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SELLARS

JOHN SELLARS, SETTE BREVI LEZIONI SULL’EPICUREISMO – EINAUDI, TORINO 2022

John Sellars, docente di Filosofia al Royal Holloway di Londra, è autore di alcuni bestsellers, tra cui The Art of Living. The Stoics on the Nature and Function of Philosophy, in cui invita i lettori, con prosa accattivante e di facile presa, ad affrontare la vita con la saggezza degli antichi. È stato uno dei fondatori di “Stoic Week”, evento globale con cadenza annuale, i cui partecipanti sono invitati a vivere come gli stoici per una settimana, per provare a migliorare la propria esistenza.

Einaudi ha pubblicato un esile volumetto, Sette brevi lezioni sull’epicureismo, che illustra con intento divulgativo il pensiero epicureo, oggetto di molti travisamenti e interpretazioni superficiali nel corso di duemila anni di storia. Con il termine epicureo, infatti, la vulgata popolare intende l’individuo che ama godersi la vita negli aspetti più materiali e grossolani, dal cibo al divertimento, dalla soddisfazione smodata di appetiti fisici a un’eccessiva autoindulgenza. Anche filosoficamente l’epicureismo è stato frequentemente demonizzato come dottrina pericolosa, corruttrice, da associare all’ateismo, all’immoralità, all’insaziabilità dei sensi.

Epicuro, nato e cresciuto nell’isola greca di Samo intorno alla metà del IV secolo a.C., aveva girovagato in diverse città dell’Asia Minore proponendo in lezioni pubbliche i suoi insegnamenti, non sempre accolti favorevolmente, per acquistare infine un terreno fuori dalle mura di Atene, chiamato il Giardino, in cui vivere con amici fedeli un’esistenza serena e autosufficiente. La sua comunità si mantenne rigogliosa per più di duecento anni, e il culto per il fondatore nei secoli successivi si diffuse ovunque, trovando numerosi allievi e prosecutori della sua dottrina, come Diogene e Filodemo in Grecia, e Lucrezio, Virgilio, Orazio a Roma.

Delle tre epistole di Epicuro che ci sono rimaste, la Lettera a Meneceo è la più famosa, poiché tratta di argomenti etici e, più in generale, di come vivere una vita buona e felice. In essa, la filosofia veniva indicata come rimedio terapeutico per ottenere la tranquillità, raggiungibile superando il duplice rischio dei desideri frustrati e dell’ansia per il futuro, rischio determinato dall’incapacità di osservare il reale funzionamento di ciò che ci circonda, e dal timore infondato di minacce inesistenti. Il superamento del dolore si ottiene, secondo Epicuro, attraverso il perseguimento del piacere, attivo (cinetico) e statico (catastematico), sia fisico che mentale: il piacere attivo ha il suo fine nel raggiungimento del piacere statico, in cui non si sentono più desideri incontrollati. Si mangia non tanto cedendo a un senso smodato di golosità, ma per appagare lo stimolo della fame, e raggiungere lo stato di non avere fame. Epicuro stesso viveva in maniera parca e morigerata, nutrendosi di pochi alimenti frugali. Sono però le sofferenze mentali e psicologiche, più che gli appetiti fisici, quelle che agitano maggiormente l’uomo. Se la soddisfazione dei piaceri del corpo è transitoria e facilmente dimenticabile, quella derivante da un godimento intellettuale (una bella conversazione tra amici, una lettura arricchente, una vacanza istruttiva) è invece fruttuosa e duratura. Ciò che si deve raggiungere per essere felici è quindi il benessere mentale statico: non essere ansiosi, preoccupati o spaventati da false paure e superstizioni, in particolare sugli dèi e sulla morte, che sono la sorgente principale del turbamento mentale, in modo da poter vivere sereni, “come un dio fra gli uomini”.

Per arrivare all’ataraxia, cioè alla tranquillità interiore, è necessario ridurre i bisogni all’essenziale, senza vivere assediati dall’avidità e dall’invidia verso il prossimo. I veri amici sono più necessari dei beni materiali, poiché non solo ci donano la gioia di una confortante compagnia, ma possono offrirci sostegno e consolazione nel momento del bisogno. È opportuno inoltre vivere in disparte, senza cedere alle lusinghe del successo e del prestigio politico e sociale. Se ci convinciamo del fatto che tutto l’esistente è composto da atomi, che si fondono insieme e poi si distaccano in movimenti casuali, non solo riusciremo a evitare le paure derivanti da false credenze scientifiche sulla natura, ma saremo disposti anche ad accettare la nostra inevitabile morte come un lungo sonno privo di sensazioni dolorose, e a superare il terrore degli dei, i quali non sono interessati alle vite individuali degli uomini: “Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi”.

Secondo Sellars, Epicuro insieme agli stoici Epitteto e Marco Aurelio è stato uno dei precursori della moderna psicoterapia cognitiva, perché ha insegnato a guarire dalle passioni dell’anima e a vivere con felicità il tempo che i è dato.

 

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10 marzo 2022

 

 

 

 

 

 

 

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SEPULVEDA

LUIS SEPULVEDA, IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE
GUANDA, MILANO 2016

Nel suo primo romanzo, Luis Sepulveda (1949-2020) raccontava di un’umanità che fronteggia il bene e il male incarnati in una natura lussureggiante, avvolgente e impietosa, all’interno della foresta amazzonica abitata dai nativi Shuar, sulle rive del fiume Nagaritza. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, pubblicato in Spagna nel 1989 e tradotto in Italia nel 1993, conobbe un successo mondiale e tuttora viene ristampato in diverse lingue.

