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RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, PAESAGGIO – EDIZIONI DEL MEDITERRANEO, ROMA 2020

Con la silloge Paesaggio Dino Villatico ha vinto lo scorso anno il primo premio del Concorso di Poesia È un brusio la vita. Omaggio a Pier Paolo Pasolini, organizzato da EuroMed University. Le Edizioni del Mediterraneo hanno quindi pubblicato questa pregiata raccolta di dieci poesie, con la prefazione e l’icastica immagine di copertina di Paloma Criado,

Dino Villatico (Roma, 1941) è critico musicale e classicista, ed entrambe queste sue qualifiche rispecchiano la loro natura costitutiva nell’equilibrio armonioso ed elegante dei versi. Il paesaggio del titolo fa da sfondo a una pacata e malinconica meditazione sul trascorrere inclemente del tempo e sull’avvicinarsi del congedo dal mondo: dalle persone amate (“le mani, le carezze, i baci”), dagli oggetti cui si affidano le rassicuranti abitudini quotidiane, dallo spazio materiale che accoglie pensieri e gesti.

Nei dieci componimenti, l’atmosfera serena e rasserenante di ciò che attornia il poeta sembra avere vita autonoma, indipendentemente dal suo sguardo: “Eppure il sole brilla sul giardino, / scalda le foglie, e accarezza il dorso / del gatto che accucciato sul tappeto   /        del dondolo si gode il sonno lieve / degl’innocenti”. Una mosca che ronza sui vetri, il gatto “rosso, furbo e ladro”, gli uccelli che salutano nell’aria trasparente, sono creature innocue e ignare della precarietà dell’esistenza, cui aderiscono con spontanea e candida immediatezza. Esse godono del loro semplice esserci, diversamente da chi le osserva con incantato stupore, tristemente conscio di quello che perderà lasciando la propria forma mortale: “La vita che ci assedia si conclude / nel buio di un terrifico silenzio”.

Tutt’intorno, “quanta bellezza” (nelle colline verdi fuori, nei “troppi libri” dentro casa), gratuita e insieme crudele, perché rende più dolorosa l’idea del distacco. Alla visione ammirata del fulgore della natura, fa da contrappunto la meditazione sulla fine, non solo su quella personale – per quanto temuta e addolorante perché silenziosa, fredda e solitaria –, ma sulla morte cosmica di stelle e pianeti, che trascinerà nel nulla ogni respiro, sentimento ed espressione artistica a cui l’umanità intera aveva affidato il compito di preservare la sua grandezza. Musica, pittura, poesia e straordinarie opere architettoniche saranno assorbite nel buco nero del niente. La paura individuale si fonde con l’angoscia provocata dalla visione dell’inabissarsi dell’universo nel vuoto: “ma là fuori, e qua dentro, dappertutto,     /        mi terrorizza, imperturbata, sorda, / l’indifferenza stabile del tutto”. Buio e gelo, “inaffollato inferno” attendono anche chi ha sperato di lasciare traccia di sé nelle proprie opere: “Un tratto di cammino, qualche impronta / ricorderà per qualche tempo il tuo / passaggio, se la strada è di terriccio. / Ma un alito di vento, qualche goccia / di pioggia cancelleranno le impronte”.

La stessa attonita disperazione che anima la grande poesia mondiale, dai greci ai nostri Leopardi e Montale, vibra nella “calma densa / d’impreviste domande, e di risposte / impronunciate” di Dino Villatico, che in queste dieci composizioni offre, attraverso la composta dolcezza dei versi, un piccolo trattato filosofico sulla vanitas vanitatum dell’esistenza.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 20 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, ECOGRAFIA DI UN CONGEDO – LADOLFI, NOVARA 2021

Ci si sottopone a un’ecografia per scoprire qualcosa di non rilevabile in superficie, che magari duole, ma di cui si teme l’evidenza, la manifestazione. Lo svelamento di una sofferenza taciuta, forse inconsciamente negata, ha la stessa dolorosa e cruda intensità di una diagnosi medica avversa.

Dino Villatico, con Ecografia di un congedo, si fa esploratore e analista di se stesso, raccontando di un amore giovanile, recuperato nella memoria con tutta la malinconia, i rimpianti, i sensi di colpa, ma anche l’intensa felicità vissuta e in seguito angosciosamente persa. In sedici “referti” (ancora un termine scientifico, a indicare una precisa volontà razionalizzante), un epilogo e un post-scriptum, l’autore rivive il suo rapporto con Martin, insegnante americano ventottenne conosciuto a Roma all’epoca degli studi universitari, con cui aveva stabilito una profonda amicizia e un’intesa sentimentale durata alcuni anni, cementata da arricchenti scambi culturali, distese conversazioni tra amici, sfide al pianoforte, e una casta, tormentata sensualità.

