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RECENSIONI

SCARPA

TIZIANO SCARPA, CORPO – EINAUDI, TORINO 2011

Il corpo maschile, maturo, un po’ sovrappeso, di Tiziano Scarpa ci viene raccontato dal suo inquilino, o proprietario, in 50 capitoletti di diversa lunghezza e consistenza, ciascuno dei quali si suddivide in paragrafi asciutti e assertivi, più sarcastici che ironici, più amari che consolatori. E’ un corpo ispezionato e osservato con una lente d’ingrandimento severa e asettica, senza nessuna complicità, allusività o clemenza. Anche nei suoi elementi interni, invisibili: nervi, tendini, vene, ossa, cuore. Un corpo sezionato senza amore e compassione, quasi con ostilità e un gusto sadico per i particolari più crudi e rivoltanti.

Di lui si osservano le reazioni vitali e animalesche (dal sudore alle erezioni, dall’eccitazione nervosa alla voracità alimentare), come anche il decadimento fisico e l’invecchiamento (la caduta dei capelli, l’attrito delle giunture); su di lui si fanno fantasie morbose o allucinatorie, associazioni deliranti o ossessive. A volte queste considerazioni dell’autore assumono la secca brevità delle greguerias (“I miei nervi sono i fulmini del mio corpo”; “le mie palpebre sono due ghigliottine che tagliano la testa alla luce”). Altre volte hanno la sentenziosità proverbiale degli aforismi (“L’amore è una vendetta reciproca che gli uomini e le donne si fanno l’un l’altra per lo smacco di non essere androgini; “Nella stretta di mano si fa conoscenza con la parte del corpo altrui che più d’ogni altra è al corrente delle sue nefandezze”). Capita anche che Scarpa si lasci andare a qualche ovvietà (“L’odore è l’anima delle cose”; “I miei nervi sono i fili che tirano il burattino”), ma più spesso ammiriamo l’acutezza e l’icasticità delle sue affermazioni (“I miei gomiti sono una tappa delle mie braccia”). Della lotta perpetua e beffarda con l’altro sesso, che si proietta sia in un futuro apocalittico sia nella preistoria, quello che rimane alla fine è lo stupore attonito per le molteplici forme di cui si può rivestire la materia corporea, e il suo tragico destino di disfacimento.

IBS, 29 maggio 2011

RECENSIONI

SCARPA

TIZIANO SCARPA, L’ULTIMA CASA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

Il testo teatrale che Tiziano Scarpa ha offerto alla rappresentazione scenica della Compagnia Pantakin è decisamente provocatorio e dissacrante. Si apre con uno stupro consumato in un cimitero in costruzione, e continua con il coprotagonista impegnato a defecare sul cadavere dello stupratore. I personaggi dela dramma-farsa sono cinque, ma si scambiano i ruoli, si fingono altro da quello che in realtà sono, in una commedia degli equivoci e dei travestimenti, di improvvise agnizioni ch ci riportano al teatro cinquecentesco e alle burle della commedia dell’Arte. Quindi abbiamo due muratori addetti all’ampliamento del camposanto (uno italiano, che in realtà è l’architetto progettatore, e uno nordafricano, che in realtà è un giornalista), i quali dormono nei loculi; una ragazza stuprata che diventa assassina vendicatice del suo stupratore, ma insieme incarna tutti i ruoli femminili del testo; un vecchio e famoso architetto, padre-rivale del protagonista, che si finge paralizzato per farsi accudire dalla badante russa; una inconsolabile vedova che porta al marito morto omaggi floreali composti con petali delle sue mutande sporche, e con i suoi peli pubici. Infine due zombie immateriali che escono dalle tombe verseggiando in rima… In realtà questo caleidoscopico accavallarsi di situazioni e personaggi improbabili e tragicomici sono solo l’incarnazione del teatro che fa il verso a se stesso, con l’intenzione di scuotere l’indifferenza e il perbenismo del pubblico, pronto ad applaudire qualsiasi volgarità e stupidaggine, ma chiuso e diffidente verso tutti i diversi nella realtà: “Puoi anche metterti a cagare in scena, ma un applauso te lo fanno lo stesso… Gli stranieri, le badanti, i lavoratori clandestini. Non gli rivolgono neanche la parola. Finchè si tratta di venire a vederli messi in scena, tutto bene. Ma se li incontrano per strada.. alla larga!”. Insulti al pubblico di Peter Handke datava 1966: è rimasta qualche eco nel teatro di Scarpa?

IBS, 11 giugno 2011

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SCARPA

TIZIANO SCARPA, UNA LIBELLULA DI CITTÀ E ALTRE STORIE IN RIMA – MINIMUM FAX, ROMA 2018

Un po’ di Gianni Rodari, un po’ di Toti Scialoja, e molto del tono sfrontato e sbeffeggiante a cui ci ha abituato Tiziano Scarpa, alleggerito qui da una nota di scontrosa e quasi imbarazzata leggerezza. Sono trenta raccontini in rima baciata, lunghe filastrocche che lasciano spesso zoppicare la metrica, come accade talvolta nelle canzoni dei bambini, quando le idee si rincorrono in fretta. Dello spirito infantile mantengono anche il divertissement della parola sporca, dell’immagine scurrile ma non troppo: una specie di volgarità alata, di impudicizia da Zecchino d’oro.

