ANNEMARIE SCHWARZENBACH, OGNI COSA E’ DA LEI ILLUMINATA
IL SAGGIATORE, Milano 2012
La casa editrice milanese Il Saggiatore rifonda dopo più di cinquant’anni l’elegante collana di narrativa breve e saggi Le Silerchie, e tra i primi volumi proposti offre ai lettori un racconto del 1929 di Annemarie Schwarzenbach. Nata a Zurigo nel 1908 e morta nel 1942, la Schwarzenbach fu scrittrice anticonformista e ribelle, omosessuale e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia europea. In questo racconto ambientato nel fantastico e ovattato ambiente degli hotel di lusso engadinesi, in ristoranti frequentati da raffinati e danarosi clienti provenienti da tutto il mondo, su piste da sci e da pattinaggio curate maniacalmente, in bar esclusivi animati dalla musica di orchestrine jazz, la giovanissima Annemarie descrive l’incontro folgorante, addirittura devastante con una misteriosa e seducente signora.
«Di fronte a me c’è una donna, indossa un cappotto bianco, il suo viso è abbronzato sotto una capigliatura scura, pettinata all’indietro con rudezza maschile, rimango colpita dalla forza, bella e luminosa del suo sguardo, e ora ci incontriamo, per lo spazio di un secondo, e provo l’irresistibile impulso di avvicinarmi a lei, un impulso ancora più aspro e doloroso di seguire l’immenso ignoto che si desta in me come un desiderio ardente e un invito».
«Vedere una donna» (Eine Frau zu sehen): con queste tre parole inizia la narrazione, quasi a indicare una rivelazione, l’illuminazione di un’anima «solo per un secondo, solo nel breve spazio di uno sguardo… come se dovessimo incontrarci sulla soglia dell’ignoto, questa frontiera oscura e malinconica della coscienza». L’incontro avvenuto in ascensore avrà ovviamente un suo seguito, quando la giovane scrittrice deciderà di seguire il suo «diritto al desiderio». Il manoscritto originale di questo diario sentimentale è rimasto fino al 2007 presso l’Archivio svizzero di letteratura di Berna, dove è stato recuperato, trascritto e riordinato dalla nipote dell’autrice, Alexis Schwarzenbach, che di questo volume scrive la postfazione.
MARCEL SCHWOB, VITE IMMAGINARIE – STAMPA ALTERNATIVA, 1995
Corredato da splendide illustrazioni a colori dell’artista déco George Barbier, questa edizione delle Vite immaginarie di Marcel Schwob ha riproposto, a quasi cento anni dalla prima uscita, le ventidue esistenze (concrete e magiche insieme, storiche e fantastiche) di uomini e donne trasferiti dalla realtà al mito, e così eternizzati attraverso una scrittura elegante e classica, sobria e intensa, capace di resistere all’usura del tempo. Racconti che contrappongono (come intuisce giustamente Omar Austin nella prefazione) “una sostanziale fedeltà alla tradizione… al gusto di prendere in contropiede l’esattezza storica”, perseguendo “l’emblematico e l’irripetibile, un che di astratto e bidimensionale, voluto e consapevole”. I personaggi raccontati appartengono per lo più a un passato remoto: Empedocle (“figlio di se stesso”), Erostrato (“iracondo e vergine”), Cratete (“non si curava di nulla”), Lucrezio (“contemplò l’immenso formicolio dell’universo”), Clodia (“bella e ardente”), Petronio (“piccolo, scuro di pelle e guercio da un occhio”). Alcuni sono medievali: Fra Dolcino eretico (“un ignorante mosso dalla violenza”), Cecco Angiolieri (“povero e nudo come il lastricato d’una chiesa”). E poi pittori, soldati, meretrici, attori. Infine protagonisti di fiabe, come Pocahontas (“Aveva il viso assottigliato, zigomi stretti e grandi, dolcissimi occhi”), o diversi terribili e inconcludenti pirati. Raccontandoli, Schwob ci descrive particolari fisici e morali trascurabili, facendoli subito diventare essenziali e rivelatori, riuscendo a fare dell’effimero qualcosa di sostanziale e necessario. I disegni dai colori pastosi di Barbier accompagnano i testi con aderente creatività, con allusiva e discreta ironia. Un libro da conservare gelosamente.