Il romanzo si apre in maniera forte, con un memorabile capitolo di sentimenti violenti, sangue e
passioni politiche che si animano nel corso di una seduta dentistica sul molo di un villaggio
ecuadoriano, tutto mosche sudore umidità, per ironia della sorte chiamato El Idilio.
Il cavadenti è un anarchico rabbioso che applica ai suoi pazienti una curiosa anestesia orale, fatta di
imprecazioni, torture sanguinarie e sermoni politici: sue vittime gli indios, veloci nel ruotare
minacciosamente il machete, in grado di farsi togliere tutti i denti per scommessa, ma intimoriti e
ammirati come bambini davanti alle dentiere in mostra. Tra loro, il protagonista del romanzo, “un
vecchio dal corpo tutto nervi”, che tiene la protesi in tasca per non consularla, Antonio Josè Bolivar.
Non è un Suhar, è un bianco con un passato sfortunato di colono, che conosce la foresta come nessuno
e vive da solo in una capanna in cui ha sistemato la foto della moglie morta bambina, un’amaca e un
tavolo dalle gambe altissime. Qui appoggia, senza sedersi, i romanzi d’amore che gli presta il dentista,
e che legge compitando le parole a voce alta, affascinato da tradimenti e seduzioni, commosso dal
romanticume più trito. Nonostante questa unica “debolezza” sentimentale, Antonio Josè è un uomo
d’azione, e lo dimostra quando, durante la seduta dentistica, appare, trasportato dalla corrente, il
cadavere di un gringo dilaniato dagli artigli di un felino. Priva di incertezze è la diagnosi del vecchio:
lo scempio è stato compiuto dalla femmina di un tigrillo impazzita di dolore perché lo straniero le
aveva ammazzato i piccoli e ferito il compagno. Le autorità, temendo la furia omicida dell’animale,
affidano proprio ad Antonio Josè la sua cattura, che si articola nelle pagine attraverso varie e
appassionanti fasi, scandite in appostamenti, fughe, assalti, sempre più minacciosi e angoscianti.
La caccia al tigrillo è assurta a simbolo della lotta antica ed eterna tra uomo e animale: quest’ultino,
ancora una volta, coma la balena di Melville, come lo squalo di Hamingway, rappresenta la natura
ferita che si ribella, l’istinto mortificato che si vendica. Nel racconto assistiamo affascinati e impauriti
al trionfo della fisicità: sconquassi meteorologici, corpi lacerati in putrefazione, escrementi liquefatti
e il dominio brulicante degli animali, dalla zanzare alle scimmie ai pesci assassini.
Alla fine della lotta, sarà Antonio Josè a vincere, ma di una vittoria vergognosa, umiliante, perché
ottenuta con l’astuzia e con le armi:
“Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e dalla pioggia, spinse il corpo dell’animale fino alla riva del
fiume, e le acque se lo portarono via, verso l’interno della foresta, fino ai territori mai profanati
dell’uomo bianco, fino all’incontro col Rio delle Amazzoni, verso le rapide dove sarebbe stato
squarciato da pugnali di pietra, in salvo per sempre dalle bestie indegne. Gettò subito via con furia
la doppietta e la vide affondare senza gloria. Bestia di metallo odiata da tutte le creature.
Antonio Josè Bolivar Proano si tolse la dentiera, l’avvolse nel fazzoletto, e senza smettere di maledire
il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la
verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si
avviò verso El Idilio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole
così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 24 febbraio 2023

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SEQUERI

PIERANGELO SEQUERI, INTORNO A DIO – LA SCUOLA, BRESCIA 2012
SEQUERI/GARLASCHELLI, L’UMANO PATIRE – BERTI, PIACENZA 2009

«Da molto tempo… la ricerca teologica di Pierangelo Sequeri è impegnata nel tentativo di recuperare un ‘pensare Dio’ in cui la sensibilità per il senso assuma il ruolo-guida, diventando intelligenza dell’esperienza, intuizione della giustizia, percezione di una presenza». Così scrive nella sua introduzione a questa stimolante intervista Isabella Guanzini, che con estrema, sagace umiltà e altrettanto attenta e partecipe curiosità invita Pierangelo Sequeri a esprimersi sui temi e gli interrogativi fondamentali che agitano le più percettive coscienze cattoliche dell’oggi. E il teologo-filosofo-musicologo milanese risponde con schiettezza e profondità, come si conviene a una tra le voci più autorevoli e sincere della Chiesa, senza paludarsi dietro a diplomazie e sotterfugi troppo spesso praticati da altri influenti religiosi. Il suo è un richiamo vigoroso a rifiutare «il mediocre modello cristiano-borghese, che predica il cristianesimo come mortificazione della vita del desiderio, e lo pratica come legittimazione del proprio status politico-mondano»: a uscire da un’ interiorità che diventa facile alibi per i nostri egoismi («Siamo diventati codardi con gli assoluti», «L’habitat di Dio è la storia, non la parrocchia»); a lasciarsi coinvolgere dal lavoro della mente e dalle passioni dello spirito. La critica ai devozionismi, alle superstizioni, ai narcisismi, ai passatismi codardi dell’attuale pratica religiosa è impietosa e ardita: così come quella alle mode new age di rispolverati misticismi, alle disinvolture filosofiche che fanno l’occhiolino alla psicanalisi, alla sociologia, a politicismi tattici. Ribadisce il suo forte no a qualsiasi fede zuccherosa e stucchevole, fatta di routine e di gossip mediatici. Ma si spinge con coraggiosa originalità anche sul terreno più specificamente teologico del dibattito sul male, contestando acutamente la sospetta arrendevolezza con cui si accolgono scriteriatamente le tesi sulla teodicea. E il suo richiamo severo è allora «all’economia delle parole, dei gesti e dei silenzi» per lasciar parlare il Signore, in una relazione frontale, di amorosa reciprocità.

