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RECENSIONI

VELADIANO

MARIAPIA VELADIANO, IL TEMPO E’ UN DIO BREVE – EINAUDI, TORINO 2012

In questa sua seconda prova narrativa, sempre edita da Einaudi dopo il successo ottenuto con La vita accanto, la scrittrice trentina Mariapia Veladiano torna ad esplorare con attenta sensibilità e generosa empatia l’animo femminile: i suoi trasalimenti e la scalfibile partecipazione alla vita, gli abbandoni e le caute adesioni alla fisicità, l’immersione nella natura e l’aspirazione a una ansiosa spiritualità. Protagonista del romanzo è una giornalista laureata in teologia, che lavora nella redazione di una rivista cattolica: stimata dal direttore, ma osservata con qualche diffidenza dai colleghi a causa della sua mai placata inquietudine religiosa. Il dubbio che angustia Ildegarda (nome che esplicitamente fa riferimento alla nota mistica tedesca medievale) riguarda l’esistenza del male nella vita degli esseri umani, e la sua giustificazione divina: rifacendosi all’ “unde malum?” agostiniano, alla teodicea di Leibniz, alla riflessione filosofica contemporanea (così pienamente indagata dal nostro Luigi Pareyson), l’interrogazione che lacera la coscienza della donna riguarda l’impotenza o la non volontà di Dio di opporsi alla sofferenza innocente, al dolore incolpevole dei giusti e dei bambini («Il silenzio di Dio davanti al male mi devastava»). E questo assillo della protagonista viene in continuazione messo alla prova dalle circostanze, decisamente tormentate e infelici, della sua esistenza. In primo luogo dal matrimonio con l’aristocratico e anaffettivo Pierre («la sua tristezza inviolabile», «il suo pessimismo doloroso e intoccabile»), incapace di provare qualsiasi sentimento nei confronti della moglie e del figlio, costretto a scegliere una fuga indecorosa e silenziosa a Londra, pur di non affrontare le sue responsabilità. Ildegarda scoprirà molto tardi e fortuitamente che l’assenza del marito andava attribuita, più che a rovelli intellettuali ed esistenziali, a una mai confessata relazione con una collega di lavoro e amica di famiglia. La stessa convivenza con i parenti di lui, in una gelida e nebbiosa tenuta della pianura lombarda, è fonte per la protagonista di continui soprassalti di muto e inesprimibile dolore, di fredda incomunicabilità, di rabbioso rancore. A questa sofferenza di Ildegarda, che permea ogni pagina della sua vita e della narrazione stessa, non sa proporre alcuna tregua nemmeno l’esistenza del bambino Tommaso, tormentato alla nascita da una crudele dermatite («guardavo Tommaso e mi sembrava che la sua pelle rovinata fosse la prova straziante dell’inconsistenza di Dio»), quindi da una sorta di epilessia genetica che incombe sui suoi pochi anni indifesi come una minaccia invincibile. Ogni prova viene vissuta da Ildegarda con riferimenti costanti alla vita religiosa, ai testi sacri, ai riti, che sempre offrono consolazione, portando però anche nuovi interrogativi. Di fronte al suo bambino malato riappare la sofferenza della Vergine sotto la croce; nelle sue preghiere a Dio la contrattazione che Abramo propone all’altissimo per la salvezza di Sodoma; nei sogni ricorrenti l’eco dei sogni biblici; nell’aspirazione alla conoscenza la maledizione del Qoèlet… E quando finalmente la vita sembra poter tornare a fiorire, nell’incontro in montagna con un pastore protestante di Heidelberg (pure segnato da una storia di morte e abbandoni), ecco che di nuovo torna l’incubo del male ingiusto e inspiegabile, con la diagnosi di un inoperabile tumore annidatosi da tempo nel cervello della donna. La cifra narrativa del romanzo sembra tutta da leggersi in questa incombente atmosfera di angoscia, di lutto, di morte, a cui nessuno spiraglio di leggerezza e di serena partecipazione alla naturalità e alla bellezza dell’esistente sembra poter offrire tregua. Un dolore antico, pervasivo, connaturato quasi alla scrittura stessa dell’autrice: sorvegliata ed elegante, che tuttavia sfiora talvolta il manierismo, e sembra sempre vietarsi qualsiasi apertura alla gioia, al desiderio, all’invenzione o alla scoperta di quanto c’è di buono, dentro e fuori di noi.

«Il bilancio del bene e del male della mia vita è negativo…Al male non bisogna mai dare principio. Quando lo si è svegliato vive di vita propria, si moltiplica in proporzione dei buoni sforzi che si fanno per fermarlo, è una tenia che rinasce da ogni suo frammento».

E’ inquietante e malinconico osservare come anche il cristianesimo appassionato di Mariapia Veladiano tenda a circoscrivere fede, speranza e carità nei confini di un’illusione che non lascia scampo di fronte alle tenaglie del dubbio, alle seduzioni della negatività.

