SILVIO RAMAT, UNA FONTE – CROCETTI, MILANO 1988

Queste cinquanta poesie di Una fonte, pubblicate nel 1988, sono state scritte da Silvio Ramat nell’arco di sei mesi, dal gennaio al luglio dell’81. Solo due di queste liriche sono state composte nello stesso giorno (il I aprile), molte invece in giornate contigue: infatti l’autore chiarisce, nella postfazione, di aver creduto “nel valore traente, nell’energia aggregante e autogenerativa che ha l’idea forma del poema”.

L’essere stati prodotti in un periodo di tempo circoscritto, e il fare parte di un unico flusso poetico, fa s^ che questi versi abbiano tutti uno sfondo ambientale comune: un’unica stagione dominante (l’inverno), un’ora prediletta (l’alba che sfora nel mattino), un colore ricorrente (il grigio, nelle sue varie sfumature dal bianco al nero), un paesaggio urbano e nordico, con o senza fiume (“Il fiume che manca a questa città / duole di mattina come il frammento / dell’arto reciso”).

Scritte quasi in stato di trance, o comunque “imposte” da un’inconscia pressione coercitiva (“Dettando / a me stesso invasato invischiato / in una dettatura d’abisso o / alla mia altezza”, “Questi versi paiono tradotti da altro / e magari lo sono, il testo-base / è in una lingua sospesa, la parlavano / qualcuno la parla tuttora in qualche terra sospesa”), le poesie alludono cripticamente a un messaggio di salvezza, o forse indicano con foga millenarista nella loro stessa possibilità d’espressione l’unica alternativa alla condanna del silenzio.

Il poeta è di nuovo vate, profeta, vox clamans: a lui è demandata la comprensione ultima del significato reale dell’esistenza e la rivelazione finale della sua verità agli altri. Ne è un chiaro esempio la poesia XXXIII (un’allusione agli anni di Cristo?): “Ma – fuori tema, fuori poema oggi / tocca al poeta, a chiunque s’accerti / nei suoi panni sensitivi segnato / consegnato alla febbre intempestiva – // misurare in minuti / dove i più leggono anni lo scempio / lo sbriciolarsi dell’ostia”. Il poeta è “tardivo come ogni divinante”, “demonico”, “erede / sensitivo non del fuoco, del fumo”. E ancora in XXII: “I poeti dicono la verità. / Una parte di essa duole in altri / ed è quella che dura”.

Il libro, secondo l’autore, “stringe l’essenziale dei suoi nuclei nella stessa parola-titolo”. Una fonte è infatti parole-chiave nel volume: fonte come origine, sorgente lustrale, ma anche come eredità culturale, o sollievo nel cammino, oasi nel deserto: in quest’ultimo caso collegata all’idea di palma (“Un’isola di capogiro / … una palma, una fonte”, “la fonte occulta / verso il cuore occulto della palma?”). L’albero (più spesso, appunto, individuato come palma, segno di pace, di festa, ma anche segno inquieto, interrogativo) è un altro simbolo ricorrente, come la briciola, l’animula, il sole, la caverna. In un crescendo di spessore culturale, di tradizione filosofica a sottolineare quanto più la poesia diventi messaggio, idea.

Molteplici nodi concettuali e morali vengono toccati: la partecipazione politica (“Sali – mi cercano – alla nostra corte. / Siamo dalla parte della storia ‒. / Mi danno in mano la carta più facile / per il labirinto, nessun’ombra da scansare”), la polemica letteraria (“Adesso incontrerò / qualche Innamorato della Parola, / qualche Parola che per Amore si fa / Società di Poesia”), l’esserci nella storia (“Persi, persi di vista, / slittati in punta d’ali giù dai margini / bassi del quadro, i committenti umiliati – // … chi sta in campo nessuno lo cancella”), il rifiuto dei maîtres à penser, gli “immortali” delle ultime pagine. Qui la vis polemica rasenta lo sdegno, la poesia si fa civile riuscendo a elevarsi in versi molto intensi: “Gli immortali tramontano. / Qualcuno aveva mentito, / se non loro gli agiografi, i servi”, “Il tacere, il tacere oltre il tempo / non meno che nel tempo, questa dote / inflessibile hanno gl’immortali / in vincoli. Non potrò amarli mai, / neanche se le apparenze mi trasportano / con loro, in una stessa caverna”, Il teatrino / dei dotti – pentole con strani coperchi / nel cui brodo non voglio mescolarmi – / sto fuori scena, un’altra la mia scena”.

Il rifiuto dell’apparenza, che talvolta ricalca moduli espressivi montaliani, assume qua e là echi evangelici, lascia affiorare ricordi di versetti di Marco (XLVI) e Matteo (XXXIII), parabole rovesciate (XVI), termini di indubbia risonanza (vigna, samaritana, Damasco), nell’ipotesi di un nuovo Getsemani, ma senza salvezza, senza riscatto finale (“Che cosa è in ritardo, / quanto di previsto non sta accadendoci?”)

Un libro non facile, questo di Silvio Ramat, carico di suggestioni, denso di chiavi di lettura diverse, “Un libro da avverare in mille rami”, e che merita tutto il tempo che il lettore gli deve dedicare per penetrarlo almeno in alcuni dei suoi sensi.

 

© Riproduzione riservata              10 aprile 2020

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