In un secondo, piccolo e importante volume, la voce limpida e franca di Pierangelo Sequeri si confronta con gli stimolanti interrogativi e le acute ma ammirate provocazioni del filosofo Enrico Garlaschelli. E il terreno di incontro è quello, vastissimo e antico, del problema della sofferenza, dell’esistenza del male – compiuto e patito – , e delle giustificazioni che a queste eterne domande della coscienza e del pensiero tenta di dare la fede cristiana. In che modo lo scandalo del male può aprire all’orizzonte di una trascendenza del bene? Il dolore è sempre apertura di senso? L’esperienza del patire può diventare esperienza di relazione? Sequeri risponde richiamandosi alla giustizia e alla bellezza dell’esistere, al dovere della comprensione reciproca e della solidarietà, stigmatizzando «la stupidità della nostra cattiveria che assomma al male nel mondo quello che ci facciamo l’un l’altro», sottolineando l’ esigenza di non sostituire a Dio «padreterni di seconda scelta». E le parole d’ordine forti, convincenti, di tutta la sua ricerca teologica tornano qui con la loro provocatoria verità: la polemica contro il pensiero modesto e la religione d’arredamento, l’invito alla tutela della cura e a un’etica della resistenza umana, la critica all’alleggerimento del tragico e alla pressione di conformità dei nostri tempi. Il vo lume si chiude con alcune pagine di meditazione di Garlaschelli, che rifacendosi a Kafka e Celan, a Hobbes e Girard, ripercorre tutta la riflessione di Pierangelo Sequeri, che da sempre privilegia l’interrogazione trepidante, il dubbio autentico, il desiderio innocente alla rassegnazione dell’indifferenza: «non il problema speculativo del male come nulla, ma l’invocazione “liberaci dal male” nella forma della speranza».

 

«Mosaico di pace» 9 ottobre 2012

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SERENI

CLARA SERENI, EPPURE – BUR RIZZOLI, MILANO 2012

Degli undici racconti che formano questo volume, Alberto Asor Rosa scrive: «Nude, essenziali, storie qualsiasi di gente qualsiasi che soffre in silenzio il dolore – o i dolori – di ogni giorno…La discrezione mentale diventa misura stilistica».
Vicende di persone comuni, quindi, ma senz’altro partecipi di una stessa caratteristica. Si tratta di vinti, di “incolori” (come li definisce il titolo del primo capitolo), di gente mite e indifesa, spesso incapace di reazione. Molti di loro soffrono di handicap fisici o mentali, si muovono in carrozzella o con tutori, cercano la compagnia dei loro simili, o di giocattoli muti e di teneri animali, capaci di consolazione. Incompresi dai più, talvolta derisi o isolati, vengono schiacciati dal conformismo, dalla miopia, dall’indifferenza burocratica di ciò che li circonda. Alcuni sono invalidi: «Quelli che in strada non si vedono mai, perché confinati in casa o perché, quando passano, voltare la testa dall’altra parte è comunque il gesto più consueto e spontaneo: per non metterli in imbarazzo, per non mettersi in disagio».

Ma la maggior parte di loro è segnata da una profonda ferita dell’anima, da un’invincibile inadeguatezza alla vita intesa come successo, potere e prevaricazione sugli altri. Clara Sereni sembra avere una particolare attenzione e sensibilità per i personaggi femminili, che sono quasi sempre descritti in una loro generosa e tragica disposizione al sacrificio, all’annullamento personale, a una ingenua e insieme nobilissima solidarietà.
C’è quindi l’anziana madre che sceglie di immolarsi con educata discrezione alle esigenze sociali della figlia, e viceversa una figlia che accudisce la mamma arteriosclerotica mettendosi continuamente in secondo piano; c’è la moglie che cura il marito malato in una simbiosi quasi suicida, e la bambina trascurata dai genitori che sogna un mondo magico riparatore.
Poca gioia, comunque, rari sorrisi: ma pietas e umanissima malinconia.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/EPPURE-CLARA-SERENI.html    15 dicembre 2015