LEONARDO SCIASCIA, UNA STORIA SEMPLICE – ADELPHI, MILANO 1989
Una storia semplice è l’ultimo volume dato alle stampe da Leonardo Sciascia prima della sua scomparsa: uscito da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca. Si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, nella più schietta tradizione narrativa dello scrittore siciliano. Semplice la vicenda raccontata non pare davvero: semmai esemplare, elementarmente basata più su fatti concreti che su interpretazioni fittizie, più su dati immodificabili che su illazioni moralistiche. Fedele allo stile dell’ultimo Sciascia, poco propenso ormai alla denuncia e all’indignazione civile, la storia si commenta e si condanna da sé: c’è un morto scomodo, che la polizia vorrebbe far passare per suicida; c’è una villa abbandonata di cui sconosciuti si servono per la preparazione e lo spaccio di droga; c’è il consueto scontro tra carabinieri e polizia, l’assoluto disinteresse per la ricerca della verità, il desiderio di non approfondire questioni ambigue o pericolose da parte dell’autorità giudiziaria. Tutto questo, ma anche una vicenda che nelle ultime quindici pagine assume contorni sempre più inquietanti e scandalosi, con i vertici della polizia e personaggi della chiesa coinvolti totalmente e colpevolmente nel caso; il protagonista, allora, diventa l’eroe buono, l’unico a cui la società può affidare la sua sacrosanta volontà di punizione e redenzione: il brigadiere Antonio Lagandara reagisce alla corruzione che lo circonda uccidendo il commissario in capo, rivelatosi responsabile degli avvenimenti. Per ironia o dramma della sorte, questa uccisione non apre la strada ad ulteriori approfondimenti, non riesce a scuotere le coscienze addormentate dei cittadini, ma viene archiviata come “accidentale” e la “storia semplice” viene ricondotta alla sua banalità quotidiana e inoffensiva. Bocca amara, quindi, per il lettore, cui non resta che cercare tra le scarne pagine affidate ad una severa, essenziale prosa, qualche traccia della sofferenza dignitosa dell’autore che si sapeva condannato, non solo dal suo male, ma forse anche dalla storia della sua Sicilia. Un accenno alla malattia: «…ma il professore aveva, proprio quel pomeriggio, da fare la propria e inalienabile dialisi, pena per giorni l’intossicata immobilità». La consapevolezza che spesso sta più in alto chi ne è meno degno: «Il magistrato scoppiò a ridere. -L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è stato poi un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…- . – L’italiano non è l’italiano: è il ragionare – disse il professore. – Con meno italiano, lei sarebbe forse più in alto-». Infine, la più lapidaria delle constatazioni, la più tragicamente laica: «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».
Con lo pseudonimo di Scipione, Gino Bonichi (Macerata, 25 febbraio1904–Arco, 9 novembre1933), si fece conoscere come uno dei più importanti pittori della Scuola Romana (detta anche di Via Cavour), movimento espressionista che si opponeva al conservatorismo, al neoclassicismo e alla retorica fascista dominanti tra gli anni ’20 e ’30, rappresentati principalmente dal gruppo Novecento.Trasferitosi a Roma dalle Marche ancora bambino, nell’adolescenza si ammalò di tubercolosi, per cui rimase ricoverato in sanatorio fino al 1924. In quell’anno, iscrittosi all’Accademia di Belle Arti, conobbe Mario Mafai, con cui strinse un fruttuoso sodalizio professionale e di amicizia. Insieme a lui, a Renato Marino Mazzacurati e ad Antonietta Raphael, fondò quindi nel 1928 la corrente della Scuola Romana, di cui oggi troviamo ampia e documentata rappresentazione al secondo piano del Casino Nobile del Museo di Villa Torlonia. La vena fantastica e visionaria della pittura di Scipione si espresse soprattutto in noti capolavori, quali il Risveglio della Bionda Sirena (1929) e il Ritratto del Cardinale Decano (1930), in alcune nature morte e in molte vedute romane, barocche e decadenti, dipinte con tratti nervosi e allucinati, i cui colori scuri evidenziano il senso di oppressione provocatogli dal riacutizzarsi della sua malattia, che lo uccise a 29 anni.
Oltreché pittore, Scipione fu anche disegnatore, critico d’arte e poeta. Suoi versi, con il titolo Carte Segrete, furono pubblicati per la prima volta da Vallecchi nel 1943. In seguito Einaudi li raccolse in volume nel 1982 e poi nel 1997, con prefazione di Amelia Rosselli, insieme a brani di diario, prose, lettere e frammenti sparsi in varie riviste e in libri difficilmente reperibili. Le poesie antologizzate nel libro einaudiano sono solo dieci; molto più numerose le lettere (a Enrico Falqui, soprattutto, che fu grande estimatore della sua scrittura, e ne incoraggiò a più riprese la diffusione; al poeta Libero De Libero, al pittore Mazzacurati, a un misterioso Reverendo e al fratello Goffredo), e gli appunti diaristici. Vengono riportati anche un breve saggio sulla pittura del Greco, e una prosa naturalistica. Dei versi, Amelia Rosselli scrive: “Le sue poesie si allontanano di gran lunga dall’esacerbata descrizione d’una Roma decadente e cattolica, impregnata di rossori mortuari e stravolti. La sua poesia è calma, candida, sensoria sì, quasi più dei quadri, ma in essa v’è una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale e difficilmente classificabile… Di estasi religiosa e di carne e di morte parlano le poesie senza che l’irrequietezza mistico-tragica, e disperatamente distruttiva, che è evidente nei quadri, traspaia”.
Di pacatezza malinconica e rassegnata, in verità, si può parlare forse solo per l’ultima poesia, immersa in una visione agreste probabilmente da riferirsi all’anno che Scipione trascorse convalescente in Ciociaria, a Collepardo, nel 1929: ma anche qui con un’evidente premonizione angosciosa di morte, e un fremito timoroso di abbandono: «Alla calata del sole una pecora / ha fatto un agnello. / È uscito tutto di lana, col sangue / il cuore la voce. / Gli uomini sbucano fuori / e se ne vanno via, / gli alberi aspettano il buio / per ignorarsi, / le erbe odorose si mettono / in cammino. / Le civette gridano, tutto si muove / e l’angoscia riempie l’aria / di inquietudine». In uno stile semplicissimo, lontano da qualsiasi barocchismo o pomposità dannunziana, così come dalla tonalità franta del primo Ungaretti, Scipione rende animato il paesaggio naturale, attribuendogli sentimenti e movimenti umani, in un’atmosfera panica di turbamento e mistero.