 

«Incroci» n.28, dicembre 2013

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VENDITTO

SERENA VENDITTO, MALÙ SI ANNOIA – MONDADORI, MILANO 2020 (ebook)

Con l’ebook di recente pubblicazione {{Malù si annoia}}, {{Serena Venditto}} (Napoli, 1980) prosegue nella serie di racconti di successo dedicata al gatto detective Mycroft e ai 4+1 di via Atri 36, serie che ha ricevuto numerosi riconoscimenti e segnalazioni.

I quattro inquilini che condividono l’interno 5 di Via Atri sembrano tutti ugualmente tediati e in ansia per il prolungarsi della reclusione forzata causata dalla pandemia da Covid 19: in pigiama o in tuta, guardano partite di calcio alla TV, o fiction su Netflix, puliscono ossessivamente ogni superficie e mettono in ordine gli armadi, cucinano e litigano, punzecchiandosi a vicenda. La voce narrante in prima persona è quella di Ariel, che essendo traduttrice è abituata a lavorare da remoto e in solitudine: tuttavia ogni tanto le prende il magone per la nostalgia dei parenti e degli amici lontani, e allora si rifugia sul terrazzo a singhiozzare tra le lenzuola stese. Il suo fidanzato Samuel si ingegna ad aiutare i vicini portando a casa loro la spesa, il musicista Kobo si finge sereno, ma in realtà è preoccupato per la sua compagna che vive a Cremona, in piena zona rossa. Poi c’è Malù, archeologa in perenne ricerca di stimoli intellettuali e di brividi esistenziali, inquieta e curiosa, che soffre più di tutti per la noia e l’inattività.

Malù aspira ad avere sempre “{un problema da risolvere, un dato da apprendere ed elaborare, qualcosa da fare}”, altrimenti rischia di impazzire. Decide quindi di chiedere all’amico commissario Timoteo De Iuliis se per caso abbia tra le mani qualche caso da risolvere, per cui potersi valere della sua collaborazione.

Il poliziotto sottopone allora a tutti i coinquilini, e a Malù in particolare, l’indagine sull’omicidio di un giovane programmatore informatico, incensurato, introverso e solitario, di cui si era ritrovato nascosto nel materasso un hard disk esterno, protetto da una password alfanumerica. Malù, offrendosi eccitata di decriptarla, tenta di immaginare a cosa la vittima si fosse ispirata nell’inventarla, magari osservando un particolare del suo studio. Così, esaminando le foto inviatole dal commissario, scorge nell’arredamento tipico da nerd cinefilo dell’ucciso, un poster di un film di Tarantino e la riproduzione dell’uomo vitruviano di Leonardo. Ricostruisce quindi vittoriosamente la password attraverso una citazione filmica del profeta Ezechiele riletta al contrario, per arrivare a comprendere in conclusione che tutto il suo fiuto poliziesco era servito al commissario burlone per regalarle un diversivo anti-noia nella clausura collettiva.

Come morale del racconto, Serena Venditto suggerisce che l’antidoto alla depressione e all’indifferenza risiede nel mantenere rapporti affiatati e benevolenti con chi ci sta vicino: inquilini, fidanzati, poliziotti e gatti. Magari aiutando con una piccola offerta volontaria l’Ospedale Cotugno di Napoli, come invita a fare nella nota conclusiva dell’ebook a costo zero.

 

© Riproduzione riservata                    23 giugno 2020

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RECENSIONI

VENEZIANI

MARCELLO VENEZIANI, ALLA LUCE DEL MITO – MARSILIO, VENEZIA 2017

«Gloria dell’inutile e specchio di un destino superiore, il mito è la lettura del mondo che permette alla vita di entrare in un disegno più grande fino a elevarsi a impresa eroica e racconto epico. Il mito crea la leggenda e muove la storia». Con queste parole Marcello Veneziani, nel preludio al volume edito da Marsilio Alla luce del mito, introduce il suo omaggio – vero e proprio inno, peana e rullo di tamburi – a quella particolare e sorgiva forma di pensiero e di narrazione che è il mito. Con uno stile spesso aforistico, ricco di sentenze gnomiche, illuminazioni poetiche e metafore liriche, l’autore intende celebrare una struttura teoretica che ha caratterizzato la forma mentis dell’umanità a partire dalle sue origini. Non tanto, quindi, una rassegna dei miti, antichi e contemporanei, che hanno fecondato le letterature mondiali (da quella greca a quella ebraica, dalle celtiche alle asiatiche…), quanto un’approfondita riflessione sulla natura e sull’essenza del mito come fondamento e radice dell’immaginario universale.

Le definizioni che Veneziani offre del mito sono molteplici e originali: magia, saga, parabola, meraviglia, manifestazione divina, visione, esperienza del sublime, metamorfosi, trascendenza, apoteosi dell’indelebile, mimesis, sublimazione, musica, poesia, resurrezione, rinascita… Altrettanto immaginifiche e proverbiali paiono, nella loro perentorietà, altre formulazioni: «Il destino è l’albero della necessità, il mito è la sua fioritura; Entrare nel mito significa uscire dalla mortalità; Nel mito facciamo visita agli dei; Uscire dal mito è vivere spenti». Se «la nostra epoca è contrassegnata da fenomeni di seconda mitologia», falsi miti quali il successo economico, la forma fisica, il sesso ridotto a libido, l’astrologia, l’occultismo, il cinema, la pubblicità, l’ideale di purezza e genuinità (nei rapporti sociali, nell’alimentazione, nell’ambiente), Veneziani è ferocemente critico riguardo ad essi.