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SERGE

VICTOR SERGE, ANNI SENZA PERDONO – PAGINAUNO, MILANO 2022

Proveniente da una famiglia di rivoluzionari russi, Victor Serge (Bruxelles 1890 – Città del Messico 1947), anarchico dall’adolescenza, dal 1912 al 1917 fu imprigionato in Francia. In Russia aderì al bolscevismo e a partire dal 1926 partecipò all’opposizione di sinistra ispirata da Trockij. Arrestato nel 1928, venne confinato fra il 1933 e il 1936; espulso dall’URSS, visse in Belgio, in Francia e dal 1940 in Messico. Nella sua intensa attività pubblicistica sviluppò un’acuta critica di ispirazione socialista allo stalinismo. Sua opera principale è l’autobiografia Memorie di un rivoluzionario; l’ultimo fra i suoi romanzi fu Gli anni senza perdono, pubblicato postumo nel 1971 e ora riproposto dalle edizioni Paginauno.
I due racconti di cui si compone il volume (Il vicolo di San Barnaba e L’ospedale di Leningrado) sono ambientati nella Russia degli anni Trenta, in pieno stalinismo, e risentono entrambi dell’atmosfera cupa determinata non solo da una povertà diffusa e dalle prevaricazioni esistenti tra la popolazione civile, ma soprattutto dalla coercizione politica messa in atto dal regime sovietico nei confronti di qualsiasi dissidenza.
Ne Il vicolo di San Barnaba, uscito per la prima volta nel 1931, è l’aspetto umano della vicenda che attira l’attenzione dei lettori, perché in uno scenario di miseria, fame, solitudine e abbrutimento fisico si innestano processi di malvagità e sopraffazione reciproca tra esseri umani che condividono la stessa sofferenza.
In una Mosca in cui i cittadini sono costretti a fare lunghe file davanti alle panetterie e ai pochi negozi alimentari rimasti aperti, in cui si consumano quotidianamente centinaia di furti e violenze fisiche, e le forze dell’ordine si lasciano facilmente corrompere, non viene garantito né il diritto alla salute, né quello all’abitazione: a ciascun paziente i rari dottori a disposizione possono dedicare solo otto minuti di consultazione, e nessun abitante o nucleo familiare può avere in locazione più di nove metri quadri di spazio domestico. Sporcizia, epidemie di tifo e scorbuto, rachitismo, mancanza di medicinali, baratto di cibo e mercato nero si diffondono tra la popolazione sconfortata e litigiosa.
Il disfacimento del corpo di Lenin nel Mausoleo dedicatogli nella Piazza Rossa, diventa metafora del fallimento degli ideali rivoluzionari, mentre il finto attivismo di una mancata ricostruzione della capitale viene celebrato da una propaganda martellante e ipocrita: “esortatevi l’un l’altro al successo, alla vittoria, al socialismo, questa città è un’immensa trireme e noi ne siamo i vogatori – cantate e remate, ancora uno sforzo, il porto è vicino… Le rotative moltiplicano il ritmo, le canzoni del lavoro vengono diffuse dalle onde aeree, lo schermo le imprime nei cervelli, i manifesti urlano, forza, compagni, in coro!”
Se le ruspe abbattono vecchie chiese e tuguri mentre l’attività edilizia tenta convulsamente una ripresa anche impiegando manodopera straniera, la guerra tra poveri non ha tregua, e nel Vicolo Sa Barnaba si vedono “persone muoversi simili agli insetti, uscire per un istante dalle tane, in abiti di grisaglia… letame della storia”.
La vecchia Anissia vive da sola in una camera umida e buia, le cui pareti sono tappezzate da decine di icone sacre cui l’anziana dedica continue preghiere e domande di intercessione per i peccati del mondo. Rinsecchita, maleodorante e malata, è circondata dall’ostilità e dal sospetto dei vicini (“quell’odio infinito per il prossimo che la miseria fa nascere nell’uomo”). La convivenza forzata rende le persone crudeli e fameliche, invidiose anche del poco posseduto dagli altri: “Come le disgrazie, un tetto avvicina gli uomini senza unirli”. La stanzetta di Anissia fa gola a tutti, poveracci e professionisti, soldati e madri di famiglia: l’assedio intorno all’anziana, in attesa che la sua agonia si concluda, innesca una disumana competizione tra i vicini, in un susseguirsi di omertosi silenzi e dispetti vicendevoli, finché la vecchietta inaspettatamente riprende vigore, si alza dal suo giaciglio ed esce dal condominio brulicante per andare a comperare il pane, in fila tra tanti disperati come lei.
Il secondo racconto, L’ospedale di Leningrado, è più caratterizzato politicamente, e la sua denuncia contro il potere coercitivo che annulla le libertà individuali e mette a tacere il dissenso assume toni sarcastici e indignati. Emblematiche sono le righe di apertura del testo: “Nel 1923, mentre abitavo a Leningrado, conobbi direttamente la psichiatria e le sue istituzioni poiché una persona a me carissima era stata colpita dai sintomi della malattia mentale. In quegli anni già correvano avvenimenti inquietanti: alla carestia nelle città e alla miseria nelle campagne si accompagnavano le prime avvisaglie del terrore; oscuri omicidi e implacabili persecuzioni colpivano i tecnici, gli oppositori del Regime, i contadini e persino le idee. Io ap partenevo alla categoria dei dissidenti; il che si gnificava che ogni notte, nel cuore del sonno, mi destavo al primo rumore, immaginando i passi di quelli che salivano lentamente le scale per venire ad arrestarmi…”.
Invitato da un amico medico a visitare l’ospedale psichiatrico di San Giovanni Dispensatore di Miracoli a Leningrado, Victor Serge rimane da subito impressionato dall’aspetto fatiscente e sinistro dell’edificio, “un piccolo inferno ignorato dal mondo”. Assiste all’arrivo di detenuti scaricati dalle camionette della polizia politica, la Ghepeu: gente comune, spaventata e dimessa, “grumi di uomini taciturni, di donne sospette, avvolti da tutti i colori della miseria”. Condannati a lavori forzati in Siberia per piccoli reati (contrabbando, spaccio di alcol, furto), e poi di nuovo internati in clinica, brutalizzati, sedati con psicofarmaci. L’incontro con uno dei degenti, Nestor Petrovi ch Iouriev, si rivela illuminante. Uomo colto, amico personale di molti letterati, collezionista di testi rari, fornito di una sottile capacità di analisi, segregato in quanto controrivoluzionario, Iouriev aveva scritto, stampato e diffuso un Appello al popolo in cui invitava i cittadini e gli intellettuali russi a liberarsi dalla paura che controlla gli animi, avvilisce il pensiero, oscura l’intelligenza.
“I lavoratori hanno paura di morire di fame se non rubano, paura di rubare, paura del Partito, paura del piano, paura di sé medesimi. I colpevoli hanno paura di confessa re il loro misfatto, gli innocenti hanno paura di non aver niente da confessare e di essere inno centi. Gli intellettuali hanno paura di capire e di non capire, di poter comprendere o di non po ter comprendere. Gli ideologi hanno paura delle idee, i credenti hanno paura di essere scoper ti e hanno paura di tradire la loro fede. Il popo lo ha paura del potere e il potere ha paura del popolo… Al vertice dello Stato, gli uomini che occupano le più alte cariche politiche, hanno paura gli uni degli altri; hanno paura di agire e hanno paura di non agire, hanno paura della crisi economica, paura delle conseguenze dei loro stessi gesti, paura delle masse, paura della guerra. Il capo ha paura del proprio seguito, al punto da temere il veleno in un semplice bicchiere d’acqua e da diffidare delle sue più fedeli guardie del corpo. Ma a sua volta il seguito ha paura ed è terrorizzato dal capo…”.
Parole scritte un secolo fa, che sebbene rivolte al sistema liberticida staliniano, stigmatizzano qualsiasi tipo di potere antidemocratico, anche attuale e di diversa colorazione politica, là dove l’anticonformismo ideologico, la protesta sociale, la refrattarietà all’omogeneità dei costumi e delle mode imperanti produce isolamento, discriminazione, persecuzione; da sorvegliare e punire, come ci ha insegnato Foucault, e come ben ha sperimentato sulla sua pelle Victor Serge.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 giugno 2023