Più scabra e severa appare invece la poesia di apertura, Estate, anch’essa carica di immagini naturali (terra, sole, stelle, lucertole, grilli…), quasi visionariamente abbacinate, e patite con un’empatia fraterna e impietosita: «La terra è secca, ha sete / e si spacca. / Sui labbri dei crepacci / le lucertole arroventate / corrono in fiamme. // … La terra è secca, ha sete / e la notte è nera e perversa. / Cristo, dalle da bere, / ché vuol peccare / e farsi perdonare».
I colori ci sono, in queste poesie di Scipione, che evidentemente non si dimenticava di essere soprattutto un pittore: non solo i rosso-scuro e i neri dei suoi paesaggi romani, ma anche i gialli e gli ocra della terra bruciata dalla canicola, il verde dei campi, il blu di notti stellate. E c’è movimento, di carne umana e di sussulti animali, in una fisicità totale poco innocente, gravata come da una colpa: «Mise le mani per terra ed era simile / ad una bestia. / La terra ha tutti i nascondigli, / gli scarabei ronzano nell’aria. / La testa alla radice dei capelli brucia, / le spalle si aprono, le viscere si commuovono».
E ancora: «Gli odori colpiscono le narici, / le mani s’alzano a cercare / per toccare le cose create: / la pietra è fredda ‒ la carne è calda / e trascina intorno un fiato / che confonde la terra con il cielo».
Poi di nuovo: «Un uomo nudo cammina: / è bianco come un albero senza corteccia / e tutte le cose create vogliono toccarlo. / E lui taglierà gli alberi / dopo aver goduto della loro frescura, / prenderà i pesci del fiume, / gli uccelli che volano. / Nell’aria c’è il fuoco, / il tuono scoppia / e la folgore scrive nel cielo / il carattere di Dio. / Il timore, il timore di lui / spezza il corpo nell’adorazione».
Aveva ragione Amelia Rosselli quando scriveva dell’intensa religiosità percepibile in questi versi, nutrita forse di letture bibliche, e soprattutto dell’Apocalisse. Ma le divinità che governano il mondo allucinato di Scipione sembrano del tutto paganeggianti, faunesche, riecheggiando semmai le metamorfosi ovidiane, come in questa bellissima composizione con cui desidero chiudere la mia breve rassegna della poesia di questo sfortunato e quasi dimenticato artista:
Coro d’estate
«Io sono la voce dell’albero che cade, / la mia corteccia sarà accarezzata / quando si vedrà che dentro sono bianco. / Le mie radici sono d’avorio e sono / nascoste ‒ la terra fine le ricopre. / Il mio corpo è rotondo, / l’aria sola mi toccava. / Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami, / i loro occhi vedevano tutte le mie braccia, / le foglie li nascondevano. / Sotto di me l’uomo si è riposato. / Io sono la voce del fanciullo, / le mie osse sono tenere e possono cadere / e non si romperanno. / Le mie gambe corrono, i miei piedi / non lasciano impronta. / Il timbro della mia voce somiglia / alla campana del mattino, / al bronzo leggero».
CARL SEELIG, PASSEGGIATE CON ROBERT WALSER – ADELPHI, 1981
Robert Walser, scittore svizzero nato nel 1878, fu ricoverato in una clinica per malattie mentali nel 1929, e vi rimase fino alla morte, avvenuta nel 1956. Il suo disturbo psichico non fu mai diagnosticato con chiarezza: era probabilmente asociale, pativa di bruschi cambiamenti d’umore, talvolta si dimostrava aggressivo. Ma non risultò mai pericoloso, per se stesso o per gli altri: aveva un temperamento artistico squisitamente sensibile; in definitiva, era un poeta. Poco compreso dai suoi simili, poco sopportato dalla rigorosa società elvetica del primo 900. Per vent’anni il critico letterario Carl Seelig andò regolarmente a trovarlo in clinica, e si accompagnò a lui in lunghe passeggiate attraverso i boschi e le campagne dell’Appenzell, tra Herisau e San Gallo: in ogni stagione, con qualsiasi temperatura e situazione meteorologica. Le passeggiate compredevano non solo laute colazioni e pranzi in locande e osterie, innaffiati da buon vino e birra, e intervallati dal fumo di robusti sigari, ma soprattutto vivaci conversazioni di letteratura, con giudizi lucidissimi e trancianti che Walser esprimeva sia sugli scrittori più amati, sia su quelli a suo parere sopravvalutati. L’amore per i libri e per la cultura, i suoi stessi romanzi e racconti non erano bastati a farlo apprezzare dalla società letteraria: “Non aveva mai voluto far parte delle chiesuole…il divismo…gli dava semplicemente la nausea: gli sembrava di degradare lo scrittore a lustrascarpe”. Insieme a Seelig, che fu generosissimo mecenate e curatore dei suoi scritti, Walser preferiva la compagnia della natura, dei greggi e delle mandrie, degli osti e dei contadini, o quella silenziosa e sofferente dei degenti della sua clinica. Morì durante una passeggiata il giorno di Natale, nella neve che tanto amava, lui che “si struggeva come un bambino per un mondo di quiete, di purezza e d’amore”.
