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RECENSIONI

TASIC

VADIMIR TASIĆ, IL MURO DI VETRO – ENSEMBLE, ROMA 2017

“Il ragazzo ha iniziato a parlare tardi. È timido, cauto; sa aspettare”. Con queste parole inizia l’unico romanzo di Vladimir Tasić pubblicato in Italia, Il muro di vetro, che vede come protagonista un undicenne, sulla cui lentezza, pazienza, malinconica riflessività l’autore insiste continuamente: a ribadire un evidente rifiuto o incapacità di crescere dell’adolescente, il suo proponimento di evitare un pericolo incombente, una nuova sofferenza (“Lui è un acrobata che si muove sopra il precipizio”).
Quale precipizio tenta di dribblare il giovane protagonista? Il disfacimento del suo nucleo familiare, ovviamente. Padre e madre del ragazzo si sono separati, non condividono più nessuna abitudine, nessuna parola. Lui è un matematico che ha abbandonato la carriera accademica per dedicarsi a lavori più remunerativi: videogiochi, programmi. Lei, telefonista per una catena alberghiera, fatica a pagare l’affitto del modesto appartamento che condivide col figlio: delusa, rancorosa, conduce un’esistenza rassegnata e solitaria, priva di distrazioni e consolazioni, senza progetti di riscatto futuro. Tra marito e moglie l’unico rapporto rimane “la solita cerimonia della consegna” del ragazzo, un weekend ogni due settimane e quattordici giorni di ferie l’anno, al deludente papà.
Vladimir Tasić (1965) è un saggista e narratore serbo che dal 1988 vive in Canada, dove insegna matematica all’Università di New Brunswick. Finora ha pubblicato varie raccolte di racconti, tre romanzi e numerosi saggi: è stato tradotto e premiato in diversi paesi. Pubblicato dalle edizioni romane di Ensemble, Il muro di vetro fa di una difficile e dolorosa vicenda familiare l’allegoria di una problematica situazione socio-politica, letta attraverso lo sguardo maturo-immaturo di un bambino, che poco capisce o vuole capire delle tragedie che si consumano intorno a lui.
Una delle quali è il rapporto con il paese d’origine dei genitori, quella Serbia di cui rifiuta anche lingua e usanze (“Il cibo è unto e la gente cerca di sopraffarsi urlando; fumano tutto il giorno”): un paese che sopravvive come un incubo nelle memorie e nei reticenti ricordi dei due sposi, emigrati dopo gli studi dal vecchio mondo slavo a un mondo nuovo, ricco, ipertecnologico, ma affettivamente gelido.
Il punto di vista del ragazzo viene, nel proseguo della narrazione, gradualmente sostituito da quello dell’autore, nella descrizione accorata e presumibilmente autobiografica delle vicende della coppia: dagli studi universitari a Belgrado, al fidanzamento e al matrimonio, agli attriti con le rispettive famiglie e alla crescente insofferenza per l’ambiente culturale circostante. Fino alla decisione di trasferirsi a Toronto per approfondire gli studi matematici del marito, al progressivo incrinarsi del rapporto coniugale, acuito forse dalla nascita del figlio: incomprensioni, litigi, violenze, ricatti, separazione. La crisi familiare si riflette nel rapporto con il paese ospitante, lo strisciante razzismo subito, i legami con l’emigrazione slava, il fastidio per le abitudini sociali, alimentari, culturali canadesi. Infine, la deriva, l’abbrutimento del padre, che cerca rifugio nell’alcol e nella pornografia; il costante rimpianto della madre per il proprio paese. Sullo sfondo, la guerra in Bosnia vissuta con il senso di colpa del transfuga scampato allo sfacelo, il gioco sordido dei servizi segreti, il terrorismo e le esecuzioni sommarie, il sospetto che si insinua nei rapporti amicali e professionali. L’irruzione della Storia internazionale nella cronaca minuta di un disagio familiare, rende ancora più drammatica il confronto tra il dolore privato e quello pubblico, nell’eterno gioco al massacro tra vittime e carnefici. Il muro di vetro suggerito dal titolo è quello che separa i tre protagonisti dal resto del mondo, imprigionandoli in un bossolo di egoismo e sofferenza, paura e nostalgia, ma restituendoli visibili a se stessi e agli altri nella descrizione implacabile di una scrittura sintetica e asciutta.

 

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https://www.sololibri.net/Il-muro-di-vetro-Tasic.html       30 luglio 2018

 

RECENSIONI

TASSINARI

SIMONETTA TASSINARI, LA SORELLA DI SCHOPENHAUER ERA UNA ESCORT

CORBACCIO, MILANO 2016

Simonetta Tassinari (autrice di romanzi e saggistica per Giunti, Einaudi e Corbaccio) insegna storia e filosofia in un liceo di Campobasso. Ama la sua professione e i suoi alunni, e di scuola e studenti parla con ovvia cognizione di causa, con appassionata dedizione, con intelligente ironia e con il dovuto (talvolta risentito) spirito critico: “Sono una di quelle persone che, dalla scuola, non se ne sono mai andate. Il mio ritmo vitale è scandito dalla campanella della prima, della seconda, della terza ora, e ho interiorizzato la ricreazione fino al punto di avvertire il bisogno di un caffè anche di domenica, o in vacanza, esattamente alla stessa ora dell’intervallo”

Dai suoi molti anni dedicati all’insegnamento ha tratto validissime considerazioni, che in questo divertente volume riporta condite di sapido, o amaro, umorismo. Il primo capitolo ci offre un quadro abbastanza desolato delle strategie messe in atto dagli alunni per copiare e ingannare i professori: trucchetti vari che si sono evoluti nel tempo, con l’aiuto di tecniche innovative offerte dagli smartphone, e delle fonti a cui attingere per ricavare preziose e confuse informazioni (Wikipedia, studenti.it, skuola.net…)- “Perché Wikipedia piace così tanto? Perché è lieve, veloce, decisionista, va subito al sodo; non confonde con tanti paroloni, risponde alle domande, la si porta dietro in un taschino assieme a tutte le sue pagine, è immateriale eppure sostanziosa. Inoltre è la prima voce che compare su Google…”.