L’aver improvvisamente scoperto, attraverso una casuale ricerca su internet (“l’impotente / oracolo che ci avvelena il giorno”), la morte dell’amico avvenuta a New York nel 1997, lo induce a ripercorrere momenti di vita in comune, recuperando emozioni mai del tutto sopite. Così ammette di scriverne, non tanto per cercare consolazione, “ma per ritrovare, né so quando, / né so perché né come, conoscenza / di me stesso, quel punto in cui vacilla / la resistenza a confrontarmi nudo / con la mia nudità”, ritrovando “L’incompiuto, l’indeciso, / l’inaspettato che rimosso prende / forma”.

Una lunga confessione in endecasillabi, che hanno la cadenza pacata e colloquiale di una narrazione in prosa, quella che Dino Villatico intesse nel monologo rivolto all’assente amato (“l’assente che confonde le mie notti, / che mi devasta il giorno”), al lettore, e infine alla propria sfibrata coscienza, con lo sprone a una riflessione più vasta su cosa significhi esistere individualmente e nel rapporto con gli altri. Scampoli di episodi si rincorrono e si intrecciano nella rievocazione del legame con Martin: dalla frequentazione quotidiana a Roma (il primo incontro al Pincio, “non ancora al buio e intorno /  tra le statue altra gente che si cerca”) alla presentazione delle reciproche madri (l’una affettuosamente comprensiva, l’altra severamente censoria), dal soggiorno in America (prima in California, poi a Boston) ai libri letti e alle musiche ascoltate insieme, fino all’inevitabile addio, deciso per far sopravvivere l’amicizia rinunciando a una più coinvolgente relazione sessuale. I vent’anni di silenzio seguiti alla separazione si rivelano lacerati dal rimorso, quando l’io narrante scopre che l’amico ha posto fine volontariamente alla sua vita: ne è testimonianza il Referto 11, in cui la percussiva anafora “se avessi” esplora tutte le possibili azioni mancate (per pudore, paura, rancore) che avrebbero potuto evitargli il suicidio.

La tragica vicenda personale si iscrive allora nel quadro universale in cui i singoli destini sono determinati dal caso (la Thyche dei greci) o dalla necessità che rende gli uomini comparse inessenziali nell’indifferente ciclo cosmico, privo di qualsiasi finalità o scopo: “noi, fatui   /         pupazzi del destino, noi che stolti / ci crediamo padroni di noi stessi,   / e padroni del mondo, mentecatti!”, “tra i minerali, / tra le pietre, tra gli astri, tutto il cosmo,  / è un solo inascoltato urlo di morte”. Lo “strano animale” chiamato “sapiens sapiens” è in realtà un’ombra, “un verme, / un insetto, un batterio”: alle sue domande sul senso del vivere, del morire, del soffrire, né scienza né filosofia sanno fornire risposte. Il poeta cerca conforto nelle parole dei grandi: Omero, Saffo, Orazio, Dante, Petrarca, Shakespeare, Calderón de la Barca, Leopardi sono suoi interlocutori privilegiati, ma ormai neppure loro riescono a redimere l’insignificanza dei giorni, il tormento di notti insonni.

La “disaffezione del presente” persuade a un ritorno, non solo tematico, ma anche stilistico, al passato. Ne sono un esempio l’uso di termini inusuali e classicheggianti (indarno, sempiterni, speco…), e la frequenza di costrutti sintattici ereditati dalla lingua latina, come l’aggettivazione che precede il sostantivo (crudele Parca, invidioso dio, orbata madre, lacrimato amico, fertile valle, immoto sasso, verecondo raggio…), o la domanda di matrice leopardiana rivolta alla natura (Ode al monte Soratte) affinché indichi agli esseri umani,  con la sua offerta di gratuita bellezza, una giustificazione al vano “dolore di sopravvivenza”. Forse solo l’amore potrebbe dare significato alle ore cupe e intimorite nel silenzio: ma se anch’esso si dissolve nel niente, nel vuoto, nella morte, allora meglio sarebbe essere altrove, essere altro: “Dicono che le piante, quando sono   /       potate, non dovrebbero soffrire. / Ecco, ora vorrei essere una pianta”.

© Riproduzione riservata            «L’Indice dei Libri del Mese» n.11, novembre 2021

 

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VIOLANTE

LUCIANO VIOLANTE, LA DEMOCRAZIA NON È GRATIS – MARSILIO, VENEZIA 2023

Nel 1992 i paesi democratici nel mondo erano 76, oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in una democrazia, mentre il 38% patisce condizioni di totale assenza di libertà e il 42% è sottoposto a regimi parzialmente autoritari. Partendo da queste scandalose e preoccupanti statistiche, Luciano Violante nel suo pamphlet La democrazia non è gratis firma una difesa vibrante dell’unica forma di governo che garantisce ai cittadini libertà e diritti, ed è in grado di correggere i propri difetti senza mutare i suoi caratteri fondamentali, assicurando la possibilità di critica e il ricambio pacifico delle classi dirigenti.