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SERRAGNOLI

FRANCESCA SERRAGNOLI, LA QUASI NOTTE – MC, MILANO 2020

Francesca Serragnoli (Bologna 1972), con La quasi notte è al suo quarto libro di versi, tutti orientati a esplorare l’interiorità con discrezione e coerenza, nel rispetto dovuto alla parola poetica, che pretende pulizia formale e densità di contenuti. Le cinque sezioni in cui si articola il volume si misurano con un’ansia che definire religiosa è forse eccessivo, ma certamente pare circoscrivibile entro una dimensione di ricerca spirituale, non sempre rasserenante e risolta, e invece rasentante i bordi dell’incertezza, del rovello e dell’inquietudine.

Nella scrittura della poetessa si addensano infatti intensità e rarefazione, sobrietà e desiderio di svelamento, oscurità e trasparenza. L’evidente tensione metafisica, oggettivata in una terminologia che rimanda al credo cristiano (la croce, il calice, la lancia, la comunione, le reliquie, il costato da cui escono acqua e sangue) e il richiamo costante a una presenza divina, velata e non sempre paterna, si scontrano con una forte materialità fisica, evidente nell’accumulo di termini appartenenti al corpo: mani, dita, piedi, ginocchi, gola, lingua, bocca, cuore, scheletro, viscere, volto, occhi. Gli occhi, soprattutto, e lo sguardo, e l’atto di guardare, tornano ossessivamente in molte composizioni della raccolta, ad accentuarne l’aspetto simbolicamente visionario, di un’apertura e di una repentina e quasi impaurita chiusura sul mondo circostante (“l’occhio spalancato senza vita, / senza morte”, “gli occhi spaccati in due”, “occhi impietriti”, “occhi bassi”). Ascesi e caduta, volo e precipizio si alternano nelle pagine, utilizzando metafore indicanti rinuncia, angoscia, solitudine e sgomento, a cui si oppone una tenue ma tenace speranza di salvezza, di resurrezione.

Formalmente, la sintassi nominale e paratattica evita qualsiasi subordinata, nega a se stessa l’addolcimento delle rime, giustappone versi in apparenza slegati tra loro, procedendo per associazioni visive, correlazioni sonore, o allusioni volutamente ambigue: “M’ammazza e mi sfiora / il bucato è fiamma / lino che separa i pianeti / sventola il gingillo di una catastrofe // fra me e te muove un violino / la bufera è quasi un tango / la mano ferma sulla schiena / la vita ribaltata il volto in giù”.

Un’alterità è presente, quasi un’ombra, a cui la poetessa si rivolge con un sommesso rimprovero, lamentando lontananza, incomprensione, forse indifferenza (“Che tu mi voglia bene / è un precipizio levigato”), mentre più consolante è il frequente appello a figure infantili, ai bambini simbolo di innocenza e disinteressato affetto, osservati da lontano, con nostalgia.

La tentazione ultima è la resa, l’abbandono al sonno della notte, che tuttavia non è mai completamente buia, è – come sottolinea il titolo della raccolta – una “quasi notte”, a cui si oppone un’unica vivifica verità: la salvezza promessa dalla poesia. Negli Appunti sparsi che concludono il volume, Francesca Serragnoli dichiara apertamente e orgogliosamente la sua fede nella bellezza e nell’arte: “L’arte è oltre. Non è scavalcare lo steccato, è passarci dentro… Se serve a muovere l’uomo da se stesso, ad alzarlo alla vita, a scorgere una terra promessa, allora è consentito scrivere, lasciare che le cose diventino passi, che la bellezza appunto strappi dalla disperazione umana, ci sollevi nella corrente di una destinazione e non ci lasci ad annaffiare ciò che muore e che ha altrove la sua fioritura eterna”.