«Nella società cieca, priva di visione del mondo, la prospettiva di ciascuno è nella sua feritoia o nel suo campo d’accesso alla rete… Ciascuno ha la sua collezione di figurine… Mille visioni del mondo, private, superficiali e cangianti, a cui votare la solitudine di spettatore… Il mondo sono io, e il selfie lo certifica». In questa desolante prospettiva di solipsismo individualistico, di mancanza d’interesse per la comunità e i suoi bisogni non solo materiali, per la tradizione e per il futuro, l’unica universalità rimasta in ogni latitudine del globo è quella della tecnica, delle merci, della finanza, dei media. Spetta allora forse al mito, alla sua rifondazione e riscoperta, offrire agli esseri umani nuova linfa vitale e sostegno, volontà di tornare alle origini del pensiero.

«Nel mito è la vita ulteriore che esce dalla dimensione soggettiva, temporale e occasionale per entrare nella sfera del destino, dell’origine, della comunità. Nel mito avviene la liberazione dall’ego, l’eutanasia del soggetto». Esso è l’unica immortalità concessa ai mortali, capace di oltrepassare le situazioni presenti, predisponendo alla bellezza e al dono, al sacro e al divino, senza diventare dogmatico, prescrittivo, didascalico come molte fedi religiose o ideologie politiche. L’unica possibilità che abbiamo (e qui la tesi di Marcello Veneziani diventa provocatoriamente interessante) di opporci sia al tecnicismo globalizzato, funzionale alla finanza e al capitalismo disumanizzante, sia a una filosofia ormai esangue, svuotata di valori e significati, dominata dallo scientismo e dal pragmatismo, è il recupero di un orizzonte spirituale e universale, sovratemporale e simbolico. «Alla filosofia resta il tragico ruolo di abitare l’intervallo tra la notte mistica e il neon della tecnica, tra gli dei e gli algoritmi».

Il riferimento esplicito da cui traggono spunto queste tesi è ovviamente il pensiero idealistico, mistico, trascendentale da Platone a Jung, attraverso i più noti studiosi del mito e del sacro, dell’illuminazione artistica e del sacrificio eroico: Otto, Eliade, Kerenij, Malinowski, Frazer, Kerény, Levi Strauss, riletti insieme a Borges e Jünger, a Tolkien e Eliot, a Hillman e Girard, a Evola e Sorel, a Bachelard e Zambrano; in compagnia dei nostri Giorgio Colli, Roberto Calasso, Cristina Campo, Andrea Emo, Furio Jesi, Elémire Zolla. Stranamente non vengono citati, nemmeno in bibliografia, altri grandissimi contemporanei, Emanuele Severino, Pierre Hadot e Jean Pierre Vernant, studiosi dell’Essere e del Tempo, del pensiero classico in antitesi alla contemporaneità. Il messaggio di Veneziani rimane comunque scolpito nella sua evidenza: «La civiltà avrà un futuro se riprenderà a mitificare, ossia a generare simboli, riti e racconti e a proiettarli nell’avvenire. Viceversa la decadenza si farà estinzione. Non c’è aspettativa di vita senza proiezione, senza trascendere il momento in corso».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Alla-luce-del-mito-Veneziani.html    15 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VERBARO