GHIORGOS SEFERIS, LE POESIE – CROCETTI, MILANO 2017
L’editore Nicola Crocetti ha da poco pubblicato, curandone la traduzione, un’antologia di Ghiorgos Seferis, nato a Smirne nel 1900 e morto ad Atene nel 1972, quando vigeva la dittatura della Giunta dei colonnelli, a cui aveva saputo opporsi con dignitosa fermezza. Seferis fu autore prolifico di molte raccolte di versi, di prose diaristiche, di traduzioni e di saggistica, riuscendo a coniugare egregiamente il suo impegno intellettuale con l’attività diplomatica svolta ai massimi livelli, come console e ambasciatore in diversi paesi europei e mediorientali. I suoi volumi di versi coprono un quarantennio di produzione poetica, di cui l’attuale selezione fornisce un policromo ventaglio di stili e repertori, dal frammento al poemetto, dalla forma chiusa al tono colloquiale, proponendo in chiusura sia il discorso di accettazione del Premio Nobel del 1963, sia un’esaustiva nota biobibliografica.
Come ben sottolinea Nicola Gardini nella sua attenta prefazione, la poesia di Seferis «sembra la voce di tante voci», accoglie echi di esperienze formali e culturali diverse, dai classici greci al simbolismo europeo al modernismo di matrice eliotiana, con l’obiettivo di creare un’opera multiforme, liquida e mobile come il suo mare tanto decantato, non coriacea o monolitica, ma mobile e aperta, profonda e leggera insieme, ancorata al passato e proiettata nell’utopia di un riscatto futuro. Opera non ideologica, comunque, e nemmeno asfitticamente personalistica: la memoria drena ricordi collettivi, più che privati, e la nostalgia che pervade i suoi versi sa delinearsi come sentimento ed eredità universale.
«Non sento più alcun rumore / l’ultimo amico è sprofondato / strano come intorno tutto / ogni tanto si fa più basso / qui passano falciando / migliaia di mietitrici», «Questi volti e questi eventi ti seguivano / mentre svolgevi il filo per le reti da pesca sulla spiaggia / perfino quando navigavi col vento in poppa e guardavi la fossa delle onde; / in tutti i mari, in tutti i grembi / erano con te, erano la vita difficile e la gioia».
Il tempo, cosmico e individuale, crudelmente trasforma e cancella eventi e persone; la storia conosce progressi e involuzioni, produce massacri e promette liberazioni, imperscrutabile e inarrestabile nel suo cammino indifferente alle tragedie dei singoli: «Compagno, come siamo caduti in questo cunicolo di paura? / Non era scritto nel tuo destino, e neppure nel mio, / non abbiamo mai venduto o comprato merce simile; / chi è colui che comanda e uccide alle nostre spalle?», «perché abbiamo conosciuto così bene la nostra sorte / vagando tra pietre rotte, per tremila o seimila anni, / frugando in edifici diroccati che forse erano casa nostra, / tentando di ricordare date e gesta eroiche; ci riusciremo?».
Se la realtà e la storia rimangono indecifrabili, pur nella magnificenza delle loro impronte, naturali-mitiche-documentarie, forse solo la poesia può definirsi come rifugio e risposta, invito e cura, testimonianza e offerta. A lei, alla propria Musa, Ghiorgos Seferis dichiara la sua fede e il suo immutabile amore: «Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo coccio / il giorno, il nome, il luogo / e gettalo in mare perché affondi». E, se affonda, lo fa per tornare poi a galla, regalandoci luce, consolazione: «Ancora poco / e vedremo i mandorli fiorire / i marmi splendere al sole / il mare frangersi in onde; // ancora poco, / solleviamoci ancora un po’ più su».
VICTOR SEGALEN, THIBET – SMERILLIANA, VENEZIA 2025
Il poemetto Thibet, da poco uscito da Smerilliana con testo francese a fronte, è stato composto da Victor Segalen tra il 1917 e il 1919, ma pubblicato solamente nel 1979 presso i tipi di Mercure de France, in un’edizione critica curata da Michael Taylor.
Personaggio complesso, versatile e affascinante, il medico-archeologo-etnologo-romanziere-critico d’arte e poeta Victor Segalen (Brest 1878-Huelgoat, Finistère, 1919), si era laureato in medicina marittima a Bordeaux con una tesi sulle nevrosi nella letteratura contemporanea. Nel corso degli studi si era avvicinato alla poesia simbolista, frequentando una vasta cerchia di intellettuali e scrittori coevi, tra cui Joris-Karl Huysmans. Imbarcatosi per Tahiti nel 1902 come medico di bordo, si stabilì nell’isola per due anni, interessandosi alla pittura di Gauguin, e in seguito viaggiò a lungo, visitando Giappone, Birmania, Algeria e Cina, dove risiedette per molto tempo con moglie e figli. Appassionato di ogni aspetto della cultura orientale, studiò i miti polinesiani, il buddhismo e il sanscrito. Morì in circostanze misteriose a quarantuno anni, e il suo corpo dissanguato venne ritrovato in un bosco accanto a una copia dell’Amleto. Les immémoriaux, Stèles e Peintures sono le sue opere più famose.