E, nella nostra epoca dell’ “ora e subito”, che non ammette verticalità e approfondimento, ma sembra apprezzare e premiare solo la superficialità, la fretta, l’informazione epidermica, ciò che conta agli occhi dei ragazzi è il superamento strumentale e veloce dello scoglio quotidiano del compito in classe, dell’esame finale, in vista di una promozione o di un diploma che comunque non garantisce più loro nessun futuro occupazionale. Ai difetti dei discenti si sommano le colpe degli insegnanti: noia, demotivazione, insoddisfazione per lo scarso riconoscimento (culturale ed economico) del proprio ruolo, rabbia verso i programmi scolastici inadeguati, per le strutture edilizie fatiscenti, per le aspettative esorbitanti delle famiglie.

Eppure, da questo quadro desolante, Simonetta Tassinari sa trarre uno spassoso e intenerito collage di errori e strafalcioni pronunciati o scritti dai suoi allievi, sulla scia del famoso Io speriamo che me la cavo degli anni ’90: con l’aggravante che qui ci troviamo davanti a liceali che sembrano non avere più alcuna cognizione geografica, storica, letteraria o filosofica.
Alcune perle? “Amburgo era famosa per gli hamburger, Giovanna d’Arco la pulce di Orléans, Gutenberg inventò la stampante, i pamphlets sono dei pannolini, il gas esilarante, Caporetto fu una misfatta, Eraclito diceva che Pànta rally, Tolgo ergo sum, Noli me spingere, Lupus in boscus, Kant era single per scelta, Rousseau da giovane era un toy-boy, Marx e il plusmalore, Nietzsche e il corpuscolo degli dei, la più famosa paziente di Freud fu Anna Oxa, Sartre scrisse Il vomito…”

E, naturalmente, La sorella di Schopenhauer era una escort.
C’è da piangere? No, da ridere. E da ringraziare la professoressa Tassinari che ci ha regalato due ore di divertimento.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/sorella-Schopenhauer-Tassinari.html     26 ottobre 2016

RECENSIONI

TEMPESTA

ROSSELLA TEMPESTA, LIBRO DOMESTICO – GHENOMENA, FORMIA 2011

Rossella Tempesta (1968), poetessa napoletana oggi residente a Formia – dove si occupa di promuovere iniziative culturali, femministe e ambientaliste –, ha pubblicato questo sottile volume, Libro domestico, che raccoglie una trentina di testi poetici, di cui il postfatore Rodolfo Di Biasio sottolinea la “sorgiva energia, gli struggimenti improvvisi, i reticoli affettivi”. Poesia esemplarmente, programmaticamente femminile, centrata sugli affetti, sui gesti quotidiani, sugli incontri-rivelazione con momenti e persone di ogni “oggi”, vissuto nella sua miracolosa singolarità: “E la radio con Gershwin / il benzinaio elegantissimo, galante / ed io buongiorno, buongiorno nuovo giorno…”.

Ci sono colori che si affacciano agli occhi e li stupiscono con la loro vivace imperiosità (il giallo del grano, il bianco dei mandorli, l’azzurro del mare; e tanto verde, tanta luce); ci sono animali (uccelli, gatti) e bambini, i propri e quelli del passato. Ci sono gli oggetti (le sedie regalate al compleanno, e non del tutto integre perché acquistate da un’esposizione), le abitudini comuni a tutti (“Molto bella l’estate / per questo suo camminare a piedi nudi nella casa / sentire com’è fresco il duro marmo”).
C’è ovviamente l’amore per il proprio uomo: “Più bianco, più luce, Amore mio. / E girare solo dentro al chiostro / dei tuoi denti, vorrei”. I viaggi, gli addii, i ritorni.  Ma soprattutto la tenace, riconoscente dedizione alla casa, intesa come guscio protettivo, come àncora di salvezza, e riflesso di sé, del proprio sentire, del proprio ritrovarsi: “Che l’intero senso / era nella casa, alla partenza/ salutata brevemente”, “La mia casa / vorrei che fosse bianca, / piena di noi soltanto / e delle risa a gola dei bambini”, “La casa resta quella con la nostra essenza e il dolore, / dove la morte e la nascita sono incise nei muri”. Versi che non temono di sfiorare la retorica, e sembrano invece farsi un vanto della loro domestica, curata, rasserenante semplicità.

 

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www.sololibri.net/Libro-domestico-Rossella-Tempesta.html      16 novembre 2016

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TEMPORELLI

ANDREA TEMPORELLI, TERRAMADRE – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2012