Gli stati democratici ancora esistenti, sebbene in numero sempre più minoritario, attualmente sono minacciati e vilipesi all’esterno e all’interno dei loro confini, quasi esistesse un disegno strategico volto a mettere in crisi le loro basi ideologiche. Ad attuare tale offensiva sono in primo luogo le “tirannie elettive” esercitate da uomini arrivati ai vertici del potere assoluto non attraverso un colpo di Stato ma con un’elezione. È il caso, per esempio, di Vladimir Putin, Viktor Orbán, Recep Tayyip Erdoğan, del leader indiano Narendra Modi o di Xi Jinping, che governano più della metà del mondo, aspirando a una leadership politica totalizzante. “Sono embrioni di una nuova Internazionale, integralista e reazionaria”, che ispirano formazioni politico-religiose ostili al pensiero e al modello di vita occidentale: hanno il dispotismo come regola fondamentale d’azione, respingono la laicità dello Stato, disconoscono i diritti di libertà individuale, e pongono il tradizionalismo alla base delle relazioni familiari, sociali e sessuali. Secondo Violante esiste un’effettiva aggressione culturale contro l’Occidente, anche nei metodi attuati dalla cancel culture, che tende a interpretare la nostra storia come sopraffazione e corruzione morale e intellettuale. L’autore si sofferma a esaminare soprattutto le politiche attuali di Russia e Cina che, diventate negli ultimi decenni potenze tecnologiche, militari e finanziarie, non hanno però mai adottato le regole delle liberaldemocrazie, fondate sul pluralismo, sull’equilibrio dei poteri, sulla libertà di opinione e di espressione, sulla condanna di ogni differenza etnica, religiosa e di genere tra la popolaziome-.

Eppure, anche nei paesi democratici persistono evidenti limitazioni dei diritti umani fondamentali, e inaccettabili discriminazioni tra diverse categorie di individui: la democrazia è in crisi anche là dove sembra prosperare. L’occidente capitalista paga gravi errori nella difesa del suo presunto primato etico e ideologico: si è infatti macchiato di narcisismo politico, arroganza militarista, promozione di un mercantilismo incontrollato. Si è illuso di esportare il proprio modello di sviluppo alla stregua di un qualsiasi bene di consumo, anche attraverso l’occupazione militare, fallendo clamorosamente nei suoi obiettivi di conquista.

In Italia modelli politici demagogici e populisti hanno accentuato una serie di problematiche radicate da secoli; la lunga assenza di uno Stato capace di unificare il paese ha provocato una “perenne contrapposizione non solo tra classi sociali, ma anche tra appartenenze politiche, territoriali, professionali, corporative”. La nostra nazione è oggi indebolita da tre fragilità: l’instabilità politica, la disattenzione nei confronti delle giovani generazioni, la mancanza di un adeguato senso civico, espressa sia nell’inadempienza dei doveri fiscali sia nella mancanza di solidarietà verso gli strati popolari svantaggiati. Da alcuni decenni si è inoltre interrotta la tradizionale relazione tra politica e cultura, tra chi esercita il potere e chi lavora nelle università e nella scuola, dove il ruolo degli insegnanti è stato umiliato e privato dell’autorevolezza dovuta. Il tono di Violante si fa particolarmente esacerbato quando accusa la politica italiana degli ultimi trent’anni di avere assunto “i caratteri di una spregiudicata televendita”, e mette sul banco degli imputati Berlusconi, Renzi e il Movimento 5 Stelle, trascurando però le colpe di inefficienza, immobilismo e scarsa rappresentatività del proprio partito, il PD.

Come recuperare prestigio, fiducia e orgoglio nella democrazia? Essa “è un bene costoso, perché chiede la rinuncia attuale ad alcuni egoismi individuali in vista di un futuro benessere collettivo. Le democrazie funzionano quando i cittadini si assumono sino in fondo le proprie responsabilità, superando la malattia dell’indifferenza, frutto dell’apatia di alcuni e della disillusione di altri”.

Il primo pilastro su cui si basa ogni stato democratico è il rispetto delle persone, delle istituzioni e delle cose, che non va imposto solo legalmente, ma soprattutto attraverso un incessante impegno educativo, e lo sforzo di tutti nel superare peronalismi, egoismi e indifferenza, nell’evitare una conflittualità polemica e dannosa, nel privilegiare la collaborazione rispetto all’aggressività, anche verbale, verso l’oppositore. A conclusione del volume è riportata una lettera del partigiano Giacomo Ulivi, che fucilato a diciannove anni dalla Guardia nazionale repubblicana nel novembre del 1944, aveva scritto parole toccanti, richiamando i connazionali al proprio dovere non solo di cittadini, ma di esseri umani: “Dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali… Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra… il nostro interesse e quello della «cosa pubblica» finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 aprile 2023