Notizie più approfondite sulla sua avventurosa esistenza si possono leggere nell’argomentata e dotta prefazione di Raffella Poldelmengo, che ha curato anche la traduzione di Thibet insieme a Emanuela Turri, mettendo in luce le difficoltà di resa in italiano del testo francese, scritto in una lingua sonoramente visionaria, insofferente di regole sintattiche e prosodiche, e in grado di giostrare ambiguamente tra metafore e metonimie, con il frequente utilizzo di termini crudamente erotici. Poco accessibile in prima lettura nel suo significato letterale e simbolico, può risultare addirittura ostico nella forma, estranea alla misura razionale della grammatica europea, e vicina invece al modo di comporre orientale, più distesamente libero. A livello lessicale e sintattico, il lettore si trova di fronte a continue inversioni di genere, di numero, di ruoli tra soggetto e oggetto, a neologismi e arcaismi; nel ritmo, nell’uso ribadito delle rime, nella punteggiatura incalzante, pare evidente l’intento del poeta di accompagnare con la prosodia il cammino cadenzato dello scalatore che si inerpica tra le montagne tibetane, “marciatore insolito e sovraffaticato”. Di tale difficoltà interpretativa fu ben consapevole Jorge Luis Borges, che in un’intervista ebbe a dire dell’autore: “I francesi non sanno che in Victor Segalen hanno uno dei più intelligenti scrittori del nostro tempo, forse il solo ad aver realizzato un’innovativa sintesi tra estetica e filosofia occidentale e orientale? Si può leggere Segalen in meno di un mese, ma occorre il resto della vita per iniziare a comprenderlo”.
Thibet è composto da 58 sequenze, ciascuna di 18 versi alternativamente lunghi e brevi, che creano sulla pagina una sorta di disegno richiamante i calligrammi della scrittura cinese tanto ammirata dal poeta. Racconta un viaggio di illuminazione interiore e di ascensione spirituale, concepito a Pechino ma scritto nell’ultimo periodo di vita del poeta, che aveva per anni idealizzato il paese asiatico subendo il fascino del territorio e della sua lingua conosciuti tramite le parole dell’amico Charles Goustave Toussaint. Il testo è articolato in tre tappe: TO-BOD, il luogo raggiunto, LHA-SSA, il paese dove si arriverà, e infine PO-YOUL, la terra non raggiungibile. Questo “poema esaltante” riflette l’ammirato stupore dell’artista verso la purezza della natura percepita attraverso l’esaltazione del pensiero, una mappa geografica che non ha nulla di concreto, ma personifica terra e cielo in una creazione dello spirito: “Thibet, d’un balzo tu mi sei apparso, – mutato il mondo, – vergine immensa / Al di là dei monti del mio desiderio”.
Le vette irraggiungibili, i misteriosi silenzi, le acque rispecchianti la luce del sole, il canto sottile sussurrato dalle rocce si animano nei versi trasformando l’oggetto della poesia in un soggetto capace di autocrearsi: “Ma tu, Thibet, tu ti sei plasmato, innalzato sulla parte più forte di te stesso, /Eroe che atterra e che commuove: / Non vasaio ma poeta; e non artigiano ma poema / Non dal fuori ma dal dentro; / Dio statuario e dio che è sorto, forbice fuoco e roccia ardente”. Di questo paesaggio divinizzato, assolutizzato, Segalen si fa sciamano ed evocatore, interprete celebrante, investito di una missione rivelatrice e da rivelare: “Trattengo a due [mani] le mie ricchezze: i tuoi metalli e le tue pietre… i tuoi monti e laghi e rocce… // … La sequenza delle mie preziose parole, / La successione incastonata delle mie pietre, la caduta dei miei cristalli tintinnanti / E che, non spaventato dalla mia opera, / Piccolo, in basso, ma non cancellato, né troppo umiliato / Il mio nome come un conio sia nuovamente decifrato!” Lui, “mendicante dell’infinito” è uno dei tre protagonisti del poema, che si accompagna alla raffigurazione paesaggistica di un Thibet “inumano” in quanto aldilà dell’umano, e alla presenza-assenza di una Lei indecifrabile e arcana, divinità in continua camaleontica apparizione (“Lei è estrema, mio demone…// mia multiforme compagna”; “solitaria, penetrante e nuda”). Lei, l’Autre, che in francese definisce sia il maschile sia il femminile, è amante, dea e demone, vergine e vampira, incorporea eppure carnale, “concubina nello spirito e complice nella cosa”, sembianza universale del femminile che contemporaneamente salva e condanna, innalza e umilia.
Il poeta non si sottrae al fascino della terra e della donna, lo affronta vigorosamente, nella baldanza di un cammino che percorre i sentieri e si eleva tra le cime, tra fisicità e sublimazione, consapevole della forza dell’inno di gloria che sta componendo, e che lo renderà celebre agli occhi dell’umanità. Nella sua ascesi non fa spazio allo svuotamento interiore cui si appellano i mistici occidentali, ma rimane vigile e pronto a inverarsi proprio nella realtà della bellezza che lo circonda, come benissimo esplicita Raffaella Poldelmengo: “Un’ascesi tutta terrestre che, mentre va, annota i balenii di tutto ciò che si muove sulla superficie di Thibet, questo dio statuario e sempre nascente: le feste, le processioni, gli yak intrappolati nel ghiaccio, le fanciulle che appaiono e subito scompaiono simili a comete, i ponti aerei da superare, la fatica e la stanchezza conseguente, meravigliose compagne delle soste, l’ebbrezza del vino, le valli immacolate e inaccessibili dove fioriscono piante rarissime: insomma tutta una serie di epifanie in cui si sfrangia il Thibet”.