GIUSI VERBARO, IL VENTO ARRIVA DA UNO SPAZIO BIANCO – INTERLINEA, NOVARA 2013

Con questo arioso endecasillabo che dà il titolo al libro, Giusi Verbaro introduce da subito la metafora fondante che attraversa le tre sezioni del volume: vento inteso come spirito, anima vivificatrice del mondo, turbine che scompagina, assedia e libera, «rabbioso che soffia», «che trascina le memorie», «che scompiglia i nomi», «che rinnova, a primavera, / il profumo dei tigli sul viale». Vento, quindi, come metafora della poesia, capace di permeare e travolgere cose e parole, vite e sentimenti, originata misteriosamente e misteriosamente posseduta da pochi, privilegiati, interpreti… Da questo soffio energico la poetessa si lascia penetrare e plasmare: «Affacciarsi nel vento e dal vento / lasciarsi poi scolpire / e levigare come cera molle». E’ un vento che nasce da uno spazio bianco e vergine, di silenzio e di ascolto: da un altrove non conosciuto, di sogno o di estasi, di altezza irraggiungibile o di insondabile profondità. E infatti sogno è un altro dei termini chiave di questa raccolta poetica, insieme ai paesaggi lunari, alle risacche marine, e ad altre «essenze misteriose» e quasi esoteriche. Allora echi, ombre, fiati, fantasmi, «stranite stanze», «città bianche e spettrali», «creature alate», «anime pellegrine», «sussulti del cuore», aleggiano impalpabili nei versi, animandoli e forse turbandoli: «Lunga notte d’inverno, buia come più buio / è il misterioso perdersi – negati alle presenze / e ai rovelli consueti – e dopo ritrovarsi».
E i morti, questi cari ed eterni assenti, spesso più vivi e incombenti dei vivi, parenti che hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite, scrittori che hanno ispirato i nostri pensieri, maestri di poesia in passato vicini e ora ancora più stagliati nella memoria: «Come sospesi e teneri sono i passi dei morti / e come i morti tornano, liberi ormai dai nomi / così come dal peso degli affanni», «Li chiamo tutti piano i nostri morti», «I morti hanno una loro quieta astuzia: / trovano mille modi per rivelarsi / per restare accanto: una folata rapida di vento».
La madre della poetessa, «gravata dalla pena/ di non voler andare», «già lontana/ libera come un alito di foglia», «mia madre – adesso senza peso e senza luoghi»; ma anche teneri amici che hanno accompagnato la sua esistenza per tratti più o meno lunghi; e i grandi nomi di amati poeti novecenteschi, ricordati nelle epigrafi che introducono ogni poesia, e molto citati, assorbiti, ripetuti, imitati nelle cadenze più tipiche (Montale, Luzi e Caproni, soprattutto).
Le tre sezioni che compongono il volume (la prima, dedicata alla città della formazione, della cultura e della maturità, Firenze: con le sue atmosfere surreali e spirituali; la seconda, immersa nella fisicità della Calabria nativa: «mi abbraccia un sogno d’acque e mi sommerge»; la terza, dedicata alle presenze più intangibili, fragili e salvifiche: gli angeli, «Creature incorrotte… Ci vivono d’attorno invisibili e alteri») sono in realtà «una narrazione ininterrotta di sentimenti e di ricordi, di rievocazioni trasognate e oniriche, di omaggi e rimandi, in un unico concerto di voci e di richiami», come ben evidenzia Giuseppe Panella nella sua postfazione. Pertanto il vento che anima questi versi di Giusi Verbaro va letto, secondo il prefatore Daniele Maria Pegorari, come «l’insieme delle “parole che credevamo perse”, è il coro delle voci sparite dal dominio dell’esperibile, ma sopravvissute nello spazio della memoria e della letteratura, e che da qui continuano “a riannodare i fili” che l’insipienza umana tronca o ignora». Orgoglioso recupero della nostra tradizione letteraria, quindi, in questa poesia, e adesione convinta e riconoscente all’affettività del ricordo, così come si perpetua nei luoghi e nei sogni, nelle evocazioni e nelle attese, in ogni «spazio bianco».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

VERLAINE

PAUL VERLAINE, ROMANZE SENZA PAROLE – FELTRINELLI, MILANO 2016

Con introduzione e traduzione di Cesare Viviani, e testo originale a fronte, Feltrinelli ha pubblicato nell’Universale Economica la raccolta Romanze senza parole, che Paul Verlaine scrisse intorno al 1870, in un periodo tra i più tormentati della sua vita. «Il cielo è di rame / senza chiarore alcuno. / Sembrerebbe di vedere / la luna vivere e morire. // Bolsa cornacchia / e voi, lupi magri, / con questi venti aspri / che cosa vi succede? // Nell’interminabile / noia della pianura / la neve incerta / luccica come sabbia». Sono versi, delicati e musicali, tratti dalla sezione Ariettes oubliées, in cui si esprime al massimo grado la sensibilità del poeta per i colori e i suoni della natura, la sua ricerca di una rispondenza interna con il paesaggio e tutto ciò che lo anima. Quasi che Verlaine cercasse nella scrittura un’oasi di serenità e conforto dai turbamenti che in quegli anni lo rendevano schiavo della passione per Rimbaud, fino a condurlo al tentato omicidio e poi al carcere.

Viviani, nel sottolineare «la costruzione incerta e cauta, sostenuta e sensata, dell’esistenza e dell’affettività di Verlaine», mette giustamente in guardia il lettore dal voler leggere l’opera di qualsiasi scrittore attraverso la lente della sua biografia, caricandola di significati indebiti o prevaricanti. In effetti in queste poesie Verlaine pare volersi innalzare al di sopra di ogni dato di concretezza, per immergersi nell’assoluto della sensazione, in un oblio del sé che conduce all’armonia con il tutto: «L’ombra degli alberi nel fiume nebbioso / si dissolve come fumo / mentre nell’aria, tra i rami veri, / gemono le tortore», «Il cielo era troppo azzurro, troppo tenero, / il mare troppo verde e l’aria troppo dolce». Un eccesso di bellezza che la sensibilità del poeta sembra non riuscire a sostenere, e infatti afferma: «Bisogna, vedete, perdonarci le cose: / in questo modo saremo proprio felici».