Scrivere per non lasciarsi sopraffare dall’oscurità, per continuare a credere nel chiarore dell’alba.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-quasi-notte-Serragnoli    31 agosto 2021

 

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SERRES

MICHEL SERRES, CONTRO I BEI TEMPI ANDATI – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2018

Prossimo ormai ai novant’anni, il filosofo francese Michel Serres continua a stupire il mondo con la sua saggistica vivace, piena di entusiasmo e ottimismo, aperta ad ogni rivoluzionaria scoperta scientifica e tecnica, solidale con le giovani generazioni che abitano il virtuale. Decisamente favorevole alla “civiltà dell’accesso”, ama presentarsi come strenuo difensore di Internet e di Wikipedia, e di qualsiasi nuova modalità di espressione nella scrittura, nel linguaggio parlato, nell’arte, per una cultura finalmente accessibile a chiunque, in ogni luogo, senza barriere e pedanteschi paludamenti. Nato ad Agen nel 1930, figlio di un conduttore di chiatte, studiò all’École Navale e  all’École Normale Supérieure, impiegandosi come ufficiale di marina prima di ottenere il dottorato in filosofia nel 1968 e cominciare ad insegnare a Parigi. I suoi studi scientifici e di linguistica furono da subito orientati eticamente verso la critica di ogni bellicismo e potere reazionario, valorizzati da scambi e reciproche influenze tra i diversi saperi e discipline. Membro dell’Académie Française dal 1990, è oggi considerato uno degli intellettuali più rappresentativi e dei teorici più stimolanti nel suo approcciarsi criticamente e in modo divulgativo alla cultura contemporanea. In Italia quasi tutti i suoi lavori, espressi in una lingua lineare e accattivante, sono stati pubblicati da Bollati Boringhieri. Si tratta in genere di pamphlet scritti per un pubblico non specialistico, con l’ambizione di contestare pregiudizi radicati nelle coscienze e nell’immaginario collettivo, e di provocare nei lettori curiosità, domande e contestazioni, sempre da lui considerate proficue e necessarie.

In un volumetto uscito nel 2013, Non è un mondo per vecchi, si augurava la nascita di una società “nuova, variabile, mobile, fluttuante, variopinta, tigrata, cangiante, intarsiata, musiva, musicale, caleidoscopica…” e soprattutto “connessa”, in grado di occupare spazi orizzontali di vicinanza simultanea e democratica, offrendo risposte adeguate alle aspettative dei giovani in ambito scolastico, professionale e di utilizzo del tempo libero. Se in pochi decenni si è trasformato clamorosamente e irreversibilmente il nostro modo di vivere occidentale (boom demografico ed economico, libertà sessuale, longevità, multiculturalismo, progresso scientifico e tecnologico, aumento dell’istruzione e della ricchezza pro capite, assenza di conflitti bellici), è doveroso ideare nuovi metodi di trasmissione della conoscenza, di fare politica, di lavorare e di comunicare. Bisogna sconvolgere, rendere permeabile e disordinata ogni forma antiquata di pedagogia. “L’era dei decisori è finita… il solo atto intellettuale autentico è l’invenzione”. C’è un rischio in questa rivoluzione culturale che rende ciascuno più libero, indipendente, attivo e creativo? Certo, e Serres ne è ben consapevole: esiste una “presunzione di competenza”, che può illudere chiunque sulle proprie capacità intellettuali o artistiche, rinsaldando alla fine e nuovamente il sapere nelle mani dei soliti, pochi, manovratori. Ma è un rischio che vale la pena di correre, perché il passato va superato e vinto, anche di fronte alla prospettiva di un futuro ancora nebuloso.

Nell’ultimo saggio da poco pubblicato, Contro i bei tempi andati, l’autore sconfessa e ridicolizza senza remissione chiunque deprechi il presente in nome degli anni “di prima, di una volta”, rivisitati ed edulcorati con ipocrita nostalgia. I trentatré paragrafi di cui si compone il testo hanno due referenti immaginari: un Vecchio Brontolone, arcigno denigratore del tempo presente, e Pollicina, ragazza “disoccupata o stagista” che nel suo smartphone, ossessivamente consultato, contiene tutto il sapere del mondo. Serres prende chiaramente posizione a favore di quest’ultima, sottolineando quanto la storia, la civiltà e la cultura dei secoli scorsi, fino a buona parte del ’900, abbia prodotto di negativo e crudele nella vita degli individui (guerre, eccidi, dittature, torture, epidemie infettive, oscurantismo, retorica patriottica, razzismo e sessimo). Lo fa con cognizione di causa, avendo vissuto un’infanzia e una giovinezza tormentata da povertà e fame, da bombardamenti e persecuzioni, da tabù ed emarginazione: si sofferma a descrivere i suoi primi vent’anni, vissuti in una famiglia operaia sulle rive della Garonna, lavorando nei campi o nei cantieri navali per pagarsi gli studi.  Elenca quindi una serie di disagi e difficoltà concrete che le popolazioni a cavallo tra le due guerre mondiali dovevano patire, tra scarsissima igiene, malattie malcurate, sessualità inibita, ignoranza e superstizioni, comunicazioni precarie, lavori domestici faticosi, totale assenza di ammortizzatori sociali. L’ovvia commozione nel ricordare “i bei tempi andati” è corretta da una bonaria ironia e da un sorriso di compatimento, nel ribadire a chi afferma che si stava meglio quando si stava peggio una verità scontata e incontrovertibile: quando si stava peggio, si stava davvero peggio.

