LUIS SEPULVEDA, IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE
GUANDA, MILANO 2016

Nel suo primo romanzo, Luis Sepulveda (1949-2020) raccontava di un’umanità che fronteggia il bene e il male incarnati in una natura lussureggiante, avvolgente e impietosa, all’interno della foresta amazzonica abitata dai nativi Shuar, sulle rive del fiume Nagaritza. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, pubblicato in Spagna nel 1989 e tradotto in Italia nel 1993, conobbe un successo mondiale e tuttora viene ristampato in diverse lingue.

Il romanzo si apre in maniera forte, con un memorabile capitolo di sentimenti violenti, sangue e
passioni politiche che si animano nel corso di una seduta dentistica sul molo di un villaggio
ecuadoriano, tutto mosche sudore umidità, per ironia della sorte chiamato El Idilio.
Il cavadenti è un anarchico rabbioso che applica ai suoi pazienti una curiosa anestesia orale, fatta di
imprecazioni, torture sanguinarie e sermoni politici: sue vittime gli indios, veloci nel ruotare
minacciosamente il machete, in grado di farsi togliere tutti i denti per scommessa, ma intimoriti e
ammirati come bambini davanti alle dentiere in mostra. Tra loro, il protagonista del romanzo, “un
vecchio dal corpo tutto nervi”, che tiene la protesi in tasca per non consularla, Antonio Josè Bolivar.
Non è un Suhar, è un bianco con un passato sfortunato di colono, che conosce la foresta come nessuno
e vive da solo in una capanna in cui ha sistemato la foto della moglie morta bambina, un’amaca e un
tavolo dalle gambe altissime. Qui appoggia, senza sedersi, i romanzi d’amore che gli presta il dentista,
e che legge compitando le parole a voce alta, affascinato da tradimenti e seduzioni, commosso dal
romanticume più trito. Nonostante questa unica “debolezza” sentimentale, Antonio Josè è un uomo
d’azione, e lo dimostra quando, durante la seduta dentistica, appare, trasportato dalla corrente, il
cadavere di un gringo dilaniato dagli artigli di un felino. Priva di incertezze è la diagnosi del vecchio:
lo scempio è stato compiuto dalla femmina di un tigrillo impazzita di dolore perché lo straniero le
aveva ammazzato i piccoli e ferito il compagno. Le autorità, temendo la furia omicida dell’animale,
affidano proprio ad Antonio Josè la sua cattura, che si articola nelle pagine attraverso varie e
appassionanti fasi, scandite in appostamenti, fughe, assalti, sempre più minacciosi e angoscianti.
La caccia al tigrillo è assurta a simbolo della lotta antica ed eterna tra uomo e animale: quest’ultino,
ancora una volta, coma la balena di Melville, come lo squalo di Hamingway, rappresenta la natura
ferita che si ribella, l’istinto mortificato che si vendica. Nel racconto assistiamo affascinati e impauriti
al trionfo della fisicità: sconquassi meteorologici, corpi lacerati in putrefazione, escrementi liquefatti
e il dominio brulicante degli animali, dalla zanzare alle scimmie ai pesci assassini.
Alla fine della lotta, sarà Antonio Josè a vincere, ma di una vittoria vergognosa, umiliante, perché
ottenuta con l’astuzia e con le armi:
“Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e dalla pioggia, spinse il corpo dell’animale fino alla riva del
fiume, e le acque se lo portarono via, verso l’interno della foresta, fino ai territori mai profanati
dell’uomo bianco, fino all’incontro col Rio delle Amazzoni, verso le rapide dove sarebbe stato
squarciato da pugnali di pietra, in salvo per sempre dalle bestie indegne. Gettò subito via con furia
la doppietta e la vide affondare senza gloria. Bestia di metallo odiata da tutte le creature.
Antonio Josè Bolivar Proano si tolse la dentiera, l’avvolse nel fazzoletto, e senza smettere di maledire
il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la
verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si
avviò verso El Idilio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole
così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 24 febbraio 2023