Protagonisti di queste storie rimate sono persone, piante, cose e animali che si ribellano al destino loro assegnato, tentando di sfuggire al cliché che li inchioda a un ruolo definito da altri (un dio crudele? la società? la natura matrigna?), inventandosi scappatoie improbabili, insurrezioni eclatanti, disubbidienze quasi sempre destinate al fallimento. Incappano così in avventure comiche o tragiche, ma comunque rivelatrici di un insopprimibile bisogno di libertà, di opposizione al reale. La rassegna si apre con una libellula che, consapevole della propria caduca e labile esistenza, cerca di sfruttare le sue ultime ore di vita (“Vola più in alto, vola più in là, / per assaggiare un po’ di realtà”), e poco prima di essere fagocitata nel buio della notte eterna viene illuminata dalla luce splendente di una lucciola. Il tono idilliaco è però subito mortificato dalla seconda composizione, in cui un omaccione di Treviglio, fognaiolo puzzolente, non riesce a soddisfare il suo desiderio di paternità perché rifiutato dalle donne, e alla fine per un miracolo inspiegabile partorisce maschilmente un coyote più sudicio di lui, che per troppa affettuosa riconoscenza lo divora. Ci sono poi una giocoliera sadica, un elefante che si mette a dieta per amore, un regista di horror che si tramuta in zombie, un misantropo che “considerando ognuno un somaro, / se ne andò a vivere in cima a un faro”, una voragine che “mangia e beve di tutto. La terra inghiotte, e dopo fa un rutto”. C’è uno scrittore “che sta a San Polo, / le sue parole le prende a nolo”, e “un cavallo a Borgosatollo / che lacrimava a rotta di collo”.

Nell’elencare precisi luoghi di provenienza geografica (Tolmezzo, Buffalora, Ventotene, Pordenone, Cinecittà, Murano, Saturnia…), Tiziano Scarpa conferma il suo debito a “I bravi signori” di Rodari e ai limerick di Edward Lear, e insieme suggerisce che questi pupazzetti disossati e inconcludenti siamo tutti noi, sparsi qua e là per il mondo, chiusi nel nostro bozzolo e vanamente speranzosi di chissà quale liberatorio ed eroico riscatto: “Fai da te. Monta e smonta. Taglia e cuci. / Quegli attori, purtroppo, siamo noi”. Pittrici, scultori, artigiani, terroristi, architetti, musicisti: stigmatizzati nel nostro narcisismo, nella vile ignavia che non ci fa partecipare alle gioie, alle fatiche e alle sofferenze altrui. I peccati di superbia, isolamento, egoismo vengono quindi puniti con un penoso contrappasso, commentato da sentenze moraleggianti sparse qua e là: “Sono i pezzi di noi, che rifiutiamo / per diventare quello che non siamo. // Sono i pezzi di noi, che abbandoniamo sentendoci sbagliati, e ci perdiamo”.

 

© Riproduzione riservata                  «Poesia» n.342, novembre 2018

 

 

 

 

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SCARUFFI

SILVANO SCARUFFI, ROMANZO DI CRINALE – NEO, CASTEL DI SANGRO 2024, p. 160

Romanzo di crinale è l’ultima originale opera di uno scrittore altrettanto originale, Silvano Scaruffi, che vive a Ligonchio (RE) lavorando come guardiadiga, e ha pubblicato una quindicina di romanzi,

moltissimi racconti e pièce teatrali. Teatrale è in qualche modo anche l’impianto di questo testo, basato su un fitto intreccio di dialoghi diretti, in un linguaggio che mima l’arruffato, inconcludente, ripetitivo, talvolta scurrile e sempre immaginoso, cianciare in un italiano dalle forti cadenze dialettali di un’intera comunità strapaesana. Ambientato in un borgo dell’Appennino tosco-emiliano, località senza nome ai piedi di una minacciosa montagna, animata da fenomeni mostruosi e inspiegabili, la vicenda si snoda tra minime storie di uomini e donne senza storia, personaggi bizzarri legati da una consuetudine esistenziale che li rende fraternamente solidali anche nei dissidi e nei fallimenti.

Il loro paesino è una realtà logistica immobile ed eterna, definita fisicamente dai suoi confini esterni più che dalle caratteristiche interne: “C’è un gruppo di case, ammucchiato su un rivone, streminato lassù dalla mano di un seminatore distratto. E intorno, monti a raggiera. Un ghippo appenninico dove l’aria sa di frontiera, la terra di colonizzazione, le persone di deriva”.

Questo paese è però minacciato da un esproprio territoriale, imposto da una società edilizia chiamata SIO, che intende costruire il Parko, con finalità mai chiaramente definite, ma esposte in incomprensibili dépliant distribuiti periodicamente agli abitanti (“Allora, se ci fate poi caso… fanno ʼsti depliant, quelli lì, della SIO, li stampano e li danno in giro per reclamizzare  il Parko, ma non ci si capisce mica una sega di quello che vogliono  dire”).  Gli indigeni reagiscono compattandosi in una resistenza sfiatata e parolaia, limitandosi a pretendere spiegazioni dal centralino telefonico sulle scosse che provengono dal sottosuolo, scrivendo sui muri Porko Parko, e a cacare provocatoriamente davanti ai cancelli dell’azienda.

In questo villaggio abbandonato da Dio e dalla civiltà, l’iniziativa dell’impresa immobiliare esprime la violenza di un arrembaggio capitalistico volto a stravolgere suolo e natura, calpestando i diritti di gente incapace di difendersi, che in realtà vorrebbe solo continuare a vivere la propria quotidianità senza essere disturbata da ingerenze esterne: “È inutile star lì a ridire che manca il lavoro, mancano le strade, mancano i servizi, manca questo e quello. Ormai l’abbiamo capita ʼsta fola: qua ci manca tutto. Ma a noi, può poi anche darsi che non ci serva niente”.

