizzarri, sognatori, solitari, incompresi, voci sommesse di un’antologia dell’invisibile che, frantumando rigidi schemi mentali, instillano dubbi nelle nostre presunte verità e rassicuranti certezze.

Questo testo di Remo Rapino deriva dalla registrazione di una lezione tenuta lo scorso ottobre per il #RIF Museo delle Periferie, progetto di Roma Capitale inteso ad approfondire la conoscenza delle metropoli del terzo millennio, contribuendo a realizzare, tramite pratiche artistiche e relazionali, una città più equa, partecipata, inclusiva.

© Riproduzione riservata            8 gennaio 2021

https://www.sololibri.net/Sulle-significanze-delle-periferie-Rapino.html

 

RECENSIONI

RASY

ELISABETTA RASY, FIGURE DELLA MALINCONIA– SKIRA, MILANO 2012

Le otto riflessioni che Elisabetta Rasy raccoglie in questo volume sono state pubblicate su Il Foglio  tra il 2010 e il 2011, in occasione di importanti mostre di pittura avvenute in diverse città italiane ed europee. Partendo da considerazioni estetiche (la natura della luce, l’importanza del paesaggio, lo scorrere inesorabile del tempo nelle espressioni dei volti, il rilievo politico della ritrattistica… E ancora: la malinconia, l’abbandono, l’ordine e il disordine…), l’autrice compie degli excursus culturali che abbracciano sapientemente letteratura e filosofia, storia e psicanalisi, in una scrittura insieme lieve e profonda, elegante e allusiva. Così le considerazioni sull’uso della luce in Turner e Goya trovano un loro puntuale contrappunto in rimandi e citazioni che spaziano da Rousseau a Poe, da Bachelard a Adorno, senza che la pagina risulti appesantita da un eccesso di esibizionismo nozionistico. Il paesaggio di Cima da Conegliano, quasi attonito e invariato («ogni cosa, se pure è soggetta al tempo, ha diritto alla sua intemporalità, ogni cosa vuole essere se stessa nel tempo immobile e interminabile della creazione»), viene commentato da passaggi tratti da Goethe e Zola, e attraverso i severi richiami critici di Cesare Brandi. La vecchia  di Giorgione offre lo spunto per una meditazione sulla vanitas come caducità e morte; i ritratti risorgimentali di Garibaldi suggeriscono riflessioni sullo sguardo e la tristezza. Ma è soprattutto nel capitolo dedicato ai gatti che l’ intelligente acutezza di Elisabetta Rasy manifesta una particolare seduzione: partendo da un ricordo infantile (i felini domestici della bisnonna, e il “pappone” di pesce che si preparava per loro quotidianamente), la scrittrice passa a illustrare il chiostro di Santa Chiara a Napoli, con i suoi colori lussureggianti e le scene profane animate dai personaggi più vari e, appunto, da gatti; per poi commentare l’annunciazione di Lorenzo Lotto e finire con la drammatica descrizione delle stragi di animali nella Mosca stalinista raccontata da Šalomov.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

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