È proprio il Thibet, anche nella sua incarnazione muliebre, che si divinizza nei versi del poeta, e permane inconoscibile nella sua segreta sublimità, reso manifesto solo dal prodigio della parola poetica: “Io ti ho fatto, scoraggiato Pellegrino, l’Altitudine, il Simbolo, – il Dio”, “Possa io, io – nella tua grandezza scandire a colpi di reni / Questo inno in movimento, questo indomito dono, / Tributo che con slancio si inerpica a Te, il più alto dei paesi! / – Mio cuore, che pulsi in te ogni parola”. Orgogliosamente certo della sua funzione di vate del bello, Segalen demanda ai suoi versi il compito di auto-rivelarsi, di spiegarsi nel dispiegarsi canoro, chiamando anche il lettore a una complicità interpretativa: “Dov’è il suolo, dov’è il sito, dov’è il luogo, – il centro, Dov’è il paese promesso all’uomo? / Il viaggiatore viaggia e va… il veggente lo tiene sotto i propri occhi…”. Il veggente è diverso dagli altri viaggiatori, desiderosi di impossessarsi con spirito predone dell’anima tibetana: missionari gesuiti, conquistatori avidi di ricchezze, trafficanti e mercanti, disprezzati dalla stessa nobile Terra: “Le tue Potenze ridevano sopra le loro teste”. Se il cammino intrapreso tra cuore e mente non ha portato il poeta alla conquista della cima, irraggiungibile e intoccabile, ha ottenuto però di lasciare in eredità al mondo dei viventi la preziosità di un canto che rimarrà eterno: “– Se c’è qui un uomo, un solo uomo per scalare e lodare te, / Malgrado la spaventosa debolezza. / Fa’ allora, – o Thibet paziente, Thibet che subí le troppo numerose avanie / Che si ricordi questo canto, / Questo poema, da te solo e per te generato nelle sue sequenze, /Questo grido ritmato dalla tua potenza”.
Sia Raffaella Poldelmengo nella prefazione sia Mauro Francesco Minervino nella postfazione mettono in luce quale sia il merito culturale, oltre che letterario, del lavoro di Victor Segalen. Senz’altro l’aver acquisito, proposto e sottolineato, più di un secolo fa, una nuova accezione dell’ignoto, della differenza, di un mondo totalmente “altro” rispetto a quello occidentale, assetato di dominio economico e smanioso di progresso tecnologico, colonialista e bellicoso. Victor Segalen, osteggiato e tacciato di esotismo antieuropeo da scrittori come Paul Claudel, Saint John-Perse, Tzvetan Todorov, fu senz’altro uno spirito eccentrico, antimoderno, ribelle, ma del tutto privo di pregiudizi verso la diversità. Aveva trovato nell’incanto dell’Oriente l’origine favolosa della libertà dello spirito, la luce di una verità che, pur essendo basata su solide conoscenze antropologiche e etnografiche, viene resa più ricca e lungimirante dallo sguardo della poesia: “Io accetto di salire lassù a patto che nei Tempi delle risate beffarde / Si dica che la mia caduta fu bella”.
JOHN SELLARS, SETTE BREVI LEZIONI SULL’EPICUREISMO – EINAUDI, TORINO 2022
John Sellars, docente di Filosofia al Royal Holloway di Londra, è autore di alcuni bestsellers, tra cui The Art of Living. The Stoics on the Nature and Function of Philosophy, in cui invita i lettori, con prosa accattivante e di facile presa, ad affrontare la vita con la saggezza degli antichi. È stato uno dei fondatori di “Stoic Week”, evento globale con cadenza annuale, i cui partecipanti sono invitati a vivere come gli stoici per una settimana, per provare a migliorare la propria esistenza.
Einaudi ha pubblicato un esile volumetto, Sette brevi lezioni sull’epicureismo, che illustra con intento divulgativo il pensiero epicureo, oggetto di molti travisamenti e interpretazioni superficiali nel corso di duemila anni di storia. Con il termine epicureo, infatti, la vulgata popolare intende l’individuo che ama godersi la vita negli aspetti più materiali e grossolani, dal cibo al divertimento, dalla soddisfazione smodata di appetiti fisici a un’eccessiva autoindulgenza. Anche filosoficamente l’epicureismo è stato frequentemente demonizzato come dottrina pericolosa, corruttrice, da associare all’ateismo, all’immoralità, all’insaziabilità dei sensi.
Epicuro, nato e cresciuto nell’isola greca di Samo intorno alla metà del IV secolo a.C., aveva girovagato in diverse città dell’Asia Minore proponendo in lezioni pubbliche i suoi insegnamenti, non sempre accolti favorevolmente, per acquistare infine un terreno fuori dalle mura di Atene, chiamato il Giardino, in cui vivere con amici fedeli un’esistenza serena e autosufficiente. La sua comunità si mantenne rigogliosa per più di duecento anni, e il culto per il fondatore nei secoli successivi si diffuse ovunque, trovando numerosi allievi e prosecutori della sua dottrina, come Diogene e Filodemo in Grecia, e Lucrezio, Virgilio, Orazio a Roma.