Chi sono le “persone di deriva” che animano il racconto, opponendosi a un progresso imposto dall’alto e non condiviso? Poveracci, gente stramba, che vive “di crinale”, raccogliendosi intorno all’unico posto in grado di accoglierli e ascoltarli: il bar, frequentato assiduamente dagli uomini di tutte le età, che bevono-fumano-bestemmiano-giocano a carte-litigano. Lo gestisce Brasco, che serve da bere ai rissosi Romma e Burasca, ascoltando le confidenze di Bunga (proprietario di una gatta, di un canarino e di un verme gelosamente conservato in un vaso di vetro: tutti e tre chiamati Bunga come lui) e le fantasie di Ginasio, allampanato boscaiolo in grado di predire il futuro ogni volta che si addormenta, mentre sua moglie Viola lo tormenta con rimproveri crudeli. C’è poi l’animalesco Bestio, che mangia uccellini vivi e beve olio dei motori, ossessionato da visioni horror scaturite dalla montagna che incombe terrifica, oppure dalle acque turbinose del lago: da lì sembra uscire nottetempo una figura mostruosa, un predatore gigantesco alto o due o venti metri: “Dicono scavi giorno e notte. Scavi e basta, tutto a picco e pala. E terra e pietre di risulta, le ammucchi qua e là, a secchiate”, mentre si susseguono spaventosi fenomeni atmosferici che terrorizzano l’intera comunità: “Qua va tutto a botaccio… Qua si sente crocchiare la terra sotto… Viene giù la casa. Presto o tardi, la casa verrà giù”.

Per esprimere paura e rabbia, la gente del paese conosce colorate imprecazioni e bestemmie (“Maledissa al diavle”, “Diavla impestada schiffa”, “Lurida vacca indemoniata”), intercalate a discorsi confusi e sgomenti, che fanno immaginare l’impossibilità di qualsiasi reazione contro il sopruso dei colonizzatori.  Invece improvvisa e inaspettata scoppia una rivolta contro la Sio e il Parko, che né impiegati e funzionari dell’azienda, né le guardie della sicurezza riescono a sedare. “I rivoltosi scardinarono il cancello della sede del Parko, si ammucchiarono all’ingresso. Spinsero e scancherarono, finché il por tone si incrinò, poi crollò… Invasero corridoi, stanze e uffici, risalendo le scale, ululanti e fitti, come una colonia di formiche legionarie. A un punto, i vetri delle finestre all’ultimo piano esplosero, le fiamme slinguarono fuori soffiando nella notte. Cenere e lapilli rotearono in aria, sospinti dal vento come insetti di fuoco. Piovve roba dal piano di mezzo, volarono fuori anche gli infis si delle finestre, sedie, scrivanie, schedari, computer, uno scroscio d’ufficio, poi il fuoco ghermì tutto”. Feriti, arresti, cala la notte nel silenzio di un incendio a mala pena domato, e il Romanzo di crinale si chiude senza specificare se “el pueblo unido jamás será vencido”, ma il lettore spera sia successo proprio così.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 marzo 2024

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SCHLINK

BERNHARD SCHLINK, IL LETTORE – NERI POZZA, MILANO 2018

Pubblicato da Garzanti nel 1996 con il titolo A voce alta, riedito nel 2010 come The reader, e nel 2018 da Neri Pozza come Il lettore, da questo avvincente libro di Bernhard Schlink è stato tratto nel 2008 un film interpretato da Ralph Fiennes e Kate Winslet, per l’occasione premiata con l’Oscar. Si tratta di uno dei romanzi fondamentali della narrativa tedesca contemporanea, “stilisticamente perfetto, inquietante e moralmente devastante”, secondo la definizione del Los Angeles Times, tradotto in più di venti lingue, premiatissimo e a lungo ai vertici delle classifiche di vendita nel mondo intero. La sua fama deriva dall’aver saputo dosare in giusta misura vicende private e storia collettiva, tenerezza personale e sdegno civile, attraverso una prosa asciutta, incalzante, priva sia di retorica sia di morbosità.

Protagonista maschile è Michael Berg, un quindicenne che vive a Heidelberg negli anni del secondo dopoguerra. Colto da malore sulla strada di casa viene soccorso da una vicina, bionda e solida quarantenne dai modi spicci e sicuri. L’avvenenza tranquilla e senza artifici della donna colpiscono profondamente il ragazzo, il quale, non appena riavutosi da una debilitante e lunga malattia, inizia a frequentare la casa di lei animato da un turbamento che pian piano si trasforma in passione. Hanna Schmitz lo accoglie con naturalezza compiaciuta, iniziando con il “ragazzino” – come lo chiama – una relazione sempre più coinvolgente.

Il rapporto tra i due, tenuto segreto a tutti con una complicità che è vergogna degli altri ma anche reciproco imbarazzo, si approfondisce nel tempo non solo da un punto di vista sessuale, ma anche affettivamente e culturalmente. Perché la donna, semplice bigliettaia su una linea tranviaria molto frequentata, e Michael, liceale figlio di un professore universitario, sembrano avere inclinazioni letterarie comuni, e lei pretende che il giovane le legga a ogni incontro pagine e pagine di classici, da Omero a Tolstoj, “a voce alta”. La loro relazione va avanti per quasi un anno, arricchendosi di stimoli nuovi (un viaggio di alcuni giorni in bicicletta attraverso il paesaggio del Baden-Württemberg; concerti, cinema, teatro), finché tra loro si apre qualche incrinatura, poiché Hanna sembra voler custodire con gelosia inconfessabili segreti, e Michael le tace la propria attrazione per una compagna di scuola.