RECENSIONI

VITALE

IDA VITALE, TEMPO INSOLUTO – ENSEMBLE, ROMA 2023

IdaVitale (Montevideo,1923)  poetessatraduttricesaggistadocente e critica letteraria uruguaiana, è la più longeva esponente del movimento Generación del 45 e dell’ essenzialismo sudamericano. La sua poesia rappresenta un punto di incontro fra l’attenzione sensoriale di radice simbolista ai fenomeni naturali e la profondità concettuale, caratterizzata da un’estrema concisione e da un linguaggio ricercato, ricco di metafore e acutamente ironico. La produzione poetica di Ida Vitale, da Luz de esta memoria (1949) a Tiempo sin claves (2021), ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi, come il Premio Octavio Paz (2009), il Premio Internacional García Lorca (2016) e nel 2019 il Premio Cervantes, massimo tributo letterario in lingua spagnola. Cresciuta in una famiglia colta e cosmopolita di lontane origini italiane, ha dovuto lasciare a più riprese l’Uruguay per ragioni politiche, trasferendosi dapprima in Messico e successivamente in Texas, dove è rimasta per trent’anni, sempre impegnandosi attivamente sia nell’insegnamento universitario, sia in ruoli editoriali e culturali di rilievo. Dal 2016 è tornata a vivere a Montevideo.

Nel 2020 Bompiani le ha dedicato la prima antologia uscita in Italia, Pellegrino in ascolto, e oggi la casa editrice romana Ensemble festeggia i cento anni della poetessa pubblicando la sua ultima raccolta, Tempo insoluto, a cura di Pietro Taravacci, che firma anche l’approfondita ed entusiastica introduzione. Il volume raccoglie una cinquantina di composizioni con testo originale a fronte, e spazia fra temi diversi: la natura, i ricordi, la creazione artistica, racchiusi tutti nella cornice della riflessione sul tempo. Il tempo lungo e lento del passato, quello veloce verso un futuro a scadenza ravvicinata.  “Raccolta liminare”, viene giustamente definita dal prefatore, questa che Vitale ha firmato con un titolo che nell’originale suona come “Tempo senza chiavi”, volendo indicare forse un’impenetrabilità all’interno, o un’impossibilità di varcare il limite esterno determinato dall’età: come se ogni pagina dovesse essere letta semplicemente per quello che esprime. Nessun pietismo o autocommiserazione, l’esistenza va accettata per quello che ha dato e continua a dare, regalo gratuito di bellezza da godere fino all’ultimo istante: “Giacché da niente puoi salvarti, prova tu a essere / salvezza di qualcosa. // Cammina piano, e vedi se, per tentazione, il tempo fa lo stesso”. Il paradiso è qui, insomma, basta averne e averne avuto coscienza: “un tempo qui ci era piaciuto molto”, “Paradiso: pace ma senza tedio, / la quiete anelata, ma anelante, / lievi incombenze, niente ozio/noia”.

La ricerca di un equilibrio tra gioia e sofferenza, attività e riposo, viene sottolineata dal desiderio di raggiungere e mantenere una tranquilla e consapevole serenità: “Dormirsene straniata / davanti a ciò che inizia / o forse, sta finendo. / Stare, alla mattina, / come a fine giornata”, “Un volume d’aria calma, / fuori dal corpo, dentro l’anima / tutto tranquillo, la successione / di passi, parole, silenzi, / la mancanza di ansie/ … e lo strepito mai”. La parola “fine”, così spesso ripetuta, insieme alla congiunzione “senza” (che il curatore scopre reiterata ben 63 volte nel volume) indicano certamente la consapevolezza di una privazione, presente e futura, di un’assenza e impossibilità di ulteriore sviluppo, ma non arrivano mai a esprimere paura o disperazione, piuttosto una rassegnata cognizione della realtà, e insieme la volontà di trovare motivi per proseguire nel cammino dell’esistenza. Consolanti ormeggi alla vita quotidiana sono quindi le presenze degli animali (corvi, farfalle, gatti, elefanti, conigli, delfini, tartarughe, cagnolini), della vegetazione (“sambuchi, salici e cipressi”, viticci, felci, tulipani), della pittura (“un Klee nel quale cantano i colori, / la geometrica linea, lo sproposito”) e della musica (“Solo aprirti alla musica ti salva”).  Oltre all’elegia, sia che indichi speranza o rimpianto, in Ida Vitale mantiene una decisa pregnanza la riflessione etica e teorica sul contrasto eterno tra bene e male: “Quando la luce fende l’ombra, / cos’è: raggio o spada?”, e l’indignazione civile per chi dal male trae profitto, per gli “operai del male” che fanno circolare “la loro gelata monetina”: “Forgiano il male lentamente, / con inclemenza, in giorni non contati, / giorni di trasandato sole,/ quando la notte inizia con fastidio”, “Il male con il male, fianco a fianco, /  il bene, senza alcun patto, solo”.

Davanti al nero della morte, della negatività, della cattiveria, abbiamo il dovere di glorificare la materia innocente, che esibisce la sua umile concretezza, incurante di ogni trascendenza. Dobbiamo riconoscenza a “una matita, / un foglio, di carta soltanto”, e al legno con cui sono costruite “le porte e le bare, / i pianoforti, i liuti”.