Sei sezioni compongono questo libro di Andrea Temporelli, contrassegnate da titoli che rimandano alla natura o al dominio dello spirito, temi che si rincorrono e intrecciano in tutto il volume. Una natura sempre in bilico tra promessa e minaccia, seduzione e sfida («Certe mattine il cielo è una promessa», «il ticchettio spaventa i nidi, il vento / turbina foglie e lacera giornali, / promette brace fuoco e zolfo»), provocando fantasmagoriche allucinazioni mentali («crepita il fuoco e accresce in mostri / piccoli insetti»), a cui il poeta oppone una dignitosa ed esplorativa resistenza: «lui rimarrà lì immobile ad attendere», «io assisto allo spettacolo da qui, / semplicemente. // …non attendo nessuno / non ho nulla da dire / piuttosto prendo appunti». Una natura che comunque è testimone e partecipe dello srotolarsi della storia, universale nei millenni, e particolare nei giorni della quotidianità: «Non indugiare adesso / ai piedi di quelli che furono / muraglie di ghiaccio in ritiro, / acquitrini malsani, / foreste celtiche e poi / avamposti d’impero». E la storia personale di Andrea Temporelli è sfiorata con la discrezione del poeta che si sa unico e insieme comune, nel rimpianto che è di tutti per il tempo che passa («Ma gli anni gli anni come trattenere / infedeli e dannati»), e che rimane tuttavia inconfondibile nella sua peculiarità. Eccoli, dunque, gli anni turbati dell’ infanzia in seminario, con i compagni che fanno roteare il turibolo come una fionda, o nascondono le ostie nel tovagliolo per merenda: mentre lui, il futuro poeta bambino, trasforma l’ obbligatoria preghiera serale in un’invocazione quasi blasfema : «Preservaci, preservaci dal padre». Ecco l’amore in versi inteneriti : «staremo bene / avrebbe voluto dirle d’un fiato / senza paura d’essere ridicolo / ma si zittì sentendola già ridere / piena di gioia tanto da aver voglia / di fare un figlio, lì, / subito, per telefono». O la polemica con la conventicola dei letterati: «Ti giuro c’è chi scrive / per uccidere», «Si seppelliva vivo col pennino sicario, / scrocchiava sulla stilo come un’ostia». Formalmente, la poesia di Temporelli vive una sorta di oscillazione (come il funambolo descritto in una composizione, scisso tra equilibrismi e vertigini, slanci ed esitazioni) tra classicità eccessivamente esibite («Ma tu sarai per me la vita intera, / il soffio in cui la voce non arriva», «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna») e soluzioni più sperimentali («Ruzzolo / – la testa è gigantesca- / nello zenit del / cantando»): comunque, l’endecasillabo impera in moltissimi incipit e anche nel corpo di quasi ogni poesia, consapevolmente e orgogliosamente tradizionale. Ed è nel poemetto che dà il titolo al volume (Terramadre) che l’autore raggiunge la sua più consistente e sicura maturità: una sorta di Spoon River rivisitato nel cimitero del suo paese, omaggio a «Coloro che precedono in ascolto, / i prediletti», «ottimo / concime nel cortile disertato». Disfacimento della memoria e dei corpi («Sbocci dunque la rosa rovesciata / davanti a una platea di vermi»), di fronte al teatrino dei viventi, con il fantasma aleggiante e tentatore della morte («La sconcia locandiera dell’albergo») che «ci fa semplici», e tutto riconduce alla sua estrema, imperturbabile verità. Dei destini dei sepolti nella terramadre, e di uno particolarmente a lui più vicino e fratello, il poeta sa di doversi fare testimone, pur se proclama umilmente: «Ma il solo modo di onorare i morti / è dire addio come si dice addio / a un amore per salvare l’amore». Quindi, una poesia che salva, anche solo con la silenziosa e pietosa complicità dello sguardo.

 

«incroci on line», 10 maggio 2013

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TEMPORELLI

ANDREA TEMPORELLI, IL CIELO DI MARTE – EINAUDI, TORINO 2005

In questo volume di versi pubblicato da Einaudi nel 2005, Andrea Temporelli  (Borgomanero, 1973) rivela sia il suo debito verso la tradizione letteraria dal nostro dopoguerra in poi, sia l’originalità della sua poetica, decisamente e coraggiosamente orientata verso la meditazione filosofica e una narratività modulata ritmicamente. Molte delle trentuno composizioni presenti iniziano e terminano con endecasillabi assolutamente canonici e musicali («Poiché per lungo tempo ti ho aspettata», «Trattarla bene occorre questa soglia», «la migrazione è appena cominciata»…), e molte sono anche le cadenze ereditate dai classici del novecento. Senz’altro Montale («la voce / che seppi acerba»», «Lo so, non è il finale che vorresti», «e tu ne hai perso / il codice per sempre»), ma anche i lombardi (Sereni, Erba, soprattutto: ma con meno attenzione al paesaggio, e più pensierosa introspezione), e forse anche il Luzi degli anni ’60, con i suoi dialoghi ideologici, gli scandagli psicologici tra colpe, rimorsi e assoluzioni. Nessuna di queste poesie termina col punto fermo, ad evidenziare la volontà dell’autore di sottolineare una continuità formale e contenutistica, una coerenza di espressione che percorre l’intera raccolta: assolutamente omogenea sia nella lunghezza distesa e argomentativa delle varie poesie, sia nel respiro musicale che le attraversa. Eppure non troviamo in esse l’abbandono esplicito alla cantabilità, ma sempre un pudico correggersi nella direzione del controllo intellettuale, del richiamo etico ed esigente alla verità della scrittura. I temi trattati sono diversi: l’amore, ovviamente, ma lontano da ogni sdolcinato romanticismo ( da leggere la splendida Canzone dello sposo); l’infanzia e le case abitate; gli affetti familiari ( padri invecchiati e figli a cui cantare ninne nanne); gli amici, velleitari cospiratori di rivoluzioni solo immaginate («Uno direbbe che quei tre seduti / al tavolo del bar / siano sul punto di giocarsi l’anima»); la scuola e l’insegnamento vissuto come impegno e missione («questo mestiere povero / e splendido»), le partenze e i ritorni, i tradimenti e le sconfitte («Mai sarò pronto al grido di vittoria»). Ma senz’altro il motivo per eccellenza che attraversa la scrittura di Temporelli è l’interrogarsi assiduo e inquieto intorno al mistero dell’esistenza, alle sue domande perenni («dove affonda l’uncino / del punto interrogativo?»), insieme al fastidio verso chi, montalianamente, «se ne va sicuro» : «colui che penetra / la valle senza dubbi e senza fede». Il poeta ha quindi un dovere, non solo politico e civile (contro «il volto berlusco» dell’economia), ma propriamente morale : denunciare la banalità del male  («Fanne concime, adesso, / su, fanne sentire l’odore atroce», «fa’ addormentare i potenti del mondo»), e preservare l’innocenza dell’attesa («Ciò che importa davvero / è stare eterni e mortali nello sguardo / del bambino che osserva, da un baluardo / di carne e ossa e sangue, / l’infinito indugiare in un sentiero»). Allora, la religione di questi nostri giorni impoetici deve essere non tanto la devozione ipocrita a un dio di false profezie, bensì l’ostinato incardinarsi del sentimento intorno alla parola “pietà”: verso gli uomini e le cose, la natura e le idee, i peccati o l’esibita santità. Il dio di tutti è quindi il «Dio delle discoteche e delle edicole, / padre delle cubiste / madre dei buttafuori»: in un cielo di Marte che è sì il pianeta «dell’universo vergine e inondato / di luce», ma è anche la divinità pagana, che Temporelli non riconosce più come dio della guerra, bensì come il dio dei campi, benigno «oracolo di padri contadini», trasformato ormai e imbestialito attraverso le vicende di una storia collettiva, colpevole e sanguinaria. Però da perdonare, da illuminare poeticamente, sapendo «che il senso intero / era già lì per te, da custodire, / gratis, semplicemente».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Il-cielo-di-Marte-Andrea.html;          11 settembre 2015