Improvvisamente, la bigliettaia sparisce senza lasciare traccia di sé, e il ragazzino vive questo abbandono come un tradimento, si indurisce nei riguardi del prossimo, chiudendosi in una corazza di indifferenza e superficialità: si concede molte storielle facili, pratica svogliatamente un po’ di sport, studia senza interesse fino all’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Qui la sua strada si intreccia nuovamente con quella di Hanna, accusata di aver redatto un elenco di donne ebree da deportare ad Auschwitz e processata come ex-sorvegliante in un lager nazista. Michael assiste a tutte le udienze in tribunale, senza perdere una seduta, senza scambiare nemmeno una parola con l’imputata, pur sentendosi legato a lei da un filo tenace di comprensione, di condivisione anche del non detto, del molto taciuto. E finalmente arriva a intuire il motivo reale dell’abbandono dell’antica amante, i tanti sotterfugi cui ricorreva, gli appuntamenti mancati, le lettere rimaste senza risposta, la continua richiesta di fare di lui un lettore privilegiato. Pur di non rivelargli il suo analfabetismo, Hanna aveva deciso di troncare il loro rapporto, e in seguito preferisce passare per criminale piuttosto che umiliarsi confessando pubblicamente di non saper né leggere né scrivere: ammette quindi le proprie responsabilità politiche, pur con qualche esitazione, e viene condannata a diciotto anni di carcere.

Michael potrebbe parlare, salvandola così dalla prigione, ma non lo fa per rispettare la sua riservatezza. Sceglie una monotona professione in ambito legale, si sposa e divorzia, passando con indifferenza attraverso altre relazioni, ma è sempre ad Hanna che pensa, e ricorda con uno struggimento misto a sensi di colpa e a rimpianto. Decide infine di farsi vivo con lei nell’unico modo che gli è concesso, e registra decine di cassette leggendo e inviando alla detenuta tutto quello che gli capita, oltre a quello che man mano va componendo lui stesso come scrittore. Solo dopo alcuni anni, la donna gli risponde con grafia incerta: “Ragazzino, l’ultima storia era molto bella. Grazie”.

Così i due continuano a comunicare, lui attraverso le registrazioni, lei con bigliettini scritti via via con maggiore sicurezza, fino a quando, sessantenne, termina di scontare la pena.

Il romanzo non si conclude qui, ma chi volesse conoscerne il finale, di certo non consolatorio, farebbe bene a non accontentarsi di questa recensione, e a leggerlo per intero, non solo per soddisfare la  curiosità, ma anche per godere di uno stile elegante di scrittura, come si addice a un appassionato “reader”.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2023

 

 

 

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, ATEO?: ALTROCHÉ! – IPERMEDIUM, 2007

Dello scrittore tedesco Arno Schmidt (1914-1979) in Italia si conosce poco o niente: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli o piccolissimi editori, e perlopiù hanno avuto scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò dipende dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dallo stile sperimentale, oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa.

Il libello Ateo? Altroché! raccoglie le risposte che Arno Schmidt diede nel 1957 a un questionario sul cristianesimo proposto da Karlheinz Deschner a una cinquantina di scrittori tedeschi (molti declinarono diplomaticamente l’invito, solo in diciotto aderirono). Per Schmidt, sempre caustico e violentemente «anticlericale, anticristiano, antireligioso» fu un invito a nozze: proprio alla tredicesima e ultima domanda sull’ateismo rispose infatti con lapidaria irrisione servendosi del punto interrogativo e del punto esclamativo riportati nel titolo di questo breve saggio, che replicano la frase finale di un suo racconto del 1955 (Paesaggio lacustre con Pocahontas), denunciato per blasfemia e pornografia: «Io? Ateo? Altroché! Come ogni uomo che si rispetti!».

All’epoca la Germania viveva sotto la cappa di restaurazione ideologica imposta dal Cancelliere Adenauer. Schmidt si espresse quasi con sprezzo, in uno stile secco e corrosivo, dichiarandosi a favore di una società laica, libera, pacifista e illuminista, contraria a ogni superstizione e fanatismo religioso. Si dichiarò «Uno neutrale. Oggi, di fronte a un ciclorama di sinodi e cercatori di Dio, figuri con la fronte nuvola da scolastici aggrondati, infallibili, censorii, senescenti e mo’ daccapo “Signore degli eserciti!”». Proclamò la sua ostilità al Cristianesimo basandosi su tre punti: la dubbiosità dei documenti d’origine (una Bibbia contraddittoria, oscura, piena di episodi violenti, inficiata da migliaia di varianti testuali), la personalità «insoddisfacente» di Gesù di Nazareth, e gli effetti non propriamente esaltanti o formativi prodotti da duemila anni di messaggio cristiano, tra censure, roghi, massacri, argomentazioni antiscientifiche e oscurantismo culturale. Per cui alla domanda riepigolativa «Lei cosa pensa del Cristianesimo?», rispose sornione: «Non un granché!».