© Riproduzione riservata                «Il Pickwick», 14 giugno 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

SESBOUE’

BERNARD SESBOUÉ, LO SPIRITO SENZA VOLTO E SENZA VOCE – SAN PAOLO, MILANO 2010

Queste pagine del teologo francese Bernard Sesboué presentano un breve excursus storico sugli sviluppi della teologia dello Spirito Santo nella Chiesa: terza Persona della Trinità, la più enigmatica e incompresa, quella a cui meno si rivolgono i fedeli nelle loro preghiere. Il termine greco Pneuma è neutro, quello ebraico Rùah è femminile, Spiritus latino è maschile; molte sono le ambivalenze anche nelle sue rappresentazioni metaforiche: vento, acqua, fuoco, luce, potenza, soffio, colomba, dono, ecc. L’evangelista che ne parla più diffusamente è senz’altro Giovanni, indicandolo come “intercessore” comparabile a Gesù stesso. Eppure, riesce difficile definirlo come “persona”, al pari del Padre e del Figlio: perché è senza volto e non parla, non rappresenta un Tu, ma rimane un Egli. Si manifesta sotto la forma di lingue di fuoco, come visualizzazione teofanica: tace, ma fa parlare gli uomini che ispira, gli apostoli, i profeti, i Padri della Chiesa. Non va cercato di fronte a noi, ma dentro di noi. “Deus intimior intimo meo”, come scriveva Agostino: metapersona che agisce nella profondità del soggetto umano. Bernard Sesboué analizza la storia dello Spirito Santo nella tradizione ecclesiale antica (Atanasio ,Basilio, Gregorio di Nazianzo fino a Cirillo) e nel medioevo, soprattutto soffermandosi sulla riflessione di Tommaso D’Aquino. Ma le pagine più interessanti risultano ovviamente quelle dedicate alla teologia recente, con la speculazione profonda di K.Rahner sulla presenza trascendentale dello Spirito, e di Von Balthasar, che indica nella Terza Persona “l’esegeta” di Dio e del Cristo, colui che non aggiunge nulla all’insegnamento divino, ma lo interpreta e lo fa comprendere. “E’ libero e rende liberi”, non va interpretato tanto nel suo “partire da” le altre due Persone, quanto nel suo “verso”, nell’amore reciproco del Padre e del Figlio, che può essere colto solo nei suoi effetti. Ma la definizione più originale dello Spirito rimane proprio quella di Sesboué : “E’ il nostro inconscio spirituale”.

IBS, 13 MARZO 2012

RECENSIONI

SEUSS

DIANE SEUSS, LA RAGAZZA DALLE QUATTRO GAMBE – ENSEMBLE, ROMA 2021

Premio Pulitzer 2022 per la poesia, la statunitense Diane Seuss è stata pubblicata per la prima volta in Italia dalla casa editrice romana Ensemble, con il volume La ragazza dalle quattro gambe. L’introduzione di Alessandra Bava, che ne ha curato la traduzione insieme a Maria Adelaide Basile, parla esplicitamente per questo testo di “invenzione    di una nuova forma poetica americana”. La poeta stessa ha infatti coniato per la propria scrittura l’espressione freaking form, intendendo con ciò di aver voluto “apprendere forme tradizionali per usurparle, rovesciarle, riutilizzarle”, facendo dei suoi versi una sorta di scherzo di natura.

E agli scherzi di natura, alle deformità, ai deragliamenti da regole e consuetudini è dedicata anche la presente raccolta, il cui titolo rimanda all’infelice figura di Myrtle Corbin, nata nel 1868 e affetta da dipigo, il cui corpo terminava con due bacini e quattro gambe. Diventata nel 1913 una delle attrazioni più celebri del Circo Barnum, a lei è dedicato il testo conclusivo del libro (Is there still a Betty in this new life?): “Per aver visto lungo la strada per Ramptown, le gambe in più penzolare / inutili tra le cosce delle altre due, inutili come un usignolo / meccanico, inutili come la frangia del tuo kimono transilvano, / cantai sottovoce // … le tue gambe non erano petali o viticci come avevo creduto,     // ma sfrontate, i tentacoli aberranti sotto la veste di una regina segreta”.

Nata in una small town del Michigan nel 1956, rimasta orfana di padre a sette anni, dopo il liceo Diane si trasferisce a New York, lavorando come segretaria e scrivendo romanzi rosa e pornografici per mantenersi. Si introduce nello spietato mondo artistico della metropoli, unendosi agli adepti di William Burroughs e Andy Warhol. Alla morte del suo compagno per overdose, torna a vivere nel Midwest, si laurea in Scienze Sociali presso il Kalamazoo College, dove continuerà a insegnare scrittura creativa per trent’anni.

L’ambiente sociale in cui ambienta i suoi versi è quello miserevole dell’infanzia, con strade sterrate, paludi infestate da cicale, paesi semideserti, pochi negozi, qualche pollaio e la morte che si aggira tra imprese di pompe funebri e cimiteri. La sua adesione anti-intellettualistica al mondo degli emarginati deriva da una concreta esperienza esistenziale, come afferma in una orgogliosa dichiarazione di poetica: “Ritengo che il mio lavoro possa essere definito come punk rurale. Emerge dagli spazi rurali alla ricerca della durezza, della stranezza, dell’assurdità, della tigliosità, della rabbia e del dolore di ogni cosa in contrapposizione alla rusticità. La ruralità non è meno punk dell’urbanità. La mia estetica è quella delle carcasse di animali investite. Dei fantasmi che fumano sigari lungo le sponde del fiume”.