Perdono, timore, gioia ineffabile, gratitudine religiosa, e l’amore che si manifesta in una sorta di estasi scorporante: «Ho paura di un bacio / come di un’ape. / Soffro e veglio / senza riposarmi: / ho paura di un bacio!», «Piange nel mio cuore / come piove sulla città; / che è questo languore / che penetra il mio cuore?» Nel rifiuto di ogni brutalità materiale, Verlaine aspira in queste Romanze senza parole a una spiritualità che si sappia fare puro suono e immagine, sogno e impercettibile carezza.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Romanze-senza-parole-Verlaine.html     10 ottobre 2016

 

 

 

 

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VERONESI

SANDRO VERONESI, NO MAN’S LAND – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2016

No Man’s Land è un film del 2001 diretto dal bosniaco Danis Tanović, ambientato nel 1993 durante la guerra serbo-bosniaca. La pellicola conobbe un grande successo, vincendo l’Oscar e il Golden Globe per il miglior film straniero.
Sandro Veronesi ha rielaborato – non si capisce bene con quali finalità – la sceneggiatura originale, traendone un testo di impianto teatrale in due atti, in cui i dialoghi scarni e veloci dei protagonisti si alternano alle indicazioni di scena, più didascaliche e talvolta pleonastiche: “È una danza grottesca, disperata… Scende il silenzio. Un cupo e minaccioso silenzio”.

La trama narra di due miliziani bosniaci che, rimasti isolati dalla loro pattuglia, trovano rifugio in una trincea deserta, a metà strada fra il fronte serbo e quello bosniaco, nella terra di nessuno che divide gli eserciti nemici. Due soldati serbi giunti in ricognizione affrontano gli avversari non solo con le armi, ma anche verbalmente, in un crescendo di accuse rabbiose, intercalate da un turpiloquio accanito. I quattro, scambiandosi vicendevolmente i ruoli di vittima e aggressore, si sfidano con pistole e coltelli, fino a che uno di loro viene ucciso e un altro viene steso sopra una mina balzante, pronta a esplodere alla prima incauta scossa.
Le parole smozzicate e deliranti dei soldati si confondono con le canzoni dei Doors e di Springsten diffuse da una radiolina, con i lamenti dei feriti, con le esplosioni dei proiettili, in un’atmosfera feroce che ricorda l’assurdo del teatro di Artaud o di Beckett.

Intervengono nel tentativo inefficace di prestare soccorso due membri dei Caschi Blu e un artificiere, bloccati nelle loro operazioni da superiori indifferenti e preoccupati solo di evitare scandalosi strascichi polemici e a inquinare il quadro già di per sé crudelmente tragico concorre una querula giornalista dell’emittente Global News, desiderosa di trasmettere in televisione uno scoop sensazionalistico.
Alla fine, uccisi gli altri due soldati superstiti, rimane nella trincea abbandonata solo il militare bosniaco sdraiato sulla mina, condannato a una sanguinosa e inevitabile immolazione dall’egoismo di amici, nemici e osservatori ignavi di una guerra fratricida.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/no-man-s-land-sandro-veronesi.html       3 agosto 2016

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VIA DEL VENTO

ANNA ACHMATOVA, FLEBILE E’ LA MIA VOCE ; MARINA CVETAEVA, IL RACCONTO DI MIA MADRE; ELISABETH VAN GOGH, MIO FRATELLO VINCENT – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2012