 

 

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TERRANOVA

NADIA TERRANOVA, IL CORTILE DELLE SETTE FATE – GUANDA, MILANO 2022

Nel quartiere Ballarò di Palermo si trova Piazzetta Sette Fate, luogo in cui credenze popolari hanno ambientato oscure leggende. “Racconta Giuseppe Pitrè, collezionista e narratore di storie siciliane, che a Palermo, nonostante i controlli della feroce Inquisizione, c’era un cortile dove di notte si davano appuntamento sette donne misteriose, una più bella dell’altra. Quando decidevano di portarsi dietro qualcuno gli facevano fare cose mai viste: danze mistiche, canti paradisiaci, voli eterei, camminare sull’acqua e altri prodigi. All’alba i fortunati si risvegliavano come se nulla fosse successo, però di quell’avventura ricordavano ogni dettaglio”.

Con queste parole si apre la fiaba che Nadia Terranova ha pubblicato per le edizioni Guanda, Il cortile delle sette fate, immaginosamente illustrato – come si conviene per l’argomento – da Simona Maluzzani. Nadia Terranova (Messina 1978) nella sua produzione letteraria ha alternato romanzi classici a libri per ragazzi. Tradotta in diverse lingue e pluripremiata, lo scorso anno ha vinto il Premio Andersen con Il segreto.

Questo suo nuovo testo è ambientato nel 1586, in un’epoca in cui essere donne (e soprattutto donne non conformi al sentire ufficiale di Chiesa e autorità, e a quello popolare imbastito di superstizione e ignoranza) non doveva essere facile, sia in Sicilia che altrove.  Anche essere gatte nere poteva essere molto pericoloso, a quanto afferma la co-protagonista del racconto: “Provateci voi a essere una gatta nera al tempo dell’Inquisizione. Voglio dire, non `e facile. Innanzitutto non `e detto che possiate tenere il vostro nome, anzi conviene che ve ne troviate uno buono per salvarvi la pelle. Io, per esempio, mi presento come Arte ma in realtà mi chiamo Artemide, come la dea della caccia: pensate a cosa succederebbe se qualcuno sapesse che porto il nome di una divinità pagana, no, non voglio neanche immaginarlo, già la mia vita è difficile così”.

Perseguitata perché ritenuta creatura diabolica, la gatta Arte gira con circospezione nei vicoli del capoluogo siciliano, dove gli inquisitori, affidandosi al Malleus Maleficarum, un manuale per la caccia alle streghe, istillano ovunque sospetti e diffidenza. Eppure, nelle sue due vite precedenti in Egitto e in Grecia, Arte era stata rispettata e onorata, addirittura con la considerazione dovuta a un essere di origini divine. Una notte il suo fortuito incontro con Carmen la mette in contatto con le forze indomabili e ribelli della natura. Carmen è una bambina “furtiva e zingaresca… libera come il vento e zozza come la pece, vestita di stracci sotto un mantello damascato e i piedi nudi incrostati di strada fin dentro le unghie”. È cresciuta in un bosco, accudita da lupi, donnole, lepri, ricci e ghiri, nutrita con “bacche, frutti ed erbe”, assimilando così comportamenti ed espressioni selvatici, lontani dalla sensibilità della gente comune. Ora vaga per le vie della città, impaurita e affamata. La notte in cui Carmen e Arte si incrociano     per la prima volta  nei pressi della Chiesa di Santa Chiara, vicino a una torretta d’acqua, è animata da voci e sussurri indecifrabili, da passi femminili leggeri, da intensi profumi di piante aromatiche. Mentre la gatta si rifugia spaventata dietro a un muro, la ragazzina viene circondata da sei bellissime donne che intorno a lei ballano e cantano, vestite d’oro e d’argento, prima di dissolversi nel nulla. L’irruzione di due ossessionati inquisitori marchia Arte e Carmen dell’accusa di stregoneria, conducendo la prima alla fuga, e la seconda in prigione con l’accusa infamante di “guaritrice”, di “ciamavermi”. A salvare entrambe, ecco che arrivano le sei donne concretizzatesi dal buio, streghe o fate: comunque figure libere e liberanti, capaci di ribellione, allegria e lievità in un’epoca di gretta repressione. Raccolgono erbe mediche per preparare infusi magici che inducono sogni rasserenanti in chi dorme. Manifestano una saggia teoria sugli inquisitori: “I pensieri negativi sono quelli che qualcuno chiama diavolo. Si impossessano della mente di chi li partorisce e non se ne vanno più, inquinano il  cuore  e  i  sentimenti,  fanno calare le tenebre, creano paura, odio, sospetti.  Anche se certi signori lo vanno cercando per le  strade  di  Palermo,  in realtà   il  diavolo `e solo dentro di noi, pronto ad apparire e a rovinarci la vita quando non siamo consapevoli di poterla godere appieno”. Regalano alla gatta nera esperienze gioiosamente visionarie, sollevandola in atmosfere sconosciute. Si rendono invisibili per penetrare nella prigione in cui è rinchiusa Carmen, e immobilizzano l’inquisitore che la sta sottoponendo a un interrogatorio brutale per farle confessare peccati mai commessi.

Una delle fate, Pia, rivela alla bambina di essere stata la sua levatrice, raccontandole i misteri della sua nascita: figlia di una guaritrice, la bambina aveva ereditato le stesse facoltà taumaturgiche della mamma, e ora che ne è consapevole può unirsi a loro sei, diventando la settima fata fornita di ali, capace di volare più in altro di ogni pregiudizio, vessazione e ingiustizia, tenendosi stretta una gatta nera, decisamente portafortuna!

 

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SoloLibri.net › … › Il cortile delle sette fate di Nadia Terranova           31 marzo 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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TESIO

ENRICA TESIO, FILASTORTA D’AMORE – GIUNTI, MILANO/FIRENZE 2019

Già autrice di due romanzi (La verità, vi spiego, sull’amore e Dodici ricordi e un segreto), blogger seguitissima, rubrichista su “La Repubblica”, la scrittrice piemontese Enrica Tesio pubblica per Giunti un volume di “rime lievi e prose fluide”, che con ironico understatement ha intitolato Filastorta d’amore.

