ARNO SCHMIDT, I PROFUGHI – QUODLIBET, MACERATA 2016

I Profughi, scritto da Arno Schmidt nel 1952 e da lui definito romanzo “svelto”, racconta la tragedia vissuta da due giovani amanti negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando più di dieci milioni di tedeschi vennero espulsi dai territori orientali (ceduti alla Polonia e alla Cecoslovacchia), per essere trasferiti a forza a sud e a ovest, costretti a reinsediarsi tra  abitanti spesso ostili, attraversando zone sfregiate dalla guerra e affrontando fame, malattie, pregiudizi ideologici e politici.

Durante questa diaspora si incontrano, in treno, i due protagonisti: lui è uno scrittore che si mantiene con precarie collaborazioni editoriali, lei una giovane vedova di guerra, Katarina, che ha perso una gamba durante un bombardamento. Nel corso del viaggio condividono forzatamente cibo, difficoltà, pensieri, sentimenti e sesso in una storia che è anche una storia d’amore, ma di un amore trattenuto, scontroso, per nulla edulcorato, con un finale di ipotetica e fiabesca irrealtà: “Così viviamo per il momento insieme; come andrà poi, non lo so ancora”. I due osservano dai finestrini del loro scompartimento una nazione distrutta, paesi “tondi e rannicchiati, con verruche per tetti”, campi abbandonati, gente incattivita e rancorosa, che per sopravvivere lotta anche contro i compagni di sventura.

In uno stile crudamente sperimentale, Schmidt esprime la necessità di conservare vivi e integri barlumi di umanità nello sfacelo morale e materiale della Germania hitleriana.  Lo fa utilizzando gli strumenti della riflessione filosofica, della citazione letteraria, della polemica antireligiosa e antipatriottica, dello scherno. Ma lo fa soprattutto inventando un nuovo modello narrativo, orgogliosamente dichiarato nel sottotitolo della prima edizione de I Profughi, uscita per la Frankfurter Anstalt nel 1953, insieme al romanzo Alessandro o della verità: “due studi di prosa (forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa)”. Intenzione di Schmidt era appunto quella di creare una narrazione che non rispettasse tanto l’unità di luogo, quanto invece l’unità di tempo. Il paesaggio di sfondo cambia infatti continuamente, tra osterie e stazioni, trasferimenti e occupazioni di alloggi promiscui, mentre l’arco di tempo viene focalizzato in 24 sezioni collegate unitariamente. L’elemento unificante è rappresentato da una reiterata tecnica fotografica, per cui ogni sezione è introdotta da un piccolo brano incorniciato in un rettangolo dalle dimensioni di una fotografia. Un vero e proprio “album”, in cui “le foto consistono di parole, che dovrebbero trasmettere al lettore un’immagine la più nitida possibile, a fuoco”, secondo quanto specificò l’autore stesso in un’intervista radiofonica. Lo scatto istantaneo iniziale viene poi sviluppato ed espanso in un racconto più disteso e argomentato, che utilizza una prosa magmatica, frantumata sintatticamente, sconvolta semanticamente, provocatoria nelle scelte lessicali, in una continua ricerca di effetti linguistici estranianti, imprevedibili, irriverenti, attraverso un’aggettivazione convulsa e ingegnosa: “greve gracchiante grugnente ghignoso gradasso”, “luna precoce”, “sfottente pendio”, “ruvida voce”, “notte angolosa”, “ventruti re”…

Arno Schmidt (1914-1979), dopo sei anni di guerra e prigionia, due volte reinsediato con la moglie Alice come i profughi di cui narra, vissuto in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e avendo tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile arrogantemente funambolico.

Di lui in Italia si conosce poco: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli editori (Lavieri, Ipermedium, Zandonai, Mimesis, e ora per I Profughi Quodlibet, che ne ha affidato la cura a Dario Borso, massimo interprete schmidtiano in Italia), con scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò è dipeso dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dalla sua scrittura oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa. Messosi in luce nel dopoguerra con un racconto audacemente innovativo (Il Leviatano o il migliore dei mondi, 1949), che oltre a stigmatizzare il nazismo contestava ogni forma di organizzazione sociale, nei volumi successivi (Dalla vita di un fauno, 1953; Paesaggio lacustre con Pocahontas, 1955; La repubblica dei dotti, 1957; Ateo? Altroché!, 1957; Alessandro o Della verità, 1959, fino alla vertiginosa esperienza espressiva delle ultime prove), esibì sempre una tormentata mescolanza di metafore barocche, neologismi futuristi, allegorismo simbolista, razionalità illuminista, immaginario fantascientifico. Erede di Joyce e degli espressionisti, rappresentò un caso estremo di ribellione anti-realistica, ripudiando ogni tradizionale descrittivismo e recuperando memorie personali e collettive venate di grottesco, indulgendo anche a forme di compiaciuto mimetismo che talvolta sfociava nel manieristico, con l’esibita volontà di polemizzare contro l’establishment culturale e l’attualità, da cui amava prendere le distanze, rifugiandosi in un passato di ideale purezza o in un futuro utopistico e improbabile.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 15 gennaio 2018