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Ateo-altroche-Schmidt.html               24 maggio 2018

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, LEVIATANO O IL MIGLIORE DEI MONDI – MIMESIS, MILANO 2013

Con traduzione e introduzione di Dario Borso (già curatore di altri due testi schmidtiani), Mimesis ha pubblicato nel 2013, con testo originale a fronte, un racconto di Arno Schmidt uscito in Germania nel 1949. Schmidt, reduce da sei anni di guerra e prigionia, vissuto fino ad allora in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e dopo aver tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile provocatoriamente funambolico, smozzicato, sperimentale. In Leviatano o il migliore dei mondi narra la disperata fuga verso Ovest di un gruppo di slesiani sbandati, affamati, feriti, sporchi (soldati, vecchi, bambini), in cerca di salvezza dai bombardamenti dell’aviazione inglese, in un treno rugginoso e sferragliante, continuamente costretto a fermarsi, bloccato dalla neve e dalle mitragliate dell’artiglieria: «Il gelo, il gelo, Scavammo con mani di marmo vicino all’acciaio corrusco. Mordente polvere di neve fluttuava intorno a naso e bocca. L’avrei guardata da palpebre d’argento. Il vecchio mi cadde sulla spalla; lo tirai con me nel vagone», «I demoni d’acciaio gridavano e gridavano intorno a noi, sopra noi, sotto noi. Ancora numerosi esplosero i colpi dietro, e una volta tremò tutto, come crollasse un monte (e mugghiare di acque gorgoglianti)».

Il protagonista, un sergente della Wehrmacht reduce dallo sbandamento dell’esercito, sale sul convoglio in partenza da Berlino il 20 maggio del ’45, e scandisce con una scrittura sincopata ed ansante una sorta di diario dei giorni e delle ore trascorse nel viaggio infernale, compiuto in compagnia di un pastore luterano retoricamente salmodiante, con la sua numerosa famiglia, di un anziano meditativo e curioso, di soldatacci lascivi, di diverse comparse generiche, della dolcissima Anne («Anne era già accanto a me e il suo profilo da Marlene Dietrich tornò a precipitarmi in beata servitù») e della madre di lei.

Il sergente alter ego dell’autore porta soccorso come può al manipolo terrorizzato degli scampati, scortandoli dentro e fuori dai vagoni ad ogni fermata, scavando a mani nude nella neve, soccorrendo i febbricitanti, ma soprattutto imbarcandosi in discussioni e teorizzazioni filosofiche e scientifiche, sia con il religioso «vile e bizantino», «anima svergognata di lacchè», che reagisce con pio fideismo anche davanti alla morte straziante dei suoi bambini («ma questi qui hanno mai pensato che potrebbe essere Dio il colpevole?»), sia con il vecchio agnostico che gli pone quesiti sulla realtà e sul destino finale del mondo. Lui risponde, didascalico, saccente e polemico. Esemplifica ricorrendo all’astrofisica, alla biologia, alla filosofia, alla matematica, alla storia: cita Einstein e Platone, Budda e Schopenhauer, Cervantes e Mozart, Nietzsche e Spinoza, esibendo un rabbioso nichilismo, un convinto ateismo, un feroce spirito anarchico, già evidente dal titolo e dal sottotitolo del libello: Leviatano o il migliore dei mondi. Ironizza su una divinità crudele e indifferente in un cielo spaventosamente vuoto, in uno spazio-tempo «illimitato ma non infinito», in cui brancola violenta e cieca la stirpe degli uomini illusi e angosciati: «Saluterei con gioia la fine dell’umanità; ho fondata speranza che entro ‒ beh ‒ fra i 500 e gli 800 anni si saranno annientati del tutto; e sarà cosa buona», «Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse, chi dice il contrario, mente! Pensi ai meccanismi universali: gola e foia. Propagarsi e asfissione». Attacca furiosamente Hitler («un ibrido di Nerone e Savonarola»), il cristianesimo con le sue «ridicole ambizioni gnoseologiche», e tutti i terrorismi ideologici che hanno manovrato le persone come marionette.

Eppure, quando il treno termina la sua corsa in bilico su un burrone, sospeso su un fiume dopo il crollo di un ponte, tra i cadaveri dei compagni di sventura, sogna la distruzione della Bestia, del famelico Leviatano, e «la rivolta dei buoni», Così le ultime frasi del diario suonano pudicamente utopiche: «Varcheremo la porta color cotto ricoperta di brina. Velato d’oro sarà in agguato il diabolico sole invernale, biancorosa e freddosfera. Lei sporgerà il mento e farà una smorfia villana, solleverà i fianchi per darsi slancio. Contratto la cingerò col braccio. Ecco sventolo via il quaderno: volate, brandelli!».

 

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https://www.sololibri.net/Leviatano-o-il-migliore-dei-mondi-Schmidt.html           29 maggio 2018

 

 

 

 

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, I PROFUGHI – QUODLIBET, MACERATA 2016

I Profughi, scritto da Arno Schmidt nel 1952 e da lui definito romanzo “svelto”, racconta la tragedia vissuta da due giovani amanti negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando più di dieci milioni di tedeschi vennero espulsi dai territori orientali (ceduti alla Polonia e alla Cecoslovacchia), per essere trasferiti a forza a sud e a ovest, costretti a reinsediarsi tra  abitanti spesso ostili, attraversando zone sfregiate dalla guerra e affrontando fame, malattie, pregiudizi ideologici e politici.