Si tratta infatti di una trentina di componimenti, perlopiù a rima baciata o alternata, che sulla pagina si distendono nella misura dei versi (cantabilissimi endecasillabi, dodecasillabi, settenari) con gli a-capo di prammatica, oppure si mimetizzano in brani narrativi molto ritmati, e spesso ancora rimati, dall’andamento appunto di filastrocche, cantilene, ninne nanne, ritornelli: tutti insieme a comporre un divertente canzoniere amoroso, dedicato «alle donne e a tutti quelli che non ce la fanno, e poi invece sì, ma che fatica…».

Illustrato spiritosamente dai disegni di Giulia Richetta, il libro strizza l’occhio in particolare al pubblico femminile, che ovviamente si riconosce nella voce recitante di una donna non più giovane e non ancora matura, separata con due figli, stretta tra mille doveri e scadenze, tanti interessi e desideri, infinite stanchezze, e qualche rimpianto, qualche rancore, lacrime inconsolabili e scoppi improvvisi di allegria. Ci sono quindi i ricordi di amori passati, l’illusione di legami futuri, addii e voglie di vendetta, recriminazioni e perdoni, rifiuti espressi e patiti, telefonate interrotte e lettere cestinate, rituali del corteggiamento e del sesso: «Tu sguardo indecente, noi due buoni a niente, tu sei il mio mandante, io sono il movente, mi impugni dal collo e ogni bacio è uno sparo, guardo in faccia la fine, tu onesto, io baro», «Io sono la frase che rimane sospesa, / non gioco d’attacco, sono forte in difesa. / Sono quella ‘tranquillo, la risolvo da sola’, / e finisco a far fiocchi coi miei nodi alla gola. / Ma se pesti i miei sogni poi paghi il pedaggio // E adesso amami, avanti, se ne hai ancora il coraggio», «C’è il mio corpo sul letto. / Appoggia l’orecchio al mio petto, / lo senti questo cuore alveare? Ascolta il frastuono, si è rimesso a ronzare».

C’è poi l’impegno, gravoso e gratificante, di mamma: chioccia o sfinita, petulante o severa, delusa se i figli crescono diversi da lei, contrita con i vicini disturbati dal chiasso mattiniero o serale, ma sempre pronta a capire, a difendere, a giustificare: «Col mio corpo puoi farci un mantello, / il mio braccio come cintura / te lo slacci se il tempo è bello, / te lo stringi se hai un po’ paura», «C’era una mamma, una madre madrona, / la mano a saetta, la voce che tuona. / Più che un bambino voleva un soldato, / ma poi crebbe un hippie tutto arruffato», «Se sapessi, Vicino, che urlo potente l’amore che parla e nessuno lo sente… Ma sono una madre, io urlo ovvietà».

Donna moglie-madre-figlia-amante-professionista-casalinga, e soprattutto donna-donna: con le rughe meritate e conservate, i trucchi e le borsette, i lavori domestici e i pettegolezzi con le amiche, la solidarietà femminile e le rivendicazioni femministe: «Amiche mie belle, compagne di viaggio, quand’è che arriviamo? La meta è vicina, ti guardo le spalle, respira e cammina».

L’ironia talvolta si vela di inevitabile sarcasmo, la nostalgia di tristezza, ma la voglia di resistere emerge anche dalla leggerezza con cui viene affrontata la pagina, con il fastidio per la banalità e la volgarità propinata quotidianamente dall’esterno, e soprattutto con l’impegno verso il mondo, la sua bellezza da salvare, la sua pulizia da mantenere: «Rassetto le stanze di questa mia vita / per qualcosa di nuovo, dell’aria pulita. / E butto i rapporti scaduti e scadenti: / è l’ecologia, dei miei sentimenti».

 

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https://www.sololibri.net/Filastorta-d-amore-Tesio.html          14 maggio 2019