Nell’inventario del dato e avuto, Ida Vitale dedica al marito e mentore artistico Enrique Fierro, scomparso nel 2016, versi struggenti di nostalgia (“Tutto sembrava molto e fu breve”), ma ammette che i cinquant’anni vissuti insieme sono stati comunque un grande privilegio, così come gli arricchenti incontri con tante “anime amiche”. Tutto il bene goduto deve bastare “a compensare i danni di ogni giorno”, e alla soglia del centesimo anno la poetessa riesce a trovare dentro e intorno a sé la voglia e il bisogno di “incidere nel domani / quest’oggi così schietto, / così azzurro e dorato”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 20 marzo 2023

 

 

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VIVIANI

CESARE VIVIANI, LA POESIA È FINITA – IL MELANGOLO, GENOVA 2018

Cesare Viviani (Siena 1947) affianca all’attività letteraria quella di psicanalista. Come poeta, è partito da posizioni dadaiste (L’ostrabismo cara, 1973, e Piumana, 1977), ma in seguito il suo perc orso non ha trascurato cadenze dialogiche, narrative e talvolta epigrammatiche (Preghiera del nome, 1990, premio Viareggio; La forma della vita, 2005; Credere nell’invisibile, 2009; Osare dire, 2016). Come saggista, ha esplorato i territori della creazione poetica, dei processi mentali e della convivenza civile (La voce inimitabile. Poesia e poetica del secondo Novecento, 2004; Non date le parole ai porci, 2014).

In questo breve saggio pubblicato da Il Melangolo, Viviani ribadisce considerazioni note e condivisibili  riguardo allo stato piuttosto comatoso in cui si trova la poesia contemporanea: non viene letta (se non dai poeti stessi, e da una cerchia ristretta di loro amici, conoscenti, familiari e rari estimatori); non si vende (le case editrici sono giustamente recalcitranti a pubblicarla, in quanto operazione economicamente in perdita); non assicura più a chi la scrive né fama, né prestigio, né soldi o vantaggi professionali; si è paurosamente omogeneizzata nello stile e banalizzata nei contenuti; non riscuote interesse nemmeno da parte dei critici letterari più influenti. Sulla scia della Nobel lecture montaliana del 1975 intitolata È ancora possibile la poesia?, Viviani più provocatoriamente e perentoriamente afferma che La poesia è finita.

«… la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più chi erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario…».

Cos’è che condanna la scrittura in versi all’irrilevanza, secondo Cesare Viviani? In primo luogo, l’ignoranza della tradizione letteraria da parte di molti giovani e supponenti poeti, che si improvvisano tali senza la necessaria e doverosa preparazione, senza avere letto e meditato i classici e gli autori più importanti dell’ultimo secolo, limitandosi ad affollare i festival, a riunirsi in conventicole di illuminati (spesso al seguito di sedicenti Maestri più anziani, interessati narcisisticamente a crearsi un manipolo di fedelissimi). Altro importante motivo del declino della poesia contemporanea risiede nella sua corruzione, derivata dai linguaggi mediatici e pubblicitari contaminati da internet o dalle canzonette, infiacchiti da una prolissità artefatta e vacua che impoverisce non solo il vocabolario, ma anche le idee. Infine, secondo Viviani (ma perché, se è nato nel ’47, a p. 28 si dichiara sessantenne?) non aiuta a risollevare il livello e la considerazione del testo poetico il commento distratto e talvolta privo di reale competenza di molti critici, poco interessati a vagliare e a selezionare il prodotto di qualità dalla pletora di composizioni carenti di ispirazione e originalità, spudoratamente imitative, stilisticamente disinvolte, incentrate in prevalenza sulla biografia dell’autore.

«La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi», «…Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia».

Le posizioni polemiche di Cesare Viviani, espresse aforisticamente, in modo quasi oracolare, senza seguire un’organicità di struttura, con sussultanti ripetizioni, riflettono una sua ideologia di altero elitarismo, nel reiterato sottolineare quale debba essere la natura della vera poesia: inesprimibile e ineffabile, assoluta e sconvolgente, definibile solamente attraverso due termini che vengono ribaditi con la cadenza di un mantra, “limite” e “vertigine”. «Quando si dice che la poesia dice l’indicibile, si intenda non che riesce a dirlo, ma che esprime, rivela l’incapacità, l’impossibilità di dirlo. Dice il limite invalicabile», «Allora l’essenza della poesia sta in quella vertigine che si prova di fronte a un abisso: di fronte all’impossibilità di definizione e di sistemazione, di fronte a un vuoto di comprensione, a un’interruzione di senso».

Convinto della missione profetica e salvifica del verbo poetico, Viviani finisce per trascurare l’attività artigianale della composizione, il lavoro prudente e consapevole sui termini, il confronto e il rispetto dovuto alla produzione altrui. Scrivere poesia non sempre si riduce a un invasamento orfico, a un’illuminazione soprannaturale che non tollera valutazioni. Ignorando l’impegno attento e qualificato di molti stimabilissimi critici (Casadei, Cortellessa, Mazzoni, Belpoliti, Ossola, Brevini, Pedullà, Bertoni, Prete, eccetera…), Viviani non rende un buon servizio a chi voglia avvicinarsi alla poesia come autore o come semplice ma appassionato fruitore di testi. In fondo, proprio nel suo non essere utile e sfruttabile economicamente, quest’arte destinata a finire mantiene ancora uno scampolo di gratuità, sebbene la sua estrema democratizzazione odierna l’abbia in qualche modo resa meno “nobile e pura”.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 11 giugno 2018