Via del vento è una piccola e raffinata casa editrice di Pistoia, fondata negli anni ’90 dal pittore Fabrizio Zollo, che in un ventennio è riuscito non solo a pubblicare importanti testi di narrativa e poesia di autori internazionali, costruendo un catalogo ricco e originale, aperto alla collaborazione di autorevoli studiosi e traduttori, ma anche a stimolare la vita culturale cittadina con molteplici inziative: mostre, concorsi, dibattiti. I libri che vengono offerti ai lettori hanno la particolarità di essere costituiti di poche pagine, in genere non più di quaranta: sono libriccini curati, eleganti, che propongono nomi rilevanti del nostro 900, soprattutto toscani (Bigongiari, Luzi, Manzini…), ma anche scrittori notissimi a livello mondiale e tuttavia lontani dalle mode imperanti e imposte dai media nazionali. Il prezzo dei volumetti non supera mai i quattro euro, e sono corredati da una breve postfazione critica e da una nota biografica sull’autore. Delle tre pubblicazioni di cui qui si vuole parlare, la prima è dedicata alla poetessa russa Anna Achmatova (1889-1966), e riporta ventisei liriche composte tra il 1912 e il 1963, lievi di tutta la delicata sensibilità di un timbro poetico assolutamente femminile («È flebile la mia voce… / e sono casti i miei pensieri… / Io perdono tutto»), e insieme cariche del dolore privato e politico che ha visto la Achmatova testimone e vittima di accadimenti tragici. C’è quindi la Storia, inflessibile e crudele con tutta la pesantezza di un potere che opprime («e innocente si contorceva la Russia»), ma c’è anche la leggerezza dei sentimenti che si confondono con il bianco immacolato della neve («Sulla dura cresta di un tumulo di neve / vaghiamo in un soave silenzio…»), con i trasalimenti degli amori che iniziano o stanno per finire, con gli addii ai poeti che hanno saputo regalare emozioni a un popolo sofferente («S’è azzittita ieri la voce irripetibile…»). Un secondo libriccino apparso nella collana Ocra gialla di «testi inediti e rari del novecento», raccoglie due racconti mai letti in Italia, che un’altra famosa poetessa russa, Marina Cvetaeva (1892-1941), scrisse tra il 1933 e il 1934, quando con il marito Sergej Efron viveva a Parigi, circondata dall’ostilità della colonia degli ebrei russi fuggiti dal bolscevismo. Protagoniste delle due novelle (che si differenziano dalla narrativa coeva della Cvetaeva per un loro tono vivace e gioioso, leggero e irriverente, dovuto forse alla memoria felice dell’intimità familiare vissuta dalla poetessa nell’adolescenza) sono Marina stessa – chiamata affettuosamente Musja – e la sorella minore Asja. Nel primo testo, Il racconto di mia madre, le due bambine si contendono l’amore materno in una sorta di gara dispettosa su chi sia tra le due la più amata («Mamma, a chi vuoi più bene, a me o a Musja? No, non mi dire che è la stessa cosa, non è mai la stessa cosa, ce n’è sempre una che si ama un pochino pochino di più… Un pochinino di più, una goccia, una briciola, un millimetrino di più»). E la madre si schermisce, cercando scampo nella narrazione truculenta di una favola dai contorni spaventosi… Nel secondo racconto Il fidanzato, le due ragazze, cresciute, si prendono beffe di un pretendente amorfo e goffo. Tolia era «di buona taglia e in carne, e, ahimè, tutto sudato…Era giovane, e se non bello, era per lo meno benevolo (e inoltre tutto quello che si vuole derivato dal bene: beneducato, benintenzionato, benpensante…): dagli occhi acquosi e inespressivi, girava intorno alle sorelle “come un gatto attorno al macellaio”». Il fidanzato rifiutato da entrambe si prende la rivincita diventato adulto: sposa una ragazza carina e ricca, diventa direttore di museo, assumendo Asja con un incarico umiliante, e poi scrittore di successo. Ma Marina Cvetaeva conclude crudelmente la sua narrazione con queste parole: «Solo, ecco, che genere di scrittore?». L’autrice del terzo volumetto è Elizabeth Van Gogh (1859-1936), quartogenita dei sei figli della famiglia Van Gogh. Ebbe anch’essa vita non facile, sebbene meno infelice di quella del fratello: la casa editrice Via del Vento propone ora una riduzione della breve biografia-ritratto (resoconto asciutto e oggettivo, senza particolari risonanze emotive) pubblicato nel 1910, a vent’anni dalla morte del pittore. Quasi ignorata dal celebre Vincent, primogenito di un pastore protestante, ne seguì con rispettoso ma forse poco partecipe sguardo l’esistenza tormentata e geniale, con le sue cadute, le vertiginose conquiste, le inquietudini. Così lo descrive nelle poche righe iniziali: “Corporatura tarchiata… testa bassa… capelli rossicci tagliati corti sotto il cappello di paglia, che faceva ombra a uno strano viso… occhi piccoli e infossati… dal suo aspetto sgraziato emergeva la profondità di tutto il suo essere. I suoi fratelli e sorelle gli erano estranei. La sua stessa persona gli era estranea, come lo era la sua giovinezza.” Ecco quindi che Vincent mangia poco e da solo, veste con noncuranza, evita i rapporti sociali («era a suo agio soltanto fra i poveri, i semplici e gli infelici»), fugge in continuazione da tutti i lavori e gli impieghi (commesso, commerciante d’arte, insegnante di francese, predicatore evangelico tra i minatori), cambia ansiosamente orizzonti (L’Aia, Bruxelles, Londra, Parigi, Anversa, Provenza), si accompagna a donne equivoche e a ubriaconi, soffre di disturbi mentali. Ha un’unica passione: la pittura, ancora incompresa dal pubblico e dai mercanti d’arte, a cui si applica con febbrile dedizione, disinteressandosi di qualsiasi aspetto materiale dell’esistenza. La sorella accenna ai suoi capolavori senza mai comprenderne totalmente l’assoluta novità ed eccellenza, solamente intuendo di Vincent l’eccentricità «fuori del normale», che rese la sua fine precoce assolutamente prevedibile: «Per lui, morire era più facile che vivere». Ecco quindi la testimonianza di tre donne che seppero puntare lo sguardo oltre il proprio vissuto, confrontandosi direttamente o indirettamente con la letteratura e l’arte, e diventando esse stesse parte della grande storia della cultura e del mondo: giusto e meritorio che una piccola casa editrice abbia voluto celebrarle.