La campagna, infatti, fa da sfondo alla maggior parte delle composizioni, mantenendo nel suo rivelarsi qualcosa di minaccioso e di putrido, persino nella sua colorata e lussureggiante fertilità: “nella merda di falco, nella borragine, nel crescione, / nella licnide, nella vite americana, nella fitolacca, nella phryma, nel convolvolo, /  nel trifoglio e nel fiore di caprifoglio, bianco come osso bollito”, “Gli iris si alzano su steli carnosi, / i boccioli ancora avvolti in qualcosa di simile a cartine, / il viola che passa attraverso, il colore delle viscere”, “Qui, a metà maggio,  passato il fiore degli anni, / i tulipani ingialliti e spampanati come cose trascinate a riva, / e le ragazzacce si sono tolte gli abiti da sposa, hanno fatto ricadere le tette, / hanno allentato i loro strascichi. La bellezza era un fardello, dopo tutto, / non è vero?”, “Ricordi quella primavera? La brezza odorava di preparato per torte / e di un certo non so che di sodomia nell’aria. Forse era la spirea, / che olezzava di spermatozoi e detersivo al pino”.

Dalla desolazione campestre del Michigan, ancora più squallida negli interni domestici, al feroce abbruttimento del periodo newyorkese, Diane Seuss sembra non volersi risparmiare nulla in infelicità e abiezione: a sfregio di ogni facile e privilegiato perbenismo, sceglie l’abisso, il degrado, e la provocazione diventa per lei bandiera.  Il rifiuto riguarda ogni cosa, dalla banda degli amici punk all’intellettualità di moda, dalla maternità alla religione (“Dio ha persino il voltastomaco per le preghiere / dei credenti. Sono sudaticce e ampollose, / non come stalker ma come guardoni, che propendono / all’introversione e alla balbuzie”). Soprattutto respinge l’idea di morte, dopo che quella paterna ha tormentato il suo immaginario infantile, lasciando in lei cicatrici indelebili: “i tumori di mio padre / sbocciavano come i palloncini nei cartoni animati”, “quando / ero bambina, la bara nera di mio padre mi ricordava // un piano. Un piano senza tasti. Ero abbastanza / giovane da credere che fingesse di essere morto / e i miei // incubi erano colmi della sua strana resurrezione, / braccia cariche di gigli bianchi”.

Finché, per salvarsi, decide di anestetizzarsi, cementandosi: “Non c’era sollievo a essere / umana e così mi trasformai in pietra   / e ora non provo sollievo / a essere una pietra. Non / ho scelto di essere pietra”.

Nella postfazione, Maria Adelaide Basile insiste giustamente sullo stile immaginoso delle frequenti metafore usate da Diane Seuss, sempre visivamente plastiche, mescolanti realtà e magia, storia e affabulazione. Le immagini che ci scorrono sotto gli occhi sono nitide e oniricamente svianti, nel loro variopinto anarchismo, capaci di suscitare inconciliabile rabbia, e umanissima pena.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 maggio 2022

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SEVERINO

EMANUELE SEVERINO, IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI – RIZZOLI, MILANO 2011

Da quanto scrive il filosofo Emanuele Severino in  Il mio ricordo degli eterni, ricordare è alterare, errare: «È una parte del grande sogno in cui il mondo esiste». E questa sua autobiografia risulta, quindi, un errore: «Trapelano, in queste mie pagine, vanità e puerilità»,messaggi che allontanano dalla verità, addirittura nella falsità dello stile: «Ho nostalgia del linguaggio pesante e duro dei miei scritti».

E ancora: «Pubblicare un’autobiografia è dar confidenza al prossimo. Che a volte la merita, altre no». Ma non sempre chi legge la narrazione di una vita altrui lo fa per banale curiosità: a volte può sperare in un’illuminazione, desidera imparare dall’esistenza di un Maestro. Ecco che allora la vita di un filosofo può risultare davvero un insegnamento, non solo nei particolari biografici (la famiglia d’origine, siculo-bresciana, con il padre ufficiale dei bersaglieri e poi bancario; un fratello maggiore morto in guerra; la moglie amatissima, conosciuta a sedici anni e sposata a ventidue; due figli, e un’intera esistenza dedicata alla ricerca, allo studio, all’insegnamento universitario).
Non solo, quindi, nelle vicende della quotidianità: l’amore per la musica e per la letteratura (soprattutto Leopardi e i tragici greci), gli incontri con i grandi pensatori italiani ed europei (Gadamer e Levinas tra gli altri), le polemiche e gli scontri ideologici con altre teorie filosofiche (tra cui, fondamentale, quella con le gerarchie della Chiesa), i viaggi.

Ma essenzialmente nelle graduali conquiste filosofiche, nell’avvicinarsi al nucleo tematico del suo pensiero: l’oltrepassamento del nichilismo, inteso come “alienazione essenziale”, secondo cui le cose vengono dal nulla e vi ritornano; la critica al cristianesimo, al capitalismo, al tecnicismo; l’approfondimento di parole chiave (l’incontrovertibile, il rimedio e il riparo). E in particolare la sua tesi più originale e discussa, ma inevitabilmente più affascinante: l’eternità di tutti gli essenti, per cui «se tutto è eterno, tutto è legato a tutto, sì che, se un filo d’erba non fosse, nulla sarebbe».

Perché «ciò che se ne va scompare per un poco. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare».

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/mio-ricordo-eterni-Severino.html     10 giugno 2016

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