 

 

 

 

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VIVINETTO

GIOVANNA CRISTINA VIVINETTO, DOLORE MINIMO – INTERLINEA, NOVARA 2018

Sulla copertina, due profili si fronteggiano, uno maschile e uno femminile, a suggerire il rispecchiarsi scisso di due personalità in una, di due corpi che si appartengono nella stessa pelle, riconoscendosi, cercandosi, rifiutandosi. Corpo e pelle sono infatti i sostantivi più reiterati in questi versi, realtà materiale e concreta a cui ancorarsi, da cui è impossibile e ingiusto prescindere.

La giovane autrice di questo intenso volume di poesie, Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994), si racconta sdoppiandosi in voci distinte e tuttavia compenetrantesi: la sua di oggi e quella dell’infanzia, la sua di figlia/figlio e quella di una madre presente-assente, il bisbiglio intimorito dell’autocoscienza e quello imperioso, giudicante, della società. Parla di perdita e scoperta, di morte e rinascita, metaforizzate in mani che si aprono carezzevoli o si chiudono severe, in luce e oscurità, in perdoni richiesti e rifiutati. La cesura, il taglio a cui spesso questa scrittura fa riferimento è senz’altro un accadimento fisico, ma insieme supera la fisicità, nella nostalgia di un’integrità recuperata (le due metà del mito del Simposio?) all’interno di un abbraccio amorevole e comprensivo, di un ritorno al ventre materno, all’umida conca di un terreno boscoso: che difenda, protegga e ricomponga. Quello di Giovanna è un continuo interrogarsi e interrogare, sé stessa e la natura, senza recriminazioni, anzi spesso cercando una razionalizzazione che si esplicita in terminologie scientifiche e mediche, con una prosaicità tesa ad arginare l’emotività dell’espressione poetica. Che tuttavia fuoriesce, irrefrenabile, dolore minimo che non accetta silenziatori: «Sarà che la voce interna fiorisce / solo a forza di strappi e toppe / mal ricucite – da lì sguscia l’anima».

La simbiosi con la figura della madre, il sovrapporsi del punto di vista tra chi ha generato e chi è stato generato, e chiede di essere messo al mondo di nuovo, trovando una corrispondenza fiduciosa e un incoraggiamento verso l’approdo a una vita realizzata, è affettuosamente evidente negli esiti più toccanti della scrittura: «Così l’attesa era la tua. / Aspettavi da anni come si attende / la salute ai piedi di un malato, / come chi ha perso qualcuno / smaltisce il male sulle scale / di casa. Quegli occhi erano / una preghiera, un inno muto / alla rinascita».

Giovanni e Giovanna si confrontano e si comprendono, uno nei confini dell’altra, in attesa dello schiudersi del bozzolo che li serra anima e corpo, aprendosi finalmente a un volo leggero: «Ci vollero diciannove anni / per prepararsi alla rinascita, / per trasformare la distanza tra noi / in spazio vitale, il vuoto in pieno, / il dolore in malinconia ‒ che altro / non è che amore imperfetto. Aspettammo / i nostri corpi come si aspetta / la primavera: chiusi nell’ansia / della corteccia. Capimmo così / che se la prima nascita era tutta / casualità, biologia, incertezza ‒ l’altra, / questa, fu attesa, fu penitenza: / fu esporsi al mondo per abolirlo, / pazientemente riabilitarlo». Ecco quindi che la voce giovane e matura di Giovanna Cristina Vivinetto sa fare dono della sua esperienza sofferta agli altri, anche a chi non capisce, a chi teme, a chi giudica. Ripercorrendo gli anni nelle varie sezioni del libro, da Cespugli di infanzia a La traccia del passaggio, fino al superamento del Dolore minimo in una ritrovata e consapevole ricomposizione di sé, l’autrice affronta una trasformazione, una metamorfosi, una migrazione (come suggerisce Alessandro Fo nella postfazione) che avviene attraverso la conquista della parola poetica, unica parola che salva tra le tante altrui (sbagliate, superficiali, indiscrete): «Per acquietare il male che lo assale / il poeta lo canta. // … Così il mio male si estingue / su ogni mio verso. Lo canto, / lo urlo per liberarlo dal groviglio / di pelle che ha contagiato».