Delle tre epistole di Epicuro che ci sono rimaste, la Lettera a Meneceo è la più famosa, poiché tratta di argomenti etici e, più in generale, di come vivere una vita buona e felice. In essa, la filosofia veniva indicata come rimedio terapeutico per ottenere la tranquillità, raggiungibile superando il duplice rischio dei desideri frustrati e dell’ansia per il futuro, rischio determinato dall’incapacità di osservare il reale funzionamento di ciò che ci circonda, e dal timore infondato di minacce inesistenti. Il superamento del dolore si ottiene, secondo Epicuro, attraverso il perseguimento del piacere, attivo (cinetico) e statico (catastematico), sia fisico che mentale: il piacere attivo ha il suo fine nel raggiungimento del piacere statico, in cui non si sentono più desideri incontrollati. Si mangia non tanto cedendo a un senso smodato di golosità, ma per appagare lo stimolo della fame, e raggiungere lo stato di non avere fame. Epicuro stesso viveva in maniera parca e morigerata, nutrendosi di pochi alimenti frugali. Sono però le sofferenze mentali e psicologiche, più che gli appetiti fisici, quelle che agitano maggiormente l’uomo. Se la soddisfazione dei piaceri del corpo è transitoria e facilmente dimenticabile, quella derivante da un godimento intellettuale (una bella conversazione tra amici, una lettura arricchente, una vacanza istruttiva) è invece fruttuosa e duratura. Ciò che si deve raggiungere per essere felici è quindi il benessere mentale statico: non essere ansiosi, preoccupati o spaventati da false paure e superstizioni, in particolare sugli dèi e sulla morte, che sono la sorgente principale del turbamento mentale, in modo da poter vivere sereni, “come un dio fra gli uomini”.
Per arrivare all’ataraxia, cioè alla tranquillità interiore, è necessario ridurre i bisogni all’essenziale, senza vivere assediati dall’avidità e dall’invidia verso il prossimo. I veri amici sono più necessari dei beni materiali, poiché non solo ci donano la gioia di una confortante compagnia, ma possono offrirci sostegno e consolazione nel momento del bisogno. È opportuno inoltre vivere in disparte, senza cedere alle lusinghe del successo e del prestigio politico e sociale. Se ci convinciamo del fatto che tutto l’esistente è composto da atomi, che si fondono insieme e poi si distaccano in movimenti casuali, non solo riusciremo a evitare le paure derivanti da false credenze scientifiche sulla natura, ma saremo disposti anche ad accettare la nostra inevitabile morte come un lungo sonno privo di sensazioni dolorose, e a superare il terrore degli dei, i quali non sono interessati alle vite individuali degli uomini: “Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dèi”.
Secondo Sellars, Epicuro insieme agli stoici Epitteto e Marco Aurelio è stato uno dei precursori della moderna psicoterapia cognitiva, perché ha insegnato a guarire dalle passioni dell’anima e a vivere con felicità il tempo che i è dato.
LUIS SEPULVEDA, IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE
GUANDA, MILANO 2016
Nel suo primo romanzo, Luis Sepulveda (1949-2020) raccontava di un’umanità che fronteggia il bene e il male incarnati in una natura lussureggiante, avvolgente e impietosa, all’interno della foresta amazzonica abitata dai nativi Shuar, sulle rive del fiume Nagaritza. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, pubblicato in Spagna nel 1989 e tradotto in Italia nel 1993, conobbe un successo mondiale e tuttora viene ristampato in diverse lingue.
Il romanzo si apre in maniera forte, con un memorabile capitolo di sentimenti violenti, sangue e
passioni politiche che si animano nel corso di una seduta dentistica sul molo di un villaggio
ecuadoriano, tutto mosche sudore umidità, per ironia della sorte chiamato El Idilio.
Il cavadenti è un anarchico rabbioso che applica ai suoi pazienti una curiosa anestesia orale, fatta di
imprecazioni, torture sanguinarie e sermoni politici: sue vittime gli indios, veloci nel ruotare
minacciosamente il machete, in grado di farsi togliere tutti i denti per scommessa, ma intimoriti e
ammirati come bambini davanti alle dentiere in mostra. Tra loro, il protagonista del romanzo, “un
vecchio dal corpo tutto nervi”, che tiene la protesi in tasca per non consularla, Antonio Josè Bolivar.
Non è un Suhar, è un bianco con un passato sfortunato di colono, che conosce la foresta come nessuno
e vive da solo in una capanna in cui ha sistemato la foto della moglie morta bambina, un’amaca e un
tavolo dalle gambe altissime. Qui appoggia, senza sedersi, i romanzi d’amore che gli presta il dentista,
e che legge compitando le parole a voce alta, affascinato da tradimenti e seduzioni, commosso dal
romanticume più trito. Nonostante questa unica “debolezza” sentimentale, Antonio Josè è un uomo
d’azione, e lo dimostra quando, durante la seduta dentistica, appare, trasportato dalla corrente, il
cadavere di un gringo dilaniato dagli artigli di un felino. Priva di incertezze è la diagnosi del vecchio:
lo scempio è stato compiuto dalla femmina di un tigrillo impazzita di dolore perché lo straniero le
aveva ammazzato i piccoli e ferito il compagno. Le autorità, temendo la furia omicida dell’animale,
affidano proprio ad Antonio Josè la sua cattura, che si articola nelle pagine attraverso varie e
appassionanti fasi, scandite in appostamenti, fughe, assalti, sempre più minacciosi e angoscianti.