Durante questa diaspora si incontrano, in treno, i due protagonisti: lui è uno scrittore che si mantiene con precarie collaborazioni editoriali, lei una giovane vedova di guerra, Katarina, che ha perso una gamba durante un bombardamento. Nel corso del viaggio condividono forzatamente cibo, difficoltà, pensieri, sentimenti e sesso in una storia che è anche una storia d’amore, ma di un amore trattenuto, scontroso, per nulla edulcorato, con un finale di ipotetica e fiabesca irrealtà: “Così viviamo per il momento insieme; come andrà poi, non lo so ancora”. I due osservano dai finestrini del loro scompartimento una nazione distrutta, paesi “tondi e rannicchiati, con verruche per tetti”, campi abbandonati, gente incattivita e rancorosa, che per sopravvivere lotta anche contro i compagni di sventura.

In uno stile crudamente sperimentale, Schmidt esprime la necessità di conservare vivi e integri barlumi di umanità nello sfacelo morale e materiale della Germania hitleriana.  Lo fa utilizzando gli strumenti della riflessione filosofica, della citazione letteraria, della polemica antireligiosa e antipatriottica, dello scherno. Ma lo fa soprattutto inventando un nuovo modello narrativo, orgogliosamente dichiarato nel sottotitolo della prima edizione de I Profughi, uscita per la Frankfurter Anstalt nel 1953, insieme al romanzo Alessandro o della verità: “due studi di prosa (forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa)”. Intenzione di Schmidt era appunto quella di creare una narrazione che non rispettasse tanto l’unità di luogo, quanto invece l’unità di tempo. Il paesaggio di sfondo cambia infatti continuamente, tra osterie e stazioni, trasferimenti e occupazioni di alloggi promiscui, mentre l’arco di tempo viene focalizzato in 24 sezioni collegate unitariamente. L’elemento unificante è rappresentato da una reiterata tecnica fotografica, per cui ogni sezione è introdotta da un piccolo brano incorniciato in un rettangolo dalle dimensioni di una fotografia. Un vero e proprio “album”, in cui “le foto consistono di parole, che dovrebbero trasmettere al lettore un’immagine la più nitida possibile, a fuoco”, secondo quanto specificò l’autore stesso in un’intervista radiofonica. Lo scatto istantaneo iniziale viene poi sviluppato ed espanso in un racconto più disteso e argomentato, che utilizza una prosa magmatica, frantumata sintatticamente, sconvolta semanticamente, provocatoria nelle scelte lessicali, in una continua ricerca di effetti linguistici estranianti, imprevedibili, irriverenti, attraverso un’aggettivazione convulsa e ingegnosa: “greve gracchiante grugnente ghignoso gradasso”, “luna precoce”, “sfottente pendio”, “ruvida voce”, “notte angolosa”, “ventruti re”…

Arno Schmidt (1914-1979), dopo sei anni di guerra e prigionia, due volte reinsediato con la moglie Alice come i profughi di cui narra, vissuto in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e avendo tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile arrogantemente funambolico.

Di lui in Italia si conosce poco: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli editori (Lavieri, Ipermedium, Zandonai, Mimesis, e ora per I Profughi Quodlibet, che ne ha affidato la cura a Dario Borso, massimo interprete schmidtiano in Italia), con scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò è dipeso dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dalla sua scrittura oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa. Messosi in luce nel dopoguerra con un racconto audacemente innovativo (Il Leviatano o il migliore dei mondi, 1949), che oltre a stigmatizzare il nazismo contestava ogni forma di organizzazione sociale, nei volumi successivi (Dalla vita di un fauno, 1953; Paesaggio lacustre con Pocahontas, 1955; La repubblica dei dotti, 1957; Ateo? Altroché!, 1957; Alessandro o Della verità, 1959, fino alla vertiginosa esperienza espressiva delle ultime prove), esibì sempre una tormentata mescolanza di metafore barocche, neologismi futuristi, allegorismo simbolista, razionalità illuminista, immaginario fantascientifico. Erede di Joyce e degli espressionisti, rappresentò un caso estremo di ribellione anti-realistica, ripudiando ogni tradizionale descrittivismo e recuperando memorie personali e collettive venate di grottesco, indulgendo anche a forme di compiaciuto mimetismo che talvolta sfociava nel manieristico, con l’esibita volontà di polemizzare contro l’establishment culturale e l’attualità, da cui amava prendere le distanze, rifugiandosi in un passato di ideale purezza o in un futuro utopistico e improbabile.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 15 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCHMITT

CARL SCHMITT, TERRA E MARE – ADELPHI, MILANO 2002

In un originale saggio del 1942, redatto con l’accattivante forma e struttura del racconto, il filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt riassunse due millenni di storia mondiale, individuando nell’opposizione tra la terra e il mare il motore dell’evolversi dell’intera vicenda umana. Nella dicotomia tra i due elementi della natura, l’autore ravvisava l’antitesi che ha perennemente contrapposto civiltà e sistemi economici, teorie politiche e filosofiche, miti e religioni rivelate.

Schmitt dedicò Land und Meer alla figlia tredicenne Anima, usando uno stile narrativo inedito rispetto alla sua precedente produzione scientifica, proprio perché il fine che si proponeva era principalmente divulgativo e didattico. I venti capitoletti, a metà tra speculazione e immaginazione, spaziano geograficamente e storicamente dall’antica Grecia alla Repubblica marinara di Venezia, dalla scoperta dell’America al colonialismo britannico, fino alla II guerra mondiale e alle prime esplorazioni del cosmo.