© Riproduzione riservata         https://www.sololibri.net/Dolore-minimo-Vivinetto.html       12 maggio 2018

 

 

RECENSIONI

VOLLENWEIDER

ALICE VOLLENWEIDER, SAN MARCO NEL NEVISCHIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1990

Il resoconto di viaggio in letteratura ha ascendenze illustri e antichissime, a partire dal mitico itinerario dantesco, attraverso i percorsi artistici del Vasari e ai viaggi più o meno sentimentali degli scrittori inglesi del ‘700, fino alle affascinati cronache di Goethe e Stendhal, per arrivare ai reportages contemporanei di Parise, Pasolini e Moravia, talvolta più convincenti della loro stessa narrativa di invenzione. Oggi il viaggio viene per lo più raccontato con mezzi diversi dalla macchina per scrivere, soppiantata ormai da telecamere e obiettivi fotografici anche nell’esperienza diretta di scrittori e giornalisti. E proprio con la fotografia la narrativa di viaggio ha molti punti di contatto. Infatti, in un racconto come in un’istantanea, almeno tre sono i punti di vista e gli elementi interessati al fenomeno descrittivo: il fotografo (o l’autore-narratore), la persona o l’oggetto prescelto per essere inquadrato (o raccontato), e il pubblico fruitore dell’immagine o delle pagine espositive. Su queste e altre considerazioni fantasticavo leggendo l’ottima raccolta di articoli di viaggio di Alice Vollenweider, San Marco nel nevischio, pubblicata recentemente a Bellinzona da Casagrande. Alice Vollenweider, critico letterario zurighese, traduttrice, giornalista ed esperta di cucina, ha scattato in questi capitoli 10 “fotografie” italiane, dedicate a città del centro-nord della penisola. Non ha usato una Polaroid per questi suoi racconti, bensì una macchina sensibilissima, dagli obiettivi potenti e dalle zoomate rapide. Ha scelto sempre inquadrature particolari, sottraendosi alla banalità del bel panorama e dello spunto folklorico. Così di Milano non viene raccontata la Scala o il Duomo o la frettolosità laboriosa dei suoi abitanti; piuttosto, la funzionale vivacità del Mercato Ortofrutticolo o la storia dei Navigli o il fascino discreto dei bar nelle vie più anonime. Di Genova, l’autrice snobba la Lanterna e il porto per accompagnarci tra i vialetti del cimitero di Staglieno, con i suoi monumenti -molto sussiegosi e talvolta involontariamente umoristici- alla borghesia imprenditoriale e mercantile della città. A Roma non sono le boutiques di Via Condotti ad attirare l’attenzione della Vollenweider, quanto le edicole e le librerie stipate di merce invenduta e sorvegliata da commessi annoiati, oppure il ghetto ebraico, descritto in pagine partecipi e ricche di connotazioni. Per continuare nella metafora fotografica iniziale, è ovviamente l’Italia l’oggetto di questi ritratti, un’Italia non solo fisica e ambientale, ma svelata nelle sue facce e nelle sue chiacchiere, fissata in atteggiamenti atemporali e immodificabili, quanto in modi d’essere ormai desueti. Il lettore cui si rivolge il libro di Alice Vollenweider era inizialmente quello svizzero; gli articoli sono infatti stati pubblicati sulla Neue Zürcher Zeitung, pensati probabilmente per quei confederati che «si recano volentieri a Milano, a un’ora di macchina o di treno da Lugano, per fare acquisti, visitare mostre e mangiare veramente bene all’italiana, cosa sempre meno possibile nel Ticino gremito di turisti». Costoro avranno letto questi brani (scritti in tedesco tra il 76 e l’81) come un osservatore ignaro si pasce gli occhi davanti a foto che ritraggono particolari a lui ignoti, con stupore, interesse, curiosità via via crescenti. E il lettore italiano che li legge ora per la prima volta, in accurata traduzione? Come si sente la persona fotografata, magari a sua insaputa, e che nel rivedersi bloccata in un atteggiamento o espressione peculiare finisce per scoprire di sé cose che magari non sapeva, che non immaginava? Difetti, forse, o forse anche virtù, bellezze ignorate… Il lettore italiano, divenuto modello e pubblico insieme, potrà provare complicità e orgoglio di fronte a pagine che ritraggono le città immeritatamente trascurate della Pianura Padana (Parma, Modena), altre della costa tirrenica, oscurate dalla fama spesso usurpata di stazioni balneari più alla moda. Ma può sentire pure una leggera mortificazione, un senso di inadeguatezza personale (come giustamente avverte Luigi Malerba nell’acuta prefazione) davanti a questa passione gratuita per il Belpaese di una scrittrice straniera, davanti alla sua capacità di esaltarsi e di indignarsi, sorvolando generosamente su alcuni difetti e amareggiandosi per i vizi più ottusi. Il volume è sempre omogeneo e di piacevole lettura, nella leggera ariosità dei suoi dieci pezzi “giornalistici”, incastonati da altrettante presentazioni più intenerite e autobiografiche, e corredato da una ventina di splendide immagini in bianco e nero. Una galleria, appunto, di originali foto in prosa, impreziosite da cornici discrete ed eleganti.