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TESTA

ITALO TESTA, LA DIVISIONE DELLA GIOIA – TRANSEUROPA, MASSA 2010

Questi versi di Italo Testa interrogano il lettore -emozionandolo, anche- già dal titolo, che (al di là del riferimento al gruppo punk inglese Joy Division) non allude come ci si aspetterebbe a una “condivisione” della gioia (tra l’autore e chi legge, tra protagonista recitante e deuteragonista che ascolta), bensì a una sua “divisione”: quindi a una frammentazione, a una non totalità e non completezza, ribadita in tutti e tre i capitoli che compongono il libro. La cui nota dominante è senz’altro una rassegnata malinconia, attualissima però, disincantata in un soliloquio che tenta vanamente il dialogo, con alle spalle uno scenario grigio, silenzioso, di smobilitazione post-industriale. E opportunamente il poeta cita, in esergo alla seconda, splendida sezione, una frase di Edward Hopper: perché proprio agli interni disadorni e ai desolati esterni del pittore americano sembra rifarsi l’ambientazione dei suoi versi («I was more interested in the sunlight on the buildings and on the figures than any symbolism»»).
Eccoli, dunque, gli interni raccontati da Testa nelle quattro parti in cui si suddivide la sezione che dà il titolo al volume: «un interno spoglio e taciuto… a telefono spento… nello specchio marmoreo di un tavolo… le grate che spartivano il vetro… i gradini lucidi… di sbieco su una sedia… in una stanza anonima, spoglia… in una stanza vuota»: un crescendo di non appartenenza, in cui si muove la coppia di amanti. Il poemetto (che è poi una lunga lettera d’amore, sfiduciata eppure tenera, delusa dalla propria non-passione, rivolta a una lei sempre lontana anche quando viene descritta nella sua fisicità più intima), ha un ritmo lento e avvolgente, assolutamente musicale, nella pacatezza delle sue rime e di una metrica tradizionale però mai scontata, priva di qualsiasi brusco scarto formale. Una bassa marea di sonorità, che accompagna queste immagini dal sapore cinematografico (campi lunghi, sfondi dai colori tenui, una natura indifferente se non ostile alla presenza umana): i luoghi sono quelli, padani, pianeggianti, del delta del Po. E gli echi letterari (una presenza costante del primo Montale: come non ricordare Dora Markus?) rimandano forse alla narrativa di Bassani (le bellissime pagine de  L’Airone trovano un’empatica rispondenza in questi versi); ma anche a Celati, a Tonino Guerra, e ad altri visionari della pianura tra Veneto ed Emilia.
Gli esterni non sono più partecipi dell’avventura umana di quanto lo siano gli interni: «spazio deserto… sotto un lampione astioso… la fissità del cielo… statue mute… i tetti opachi e le lamiere arroventate… la distesa dei campi d’acqua… case abbandonate… fabbriche addormentate… l’armatura dei pilastri… erbe matte sul terreno… mattoni e lamiere ondulate…»). E la nebbia, il silenzio, in cui si muovono i due protagonisti, sospesi, incapaci di vera comunicazione. Italo Testa recita le sue parole in prima persona, si rivolge a un tu che stenta a raggiungere, a toccare concretamente: i due amanti sono descritti spesso in piedi, «appoggiati», «affacciati»», zitti e in attesa, quasi a chiedere conforto e sicurezza alla realtà dei muri, dei balconi, degli oggetti. E non trovano certezza nei loro gesti, nei pensieri, nei reciproci abbandoni: «così aspettiamo giorno per giorno, / un foglio in mano, lo sguardo perso», «la fragilità ci insidia dall’interno», «stiamo lì, col capo arrovesciato / un po’ assonnati sopra il letto, / le gambe appena reclinate / contiamo le pieghe sul lenzuolo», «il braccio nascosto tra le gambe, la luce sulle mie cosce nude, / la mano a coprirti il pube». In un’estraneità sofferta, immodificabile: «saremo corpi in attesa, tronchi / riversi, distesi tra le cose». La stessa incomunicabilità che ricorda i film di Antonioni, e, come già detto, l’angosciante desolazione dei quadri di Hopper, la ritroviamo nelle altre due sezioni del volume:  CantieriDelta. Quest’ultima ancora centrata sui temi sentimentali della precedente, espressi in versi più veloci e orecchiabili, al limite del cantato, con qualche concessione alla retorica di più facile presa. Il paesaggio è sempre segnato da pioppi e argini, nebbia e neve, rami-confluenze-strade come si conviene in un delta, entro i cui confini i due protagonisti si cercano e si sfuggono, trincerandosi in rapporti sessuali veloci e talvolta colpevoli, chiedendosi e negandosi aiuto reciproco. I colori non transigono, severamente sfumando dal bianco al grigio, «nel polverio / di una geografia remota» che non sembra conoscere l’indulgente abbandono al sole, al calore, alla luce. Decisamente più originali sono invece le poesie della prima parte, ambientate nelle periferie industriali di Marghera, tra pale meccaniche, cisterne, torri e silos, container, gru, pilastri di cemento, cavi dell’alta tensione, tralicci, rimorchi; tra fabbriche disumane dai nomi inclementi (Fincantieri, Saipem, Crion), in orari albeggianti di «luce polverosa» e proletaria. Eppure in questi versi privi di rabbia e semplicemente descrittivi, che si limitano a constatare una realtà perdente e umiliata, aleggia uno stupefatto e accorato sentimento di solidale comprensione, e pietà, per le persone, la loro vita e la loro storia, che avvicina il lettore alla verità disadorna della poesia più autentica.

 

«nazioneindiana», 30 marzo 2014

RECENSIONI

TESTA

ENRICO TESTA, CAIRN – EINAUDI, TORINO 2018

Un libro dedicato alla perdita, patita o inferta, questo di Enrico Testa (Genova 1956), alla sua quinta prova nella collezione bianca di Einaudi. Versi che interrogano la mancanza, il disorientamento, la solitudine seguita a un lutto, in un’atmosfera che ricorda, persino in alcune modulazioni formali oltre che in certe ambientazioni di interni, la Satura montaliana, permeata dalla sottile e penetrante nostalgia di una presenza-fantasma: assente nella concretezza della realtà, incombente nel pensiero e nel sogno. I segnali spia dell’abbandono si annidano ovunque (il linoleum marrone malsteso sul pavimento, un filo scuro di polvere, le rondini in picchiata, la cucina gelida, panchine arrugginite, stivali sporchi, acqua marcia, ciliegi spogli, polpette crepate…), a indicare trascuratezza, disaffezione alle cose, abbattimento. Solo il rapporto con le «care ombre» viene testardamente cercato e nutrito, in abitudini e riti quasi morbosi, attraverso la frequentazione di ospedali e camere mortuarie, o il vagabondare tra ceppi e tombe di famiglia nei cimiteri, nell’ansia di recuperare legami affettivi troncati, riecheggiando le leggende funerarie di Emerson e Lincoln:

«cavalcaniamente scavalco tombe abbandonate / sposto con inaspettata forza steccati d’assi / m’arrampico su pesanti grate metalliche / infrango il minaccioso diktat cimiteriale / che dice VIETATO L’ACCESSO / aggiro le voragini lasciate aperte / dall’incuria comunale / arranco, preso ormai dalle vertigini, / su traballanti passarelle per becchini. / E pateticamente solo / per raggiungervi, sentirvi / (e non si creda che farlo altrove valga uguale), / baciarvi (sì anche baciarvi) / e inginocchiarmi davanti a voi, / ombre care della mia infanzia», «quando entrò il lavacadaveri / (guanti pesanti blu / lungo camice verde in plastica deforme / mascherina protettiva / come a trattare un’appestata) / gli strappai di mano, nella luce accecante dell’acciaio, / gli strumenti del suo lavoro / e lo cacciai via urlando. / Poi per l’ultima volta / mi diedi con calma / alla cura santa del tuo corpo, / riflesso nell’ombra della mia salma».