La caccia al tigrillo è assurta a simbolo della lotta antica ed eterna tra uomo e animale: quest’ultino,
ancora una volta, coma la balena di Melville, come lo squalo di Hamingway, rappresenta la natura
ferita che si ribella, l’istinto mortificato che si vendica. Nel racconto assistiamo affascinati e impauriti
al trionfo della fisicità: sconquassi meteorologici, corpi lacerati in putrefazione, escrementi liquefatti
e il dominio brulicante degli animali, dalla zanzare alle scimmie ai pesci assassini.
Alla fine della lotta, sarà Antonio Josè a vincere, ma di una vittoria vergognosa, umiliante, perché
ottenuta con l’astuzia e con le armi:
“Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e dalla pioggia, spinse il corpo dell’animale fino alla riva del
fiume, e le acque se lo portarono via, verso l’interno della foresta, fino ai territori mai profanati
dell’uomo bianco, fino all’incontro col Rio delle Amazzoni, verso le rapide dove sarebbe stato
squarciato da pugnali di pietra, in salvo per sempre dalle bestie indegne. Gettò subito via con furia
la doppietta e la vide affondare senza gloria. Bestia di metallo odiata da tutte le creature.
Antonio Josè Bolivar Proano si tolse la dentiera, l’avvolse nel fazzoletto, e senza smettere di maledire
il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la
verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si
avviò verso El Idilio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole
così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.
PIERANGELO SEQUERI, INTORNO A DIO – LA SCUOLA, BRESCIA 2012
SEQUERI/GARLASCHELLI, L’UMANO PATIRE – BERTI, PIACENZA 2009
«Da molto tempo… la ricerca teologica di Pierangelo Sequeri è impegnata nel tentativo di recuperare un ‘pensare Dio’ in cui la sensibilità per il senso assuma il ruolo-guida, diventando intelligenza dell’esperienza, intuizione della giustizia, percezione di una presenza». Così scrive nella sua introduzione a questa stimolante intervista Isabella Guanzini, che con estrema, sagace umiltà e altrettanto attenta e partecipe curiosità invita Pierangelo Sequeri a esprimersi sui temi e gli interrogativi fondamentali che agitano le più percettive coscienze cattoliche dell’oggi. E il teologo-filosofo-musicologo milanese risponde con schiettezza e profondità, come si conviene a una tra le voci più autorevoli e sincere della Chiesa, senza paludarsi dietro a diplomazie e sotterfugi troppo spesso praticati da altri influenti religiosi. Il suo è un richiamo vigoroso a rifiutare «il mediocre modello cristiano-borghese, che predica il cristianesimo come mortificazione della vita del desiderio, e lo pratica come legittimazione del proprio status politico-mondano»: a uscire da un’ interiorità che diventa facile alibi per i nostri egoismi («Siamo diventati codardi con gli assoluti», «L’habitat di Dio è la storia, non la parrocchia»); a lasciarsi coinvolgere dal lavoro della mente e dalle passioni dello spirito. La critica ai devozionismi, alle superstizioni, ai narcisismi, ai passatismi codardi dell’attuale pratica religiosa è impietosa e ardita: così come quella alle mode new age di rispolverati misticismi, alle disinvolture filosofiche che fanno l’occhiolino alla psicanalisi, alla sociologia, a politicismi tattici. Ribadisce il suo forte no a qualsiasi fede zuccherosa e stucchevole, fatta di routine e di gossip mediatici. Ma si spinge con coraggiosa originalità anche sul terreno più specificamente teologico del dibattito sul male, contestando acutamente la sospetta arrendevolezza con cui si accolgono scriteriatamente le tesi sulla teodicea. E il suo richiamo severo è allora «all’economia delle parole, dei gesti e dei silenzi» per lasciar parlare il Signore, in una relazione frontale, di amorosa reciprocità.
In un secondo, piccolo e importante volume, la voce limpida e franca di Pierangelo Sequeri si confronta con gli stimolanti interrogativi e le acute ma ammirate provocazioni del filosofo Enrico Garlaschelli. E il terreno di incontro è quello, vastissimo e antico, del problema della sofferenza, dell’esistenza del male – compiuto e patito – , e delle giustificazioni che a queste eterne domande della coscienza e del pensiero tenta di dare la fede cristiana. In che modo lo scandalo del male può aprire all’orizzonte di una trascendenza del bene? Il dolore è sempre apertura di senso? L’esperienza del patire può diventare esperienza di relazione? Sequeri risponde richiamandosi alla giustizia e alla bellezza dell’esistere, al dovere della comprensione reciproca e della solidarietà, stigmatizzando «la stupidità della nostra cattiveria che assomma al male nel mondo quello che ci facciamo l’un l’altro», sottolineando l’ esigenza di non sostituire a Dio «padreterni di seconda scelta». E le parole d’ordine forti, convincenti, di tutta la sua ricerca teologica tornano qui con la loro provocatoria verità: la polemica contro il pensiero modesto e la religione d’arredamento, l’invito alla tutela della cura e a un’etica della resistenza umana, la critica all’alleggerimento del tragico e alla pressione di conformità dei nostri tempi. Il vo lume si chiude con alcune pagine di meditazione di Garlaschelli, che rifacendosi a Kafka e Celan, a Hobbes e Girard, ripercorre tutta la riflessione di Pierangelo Sequeri, che da sempre privilegia l’interrogazione trepidante, il dubbio autentico, il desiderio innocente alla rassegnazione dell’indifferenza: «non il problema speculativo del male come nulla, ma l’invocazione “liberaci dal male” nella forma della speranza».
«Mosaico di pace» 9 ottobre 2012
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