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

RECENSIONI

VIANI

LORENZO VIANI, NERO D’AVORIO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2014

“Dipingi con pochi colori; tieni in grande onore il nero d’avorio, la terra rossa e gialla e verde, avrai così intonazioni sostenute e concrete”. In questa pubblicazione (a cura di Fabrizio Zollo) che raccoglie i pensieri sull’arte del pittore-incisore-scrittore viareggino (1882-1936), ed è arricchita da una documentata biografia, da immagini fotografiche e riproduzioni delle opere, numerose sono le indicazioni che Lorenzo Viani dava ai lettori riguardo alla genesi delle sue creazioni e al suo credo artistico. Una fede irriducibile e polemica nell’arte come visione spirituale, che diviene anche riflessione filosofica, impegno politico, inconciliabilità esistenziale con le mode culturali e ideologiche. Contestando esplicitamente il realismo, l’impressionismo e l’arte contemporanea (“L’impressionismo è contro lo stile. E’ la cronaca rispetto all’arte pura… resta alla superficie… la vericità è banale…), ma anche l’opulenza fastosa del Rinascimento e di ogni barocchismo, Lorenzo Viani esaltava “la luce dei primitivi, l’oro dei bizantini”, invitando i pittori a riscoprire Giotto e i medievali, e proclamando entusiasticamente che “Il bello è la rivelazione di una forma sepolta al di là del vero”. Quale fosse il destino e il compito del vero artista gli era chiarissimo: “Dipingere poco e riflettere molto”, “Il vero è relativo, la visione dell’artista è assoluta”, “Il dipinto deve essere una cosa evidente, tangibile, architettonica, logica, statica, maestosa, potente”. Diventare “costruttori” della propria arte, ignorando critici alla moda e salotti, cercando negli umili, sulla strada e tra i vagabondi la verità più solida dell’esistenza, era lo scopo della sua vita di uomo e di artista anarchico: “Col popolo e in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi… nella notte alta il mio lavoro andò di passo ai colpi del martello di mio fratello calzolaio… Se un’opera manca di passione manca di umanità, quindi è antinaturale, disumana, cinica, accademica…”.

IBS, 18 giugno 2014

RECENSIONI

VICHI

MARCO VICHI, LA SFIDA – GUANDA, MILANO 2014

Forse alquanto politically incorrect questo breve romanzo di Marco Vichi, per l’immagine che offre al lettore di Davide Yalta, handicappato dalla nascita, costretto su una sedia a rotelle, ebreo, ricco, colto: ma soprattutto caustico, irriverente, polemico, strafottente, rabbioso nei riguardi del mondo e di se stesso. Lo scrittore Trotti che lo incontra casualmente in un bar e che comincia a frequentarlo dapprima per curiosità, poi per noia, e poi per una sorta di inconscia rivalsa maschilista, non è molto più simpatico di lui. Vivono nella stessa “città di merda”, dove i “nativi…avevano sguardi obliqui, brutti, diffidenti, le facce offese”. Davide, essendo ebreo, ha ovviamente un sorriso diabolico, un naso impegnativo e un’intelligenza di molto superiore alla media: si diverte a mettere in imbarazzo i passanti e chiunque lo avvicini esibendo le sue gambette atrofizzate, provocando e respingendo la pietà del prossimo, inserendosi sadicamente in ambienti o situazioni difficili da gestire (davanti a scuole femminili, in ristoranti esclusivi e inamidati, nell’ufficio di un improbabile impresario teatrale), con l’unico evidente scopo di irritare il prossimo, e di svelarne il comportamento ipocrita verso la disabilità: “Mi sono rotto i coglioni della compassione, non ne posso più di essere rispettato solo perché mi manca qualcosa…”. Si innamora di una bellissima vicina, Elena, ben sapendo che il suo corteggiamento verrà rifiutato: e a questo punto si inserisce nella loro schermaglia flirtante lo scrittore Trotti, non solo per indubbia attrattiva fisica nei riguardi della donna, ma probabilmente per fare un dispetto all’amico-nemico paralitico, di cui si sente insieme superiore e inferiore. Tra i due contendenti vince però la bella Elena, che li infinocchia entrambi. Trama non appassionante, indagine psicologica piuttosto scontata, stile accattivante e curato, con qualche cedevolezza soprattutto nei dialoghi, talvolta artefatti.

IBS, 18 gennaio 2015

RECENSIONI

VIGANO’

DARIO EDOARDO VIGANÒ, IL BRUSIO DEL PETTEGOLO – EDB, BOLOGNA 2016

 

Il volumetto che Monsignor Dario Viganò ha pubblicato nel 2016 con le Edizioni Dehoniane, Il brusio del pettegolo, ha un sottotitolo esplicativo: Forme del discredito nella società e nella Chiesa. Monsignor Viganò può vantare titoli legittimi per occuparsi di questa spinosa questione in ambito sia civile sia ecclesiale, essendo intellettuale stimato a livello internazionale, autore di rilevanti pubblicazioni sul cinema e sul mondo dei media, e avendo occupato incarichi prestigiosi all’interno del Vaticano e della Pontificia Università Lateranense. Da pochi mesi è stato nominato Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ma in passato è stato oggetto di polemiche e contestazioni che lo avevano costretto a dimettersi dal ruolo di Prefetto del Dicastero per la Comunicazione.