Giustamente famoso, nella sua icasticità, è l’avvio del saggio: “L’uomo è un essere terrestre, un essere che calca la terra. Egli sta, cammina e si muove sulla solida terra. Questa è la sua collocazione e il suolo su cui poggia, e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Animale terrestre e pedestre, quindi, l’uomo: ma già il primo dei presocratici, Talete di Mileto, aveva riconosciuto nell’acqua l’origine di ogni vita. Secondo il mito, poi, Afrodite ‒ dea della bellezza ‒ nacque dalle onde del mare, di cui Poseidone era la divinità incontrastata e implacabile.

La contrapposizione evidente tra l’elemento equoreo e quello di superficie non è solo ideologica e caratteriale, bensì anche di dominio militare e di conquista: “La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare”. Atene e Sparta, Roma e Cartagine, Vichinghi e Saraceni: da un lato il possente e lento progredire degli eserciti in marcia, dall’altra l’agilità temeraria di chi affronta l’ignoto solcando i mari. Vari imperi si sono succeduti dominando le acque: si possono distinguere culture fluviali (Assiri, Babilonesi, Egiziani), culture dei bacini interni e del Mediterraneo (Grecia e Venezia), culture oceaniche (in seguito alla scoperta dell’America e alle circumnavigazioni del globo): qualsiasi apertura  nello spazio circostante  ha sempre comportato un progresso di civiltà, a partire da Alessandro Magno, passando per l’impero romano, le crociate, i commerci intercontinentali, per arrivare alle trasmigrazioni novecentesche: “Ogni volta che, grazie a una nuova avanzata delle forze storiche e alla liberazione di nuove energie, nuove terre e nuovi mari fanno il loro ingresso nell’orizzonte della coscienza collettiva umana, mutano anche gli spazi dell’esistenza storica. Nascono allora nuovi parametri e nuove dimensioni dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi ordinamenti, una nuova vita di popoli nuovi o rinati”.

Schmitt dedica molta attenzione all’espansione di Venezia nel Mediterraneo, iniziata intorno all’anno 1000 con una timida ricognizione verso la Dalmazia, e proseguita per sei secoli, con grandi risultati economici e diplomatici. Tuttavia, l’ascesa della Repubblica Veneta rimase circoscritta all’epoca medievale, senza riuscire a penetrare nell’epoca moderna, a causa dell’arretratezza nella pratica navigatoria (le sue galee si affidavano solo alla forza dei remi…). Furono gli olandesi a perfezionare metodi e attrezzature nautiche, con una cantieristica avanzata, la costruzione di imbarcazioni veloci, l’invenzione di un sistema di veleggio leggero, lo sviluppo degli strumenti di orientamento: ciò permise alle flotte di bordeggiare lungo le coste, e di affrontare le battaglie navali non più con arrembaggi diretti, ma in duelli di artiglieria anche a grandi distanze. Fu in questo modo che l’Inghilterra riuscì a prendere il sopravvento sulle popolazioni dell’Europa meridionale, diventando il primo impero marittimo (e in seguito militare, mercantile, industriale) della storia dell’umanità: utilizzando una nuova tecnologia nautica, e servendosi anche dell’azione anticipatrice,  aggressiva e banditesca, di corsari, masnadieri, filibustieri, “schiumatori del mare”, che tra il 1550 e il  1700 si spingevano dalle coste britanniche a quelle continentali ed extra-continentali. Francis Drake, Richard Hawkins, Sir Walter Raleigh, Sir Henry Morgan e altri meno famosi, con le loro scorrerie assestarono i primi colpi al monopolio commerciale della Spagna. Schmitt esaltava la funzione storica svolta dai predoni anglosassoni, feroce avvisaglia della potenza marinara protestante schierata contro l’egemonia delle nazioni cattoliche, in una serie di conflitti che culminarono nella Guerra dei Trent’anni (1618-1648).

L’originalità del saggio di Carl Schmitt consiste nell’aver interpretato dati storiografici universali con approcci trans-disciplinari, derivati dalla scienza, dal mito, dalle leggende popolari, da nozioni scientifiche e tecniche. Così come aveva riconosciuto i meriti della pirateria inglese, seppe interpretare originalmente anche l’importanza della caccia alle balene, che aveva indotto gli uomini a inoltrarsi in mare aperto, sempre più lontano dai lidi di partenza, verso l’ignoto. Più che alla flotta di Cristoforo Colombo, dobbiamo alle navi baleniere la scoperta di rotte, isole, correnti e approdi sconosciuti, dall’Atlantico al Pacifico. Nell’elogio che Schmitt intesse della balena (e del suo massimo cantore Herman Melville, l’Omero dell’oceano!) si intuisce la volontà di rappresentare metaforicamente la lotta tra il Leviatano e Behemot, mitici mostri biblici del mare e della terra, in cui raffigurava il conflitto esistente tra i due elementi naturali, le corrispondenti forme di potere e gli spazi da loro occupati.