Le relazioni sociali si riducono ormai alla frequentazione, smarrita e annoiata, di aule universitarie, convegni intellettuali, alberghi, stazioni e aeroporti, tra persone che rimangono indifferenti ed estranee, compitamente ipocrite («Peso del mondo. / Qualcuno accanto?»). L’unica alternativa alla superficialità dei rapporti umani, alle «varie attività parassitarie» rimane il «Tenersi da parte. / Anche a rischio di passare per fesso», evitando la «sciapa misticanza del misticume», «dell’eleganza come vizio / e dell’arroganza come vezzo». Rassegne e congressi, letterari o filosofici, sono utili solo alla vanità di chi li anima:

«A poco servono teologi da festival / che ne sanno ancor meno / delle beghine di paese / bistrattate da poeti tracotanti; / e augusti filosofi verbigeranti / sotto il segno del mito o della moda; e iene maculate dai denti gialli / che ringhiano, a loro tornaconto, / spirito di servizio o senso d’appartenenza. / Se ne può – state certi ‒ / fare anche senza».

Uno sdegno civile pervade i versi a cui Enrico Testa demanda la sua rabbia residua, schernendo «gli empi», «il mio paese i suoi politici / gli escalofonisti tutti – vecchi e nuovi ‒ / i professionisti nel maneggio dell’argilla / che impasta parole in nome dell’affare», e «l’irridente sfacelo» di «tutti i fetori di Roma / e della repubblica intera»: perché «il potere è tetro», affumica l’anima, corrompe le esistenze. Allora l’attenzione agli ultimi – a «chi scompare nei deserti o in mare», o alla senzatetto «spaurita e minuta» della stazione di Brignole ‒ trova una sua eco in quella destinata alla flora e fauna di umile lignaggio (lucertole, merli, millepiedi, rane, topi, ragni, gatti; more, rovi, patate, castagne, aglio, funghi, felci, gramigna…), al lavoro nell’orto o alla pulizia del pollaio.

Cairn, termine gaelico indicante il mucchio di pietre utilizzato sia come monumento sepolcrale sia come indicazione di percorso nei tragitti montani, rimane un monito che collega il ricordo dei propri morti al suggerimento di una via d’uscita nel labirinto del vivere.Le poesie di questa raccolta ‒ prive di artifici retorici, fatte salve rarissime rime sempre e solo utilizzate nelle chiuse ‒, testimoniano una fede superstite nella parola-abbraccio, «che dice ancora / quando non c’è più niente da dire». Parola pronunciata «senza urlare», limpida e mai pretenziosa, parola «Segnavia e segnavita».

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 25 luglio 2018

RECENSIONI

TESTORI

L’ AMORE di GIOVANNI TESTORI
Giovanni Testori, Poesie 1965-1993, OSCAR MONDADORI, MILANO 2012.

Questa raccolta di cento poesie, scritte tra il 1966 e il 1967, fu pubblicata da Feltrinelli nel marzo del 68: anno strategico, drammatico, pulsante – per la storia, per le vicende politiche e per lo sviluppo del pensiero filosofico del mondo occidentale. Nessuna eco esterna, nessun fremito ideologico trapela dai versi di Giovanni Testori, completamente immersi, grondanti, recintati in un privato esclusivo: in un amore.
L’amore, appunto, è il titolo di questo volume di poesie, categorico e definitivo, come deve essere quando si parla di chi entra nella propria vita (nei pensieri e nella carne), e la domina, totalizzandola. Alain è il ragazzo a cui Testori offre questa testimonianza, insieme lucida e delirante, possessiva e sacrificale, di un sentimento assoluto. Una confessione, un testamento, una richiesta d’aiuto. E, insieme, una condanna.
Viene in mente l’affermazione severa di Charles Peguy: «Una parola non è la stessa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito».
Viscerale è la scrittura di Giovanni Testori; lacerata, inquieta, crudele. Anche quando si intenerisce e commuove su se stessa, anche quando sembra placarsi nella contemplazione più pura.
Confrontandola con le parole di altri poeti omosessuali, la sentiamo così lontana dall’azzurra tenerezza di Sandro Penna («La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta»), dalla dedizione ideologizzante di Pasolini («con maschile / pudore e maschile impudicizia / nelle pieghe calde dei calzoni nascondendo indifferenti, o scoprendo, / il segreto delle loro erezioni»), dalla sfrontata esaltazione di Dario Bellezza («Satana mi vuole perduto e peccatore. / Io devo smettere l’orgoglio / di sapermi diverso. Irreale / amante dei diversi»). E dall’incantato, classicheggiante omaggio di Stefan George («Quando dietro il cancello fiorito / alfine sentimmo solo il nostro respiro, / godemmo le sognate beatitudini?»), o di Kavafis («Ormai ricordo appena gli occhi: azzurri, forse… / Oh, azzurri, sì! Come zaffiro azzurri»).
«Ciascuno la propria tristezza / se la compra dove vuole», scriveva Antonia Pozzi. E Giovanni Testori ha comprato la sua tristezza profonda, irredimibile, in questi versi e in questo amore. Mai gioioso, mai esultante, anche nel possesso più totale ed esclusivo: ma temuto e riconosciuto in un presente di colpa e sofferenza, in un futuro di solitudine e distacco.
L’offerta di sé del poeta è totale, generosa, oblativa: «T’offro, amore, / guarda, / gli zigomi, le palme / e l’ultima forza / dell’insana maturazione; /…i fianchi, / il labbro t’offro, / la speranza, / il mio stesso battesimo, / la mia firmata dannazione / t’apparterrò e per sempre, / perché sarà oltre i sensi, / il dolore, / l’apparenze…».