Già il titolo dell’introduzione al saggio (“La pietra più dura che esiste al mondo: la lingua”) mette in luce quanto sia pesante, dannosa e deprecabile l’abitudine alla mormorazione, al pettegolezzo (“figlio primogenito dell’invidia”), che finisce spesso per sfociare nella diffamazione e nella calunnia. Papa Francesco lo definisce un peccato diffuso e difficile da combattere: “Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida”.

Forza motrice, subdola e distruttiva, del pettegolezzo è appunto l’invidia, “che non desidera avere ciò che l’altro possiede; piuttosto, desidera radicalmente che l’altro non disponga di ciò che io non possiedo oppure ho perduto”. Il calunniatore, il cui perfido simbolo è il serpente, usa le armi della parola superficiale, ambigua e seduttiva per seminare sospetto e biasimo. Da studioso della comunicazione, Dario Viganò si propone di indagare in che modo la chiacchiera, la calunnia e la delazione riescano a innescare nella società, attraverso le pratiche dei rumors, strategie finalizzate a ottenere ascolto e consenso, per provocare l’esclusione e spesso l’eliminazione di un rivale o antagonista scomodo. I rumors sono sempre esistiti: ne è testimonianza il consiglio che la dea Atena diede a Ulisse, invitandolo a camuffarsi perché non si spargesse anzitempo la notizia del suo ritorno a Itaca.

“I rumors sono forme di comunicazione soggette a una continua rinegoziazione, testi aperti che possono conoscere infinite aggiunte ed elaborazioni, fin quando non vengono assorbiti dall’oblio collettivo. Vivono nello sfondo antico e diffuso dell’attività comunicativa reticolare”. All’epoca dell’oralità primaria, il passaparola utilizzava i modi della simultaneità e della compresenza: e ancora nei Vangeli la relazione tra Gesù, i discepoli, la folla dei seguaci e gli oppositori, era intessuta in questo modo, creando legami sociali di unione, riconoscibilità o di opposizione. Più tardi, con l’avvento della scrittura, la chiacchiera veniva sviluppata dai pamphlet e dai testi di parodia.

La forza strategica dei rumors si è amplificata con l’avvento dei media digitali, e soprattutto con lo sviluppo dei social, che grazie alla loro natura conversazionale alimentano in maniera esplosiva la circolazione di pratiche narrative capaci di coinvolgere progressivamente e rapidamente un numero enorme di attori sociali. La propagazione di virus comunicativi viene utilizzata economicamente nel commercio online, nelle strategie pubblicitarie, in operazioni di propaganda politica, in cui il recettore del messaggio finisce per assumere funzioni di autorialità o co-autorialità. Le fake news presenti sul web si diffondono volontariamente, con un atto autonomo e intenzionale di comunicazione che produce riverberi volutamente programmati per generare coesione e/o isolamento sociale. Quali sono le caratteristiche dei rumors? Per ciò che riguarda il contenuto “sono un genere di discorso onnivoro”, che può avere come oggetto qualsiasi argomento; dalla vita dei vip alle leggende metropolitane, dagli allarmismi delle pseudoscienze al successo di libri e film, dalla politica alla religione o allo sport. Si attivano a partire da un evento non verificato ma credibile, portatore di grande impatto emotivo, trasmesso da persone ritenute attendibili e spesso introdotto ad arte nel circuito informativo con evidenti scopi strategici.

È un processo collettivo, non lineare, che coinvolge diversi attori con differenti ruoli e responsabilità, realizzando effetti di distorsione che si autoalimentano secondo il numero dei soggetti e dei media coinvolti nella trasmissione e diffusione della notizia. Un racconto originato da un fatto presunto, si trasforma in una narrazione complessa che nel tempo si arricchisce di sempre nuovi dettagli e sottintesi, in una catena di rimandi divulgativi realizzanti coesione e consenso, psicologicamente finalizzati a produrre aggressività verso un oggetto, o difese da paure comuni. L’obiettivo ultimo di queste comunicazioni virali è comunque politico, teso a creare conformismo sociale, obbedienza acritica, ottundimento del giudizio individuale.

Il pettegolezzo, diffuso in ogni ambiente (Monsignor Viganò si sofferma particolarmente su quello ecclesiastico) ha in genere motivazioni affettive di amore/odio, o di interesse professionale, e tende a generare discredito o approvazione su un fatto o personaggio di rilievo: non avrebbe alcun successo se l’ambiente circostante non fosse recettivo, riproduttivo e malignamente interessato alla diffusione. Veicola ostilità e disprezzo, aspira a umiliare e svilire il prossimo: più subdolo, anonimo e sotterraneo dell’atto di aperto bullismo, è in grado di ottenere conseguenze socialmente devastanti, e in genere procura un sottile, indubbio piacere e un sentimento di rivalsa in chi lo pratica.

 

© Riproduzione riservata       17 gennaio 2020

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