Proprio sul concetto di spazio fa leva la riflessione schmittiana, nel narrare della grande rivoluzione derivata dalla scoperta dell’America, quando gli oceani entrarono a far parte dei percorsi navali dei popoli europei, modificando l’orizzonte geografico planetario e contribuendo alla formazione di una nuova idea di infinito e di vuoto, che da allora permeò ogni scienza e arte umana. Un fondamentale contributo al concetto di una diversa spazialità venne dato dalle scoperte astronomiche di Copernico, Galileo, Keplero, dalla filosofia di Giordano Bruno, dalle tesi dell’illuminismo, grazie a cui l’uomo comprese di non essere più al centro dell’universo, intuendo che davanti a lui si aprivano estensioni sconfinate. Tale consapevolezza trasformò il suo modo di pensare e di agire. Dopo secoli in cui le forze cristiano-europee si erano distinte nella colonizzazione, nello sfruttamento e nella spartizione dei territori aldilà degli oceani con guerre sanguinose e fratricide, il vecchio continente si aprì ad altre decisive esplorazioni, non più terrestri e marittime, ma dei cieli, inaugurando un nuovo stadio della rivoluzione spaziale planetaria. Con un capitolo finale dedicato appunto all’aria, terza sfera vitale dell’esistenza umana, si chiude la riflessione schmittiana sull’ antinomia terra-mare.

Per quale motivo un filosofo e giurista di assoluto livello e rinomanza come Carl Schmitt decise di affrontare nella maturità studi storici e scientifici sulla navigazione, e di scrivere Land und Meer? Lo spiega molto bene nella postfazione il compianto Franco Volpi, adducendo alla strisciante persecuzione patita dallo studioso da parte del partito nazista (che inizialmente lo aveva avuto tra i sostenitori) la dolorosa crisi esistenziale che lo portò a estraniarsi dall’attualità per dedicarsi a una visione più elevata dei destini dell’umanità, approfondendo studi antropologici in un indirizzo escatologico ed esoterico, e non più in base alle limitate categorie nazionali, sociali, economiche. “Era un uomo di scienza, abituato al rigore della definizione e dell’argomentazione, ma al tempo stesso uno sciamano della parola e un mistagogo. Padroneggiava entrambi i registri, quello della logica e quello della seduzione, del concetto e dell’immaginazione, della ragione e del mito”.

Carl Schmitt (Plettenberg, 1888-1985), professore di diritto pubblico all’Università di Berlino, aveva orientato la sua produzione filosofica sui concetti-chiave di decisionismo, sovranità, valore, limite, seguendo le orme di Hobbes e Weber. Il suo pensiero venne condizionato dall’ideologia nazista, cui prestò un fondamento filosofico-giuridico, aderendo in prima persona al partito di Hitler, che lo nominò consigliere di Stato prussiano, considerandolo una sorta di Kronjurist («giurista della Corona») del Terzo Reich. Dopo la guerra, Schmitt fu processato e imprigionato dagli alleati per i suoi rapporti con il nazionalsocialismo; in seguito prosciolto, gli fu vietato l’insegnamento: per tale motivo continuò a ritenersi fino alla morte ingiustamente emarginato, unica vittima a pagare per tutta l’intellighenzia tedesca. Franco Volpi scolpisce con pochi tratti incisivi il ritratto intellettuale dell’autore di Terra e mare: “Schmitt si inoltra qui in un territorio rischioso e affascinante, al confine tra la storia e l’immaginazione, la scienza politica e la visione mitologica, la giurisprudenza e l’evocazione di potenze elementari e demoniache. Cantore degli elementi e del loro ultimo potere, egli ci insegna che la storia del mondo non si decide nel palazzo dei concetti, ma nelle sue segrete: cioè prima di dove pensavamo cominciasse, e oltre dove pensavamo terminasse”.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 9 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCHNITZLER

ARTHUR SCHNITZLER, FUGA NELLE TENEBRE – ADELPHI, MILANO 1981

Incontriamo il protagonista del romanzo (Robert, consigliere governativo a Vienna) mentre si trova in un albergo su un’isola dell’Adriatico, convalescente a causa di un’imprecisata malattia nervosa, in procinto tuttavia di partire, preso da incontenibile ansia, per tornare in Austria (“Era suo destino ritornare a casa altrettanto depresso come quando ne era partito?”). Quella che da subito sembra delinearsi come una sua tormentante nevrosi, ben presto assume i caratteri più complessi e minacciosi di un delirio ossessivo, animato da sensi di colpa e di persecuzione, incubi e fobie ricorrenti, allucinazioni visive e uditive, che lo avvicinano ineluttabilmente al baratro della follia. In particolare la sua mente sembra attanagliata da due idee fisse: il timore di avere ucciso in stato di incoscienza la giovane moglie ed altre amanti, e il confronto umiliante con la figura del fratello Otto, medico di successo, marito e padre felice, stimato membro dell’alta borghesia viennese. “Credeva di riconoscere che il legame fraterno non solo costituiva per lui la conquista migliore e più pura dell’esistenza, ma anche più in generale, l’unico legame di una naturale e sicura stabilità… Sempre, sin dalla giovinezza, egli si era ritenuto meno importante del fratello maggiore…”. Tornato nella città natale, Robert non riesce a riadattarsi al tran tran quotidiano; si assenta spesso dall’ufficio; trasloca in diversi alberghi; cerca sollievo dalle sue paure in brevi e frequenti viaggi, o in incontri casuali, sempre tuttavia deludenti. Nemmeno il tentativo di ricostruirsi una vita sentimentale con una affascinante e sensibile musicista riesce a placare le sue angosce, che alla fine si risolvono con un omicidio e nell’inevitabile conseguente suicidio. Un Arthur Schnitzler che ben aveva assimilato la lezione freudiana, riuscendo a scandagliare le ombre tenebrose di una psiche malata e infelice.

IBS, 14 marzo 2014

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