E la fusione con l’amato ricorda la tensione religiosa dei grandi mistici («perché t’amo, carne / più della carne, / in anima»), nell’utilizzo di vocaboli, immagini e riferimenti che appartengono tutti al repertorio culturale della cattolicità (battesimo, inferno, Croce, sudario, martire, il Cristo delle spine), all’interno del rapporto tormentato e folgorante che Testori ha avuto sempre con la fede e la Chiesa.
Eppure, con quali e quante similitudini e attributi dolcissimi e innocenti il poeta definisce il suo ragazzo: petalo astante, faro, luce dell’alba, sangue, rubino e viola della sera, figlio, capanna, stella, unico amante, mia vittoria sul nulla, segno dell’aldilà dopo la fine, giovane lepre e stanca bestia, mia volpe, mio santo, eternità nel nulla, ala, carne di me, mia falce, mio martire, mia colpa, mia unica salvezza, mia fornace, tu meraviglia e gaudio, rondine mia cresciuta nel nido del mio cuore, amore disperato, mia cara luce, felce piegata in sé, mio bosco, zaffiro del passaggio, mia grande nevicata, piccolo coniglio, vigore del mio stelo, angelo, cielo, diamante, mio airone, mia gironda, edera verde e ruggine, mio bambino adulto e delicato, mia lettera prima, mio trionfo, mio sudario, mia cara nudità…
Il suo amore sa farsi anche paterno, protettivo, fino a spingersi ad immaginare per l’amato una vita di futura e tranquilla normalità, augurando e prevedendo per lui la nascita di un figlio: «padre responsabile, felice, / e i figli attenderanno / il tuo ritorno», «Il figlio che avrai un giorno, / il figlio arcano e biondo, /… che segno porterà in sé / di me, / nella sua anima e nel cuore?», «Vedo tuo figlio in te. / Ancora non è nato / ma già ne scorgo salire / dal tuo sonno / il primo riso. / Lo guarderai dormire / com’ io guardo te, / padre ingiusto e furtivo».

Perché invece è lui, il ragazzo-amante, il figlio vero e sognato, non generato e inventato, ricreato a parole e nei gesti dell’amore, quello in cui il poeta si perpetua e cerca un’eternità profana, promettendogli un’eredità perenne di ricchezze inestinguibili: «O figlio amato, / mai avuto che in te, / di cui accolgo nel bacio / lo spasimo dei sensi / ancora chi t’ha amato / t’amerà / e così sempre, / mio figlio, / mio sudario».
Di Alain il lettore conosce poco, a parte il neologismo che accompagna alcuni luminosi vocaboli: alanina luce, alanina alba, alanina infanzia. Forse la sua Parigi, a cui il poeta allude velatamente; il suo scendere da un aereo, salutando: «Scendevi, / l’ala appena immobile; / emergere ti vedevo /…- la piccola valigia tra le mani, / il trench, / la sciarpa che s’alzava /… l’aria ronzava / dell’oro del tuo viso / e della grazia adolescente /…  Al tuo saluto / s’accendevano le foglie / di brughiera / – la mano in alto, / mollemente- / ed io perdevo forza, / ero lì, / morivo, / io che t’aspettavo / travolgendo me in me, / carbone, legno arido, / fuoco vivo di te, / della tua luce».

Pochi sono i particolari fisici recuperabili nei versi: «la tua dolce, tenera saliva… il curvato ventre… la schiena adorata… l’alito denso», fronte, guance, mento, ciglia, ricci: ma senza una descrizione vera e propria che stagli un’ immagine corporea. Eppure Testori riesce a rendere indelebile, con pochi leggerissimi tratti, la delicatezza della giovane figura. Come quando racconta di un improvviso ricovero ospedaliero del ragazzo, del tremore di entrambi (amanti, ma anche padre e figlio) nell’ attesa di una diagnosi, della gioia di una riconquistata salute: «Seguo l’occhio sapiente; / tormento di domande / lo sguardo del medico, / il suo braccio; / l’aiuto a liberarti; / t’alzo la maglia; / t’abbasso il caro slip: / il ventre appare. / Tremi nel suo tremito, / piccolo coniglio».

L’amore tra i due è assolutamente fisico, sensuale, ma lontano da qualsiasi crudezza o volgarità; piuttosto dilaniato in un possesso che vorrebbe superare anche i confini della fisicità, in un’ansia divorante che sembra non conoscere sorriso, clemenza, perdono: «mentre bacia il tuo bacio / la mia vana caverna», «fusi nell’abbraccio che ci avrà distrutti, / cancellati», «ti stringo / oltre il curvato ventre, / ombra interiore di carezze / che ti bacio, / abbacinante nudità», «nudi castamente /… senza lasciarci mai, / coperti di sudore», «se scivolo entro te, / sfascio le bende / e, disperato, senz’averti / ti vedo, / è perché t’amo, carne», «di nuovo i corpi nudi / e l’amore lucido, furioso», «amore cieco, / vieni su me, / in me, / coprimi, neve, / luce, / benda cercata, / benda disperata», «Ti vedo nudo, / carne di me, / mia falce; / steso t’adoro / sui lenzuoli», «E la tua schiena è lì; / la bacio; / la ricolmo di saliva; / specchio diventa e fiore / del mio cieco, / inutile dolore».

Questo ritrovarsi dei corpi e delle anime al di là di ogni futile o falsa apparenza, lo scoprire nell’altro il messaggio di dannazione o salvezza che comunque avvicina alla verità ultima, il dono estremo di sé nel reciproco disvelarsi e comunicarsi, è qualcosa che ha procurato a Testori censure imbarazzate e santificazioni esaltate, troppo spesso discutibili e insincere.
Il suo situarsi ai margini della tradizione novecentesca, abissalmente lontano da tutti gli esiti della poesia italiana del dopoguerra, ne ha fatto un eccentrico, indefinibile, non catalogabile poeta dalle soluzioni formali poco condivise. I nomi che sono stati fatti dai critici per accostarlo a una qualche fonte letteraria, facendone un originale epigono (dai futuristi a D’Annunzio, da Rebora a Caproni), sembrano tutti alquanto opinabili. Forse invece potremmo scoprire una vaga rimembranza dell’Ungaretti di Sentimento del tempo, o un’eco dell’angosciata ricerca formale e esistenziale di Paul Celan.
In questo volume troviamo versi brevi, persino brevissimi, in strofe singole, prive di rime e artifici retorici, indifferenti ad ogni metrica, e invece incalzati da un ritmo ansioso e franto, talvolta colloquiale e più spesso classicheggiante: invocativo, esclamativo, interrogativo, ma sempre con una vocazione esibita per la confessione ostentata, plateale, pubblica. Poesie da leggere a voce alta, proclami amorosi da recitare con orgogliosa consapevolezza della loro superba nobiltà.
Il volume riproposto ora negli Oscar Mondadori offre ai lettori una meditata scelta da questo libro altissimo, poco recensito e poco antologizzato, addirittura imbarazzante nella sua esplicita e disarmata sincerità, che fa del suo titolo, L’amore, una rivendicazione ferita e altera.

«Qui Libri»,  giugno 2012