«Agorà» (Svizzera), 23 maggio 1990

RECENSIONI

VOLODINE

ANTOINE VOLODINE, ANGELI MINORI – L’ORMA, ROMA 2016

Antoine Volodine è un autore francese di origini russe, nato nel 1950, che vent’anni fa ha esordito pubblicando romanzi di fantascienza, per passare poi a una scrittura da lui stesso definita «post-esotica»: non tanto (o non solo) nel senso di dislocata geograficamente in un’ambientazione extraeuropea, quanto invece fluttuante in universi ed epoche «dell’altrove», in grado di superare le barriere del tempo e dello spazio, combinando storia e mito, utopia e tragedia, sogno e realtà. Le edizioni romane de L’Orma propongono ora un romanzo di Volodine (principale pseudonimo dell’autore, conosciuto anche con gli eteronimi Litz Bassmann e Manuela Draeger), uscito in Francia nel 1999, celebrato dalla critica più raffinata e vincitore di importanti premi.

Angeli minori è un testo di non facile lettura, molto giocato sull’impalpabilità delle atmosfere, sulla visionarietà, sull’inconsistenza fisica e caratteriale dei personaggi, le cui vicende continuamente si intrecciano e si sovrappongono, creando conflitti emozionali, rispolverando memorie universali, o proiettandosi in un futuro angosciosamente apocalittico.
In effetti, i paesaggi descritti da Volodine sembrano essere stati stravolti e deturpati da una qualche inconoscibile invasione aliena, o da una distruzione nucleare, o da una indefinita catastrofe bellica: animati da ectoplasmi umani – zombie vaganti, sciamani, fantasmi che continuamente si dissolvono e si ricompongono – e disseminati di fabbriche in disuso, macerie, stazioni abbandonate, cimiteri. Nel deserto subsahariano come nella steppa russa, tra i ghiacci dell’Antartide e nelle pampas sudamericane, nella Parigi dei bistrot e nelle metropoli statunitensi, sotto un sole accecante o in una nebbia avvolgente vagano animali diversi (lama, avvoltoi, bucerotidi, orsi, lupi, renne, cammelli, formiche, bisonti) e fioriscono vegetali esotici (cocco, banani, alghe, rabarbari, licheni…). Il tempo si misura sia in secondi che in secoli, eoni ed ere cosmiche, visitato da figure angeliche «minori», cioè a dire imperfette, inquiete e allarmanti. Sono i personaggi ritratti in 49 «istantanee romanzesche» (possiamo forse intravedervi, per contrasto, un richiamo ai 49 racconti hemingwayani, tanto differenti nella loro concretezza e vitalità?), uomini e donne da nomi stravaganti accompagnati a cognomi improbabili (turchi, spagnoli, ebrei, africani, cinesi), che narrano avventure senza trama, sospese tra cronaca e leggenda, in «minuscoli territori d’esilio» dove sono state respinte dalle coscienze ordinate di un occidente letterario ormai privo di immaginazione e desideri.

Affabulazioni oniriche nate dalla voce di uno dei protagonisti stessi, Will Scheidmann, creatura diabolica o celeste, a metà tra Frankenstein, Mister Hyde e Sheherazade, creata artificialmente con degli stracci ricuciti a punto croce da un manipolo di vegliarde immortali (alcune bicentenarie, altre millenarie), rinchiuse in un maleodorante ospizio chiamato Grano Volpato. Tali megere, per vendicarsi della congiura capitalistico-mafiosa internazionale, avevano deciso in un’epoca imprecisata di insufflare vita organica a questo loro orrido e incolpevole nipotino, per poi condannarlo a morte tramite fucilazione, sentendosi da lui tradite ideologicamente. Will Scheidmann si salva dall’esecuzione, proprio offrendo alle vecchie questi 49 «narrat»: prose immaginose scandite da una musicalità ipnotizzante, in cui cela scampoli di memorie personali e collettive, dialoghi e silenzi, amori e violenze, sullo sfondo desolato di un’umanità che vaga verso il nulla.

Troviamo in questi racconti echi delle metamorfosi kafkiane e delle leggende yiddish, profezie bibliche e gli oceani di Melville, le invenzioni di Borges e le allucinazioni di Cormac McCarthy, le galassie di Philip K. Dick e gli orrori dei lager di Solženicyn. Ma riformulati in uno stile originale, che sa addentrarsi nei dettagli più minuziosi come in metafore di un barocchismo immaginoso (credo che il capitolo 23, dedicato alla descrizione degli effluvi olfattivi esalanti dalla polverosa casa di riposo in cui soggiornano le anziane maliarde, sia degno di antologia), sempre mantenendo però una sorta di indifferenza denotativa, che si vieta qualsiasi sentimentalismo o empatia con i protagonisti delle vicende narrate. Così infatti Volodine mette in guardia il lettore sulle sue intenzioni narrative:

Adesso ascoltatemi bene. Non scherzo più. Non si tratta di stabilire se quel che racconto è Soloo no, abilmente evocato o no, surrealista o no, se si inscrive o meno nella tradizione post-esotica, o se è mormorando di paura, arrossendo di indignazione che metto in fila queste frasi, o con tenerezza infinita verso tutto ciò che vive, o se si distingue o no, dietro la mia voce, dietro quel che si è convenuto di chiamare la mia voce, un’intenzione di lotta radicale contro la realtà o una semplice debolezza schizofrenica di fronte alla realtà, o ancora un tentativo di canto di uguaglianza, incupito o meno dalla disperazione e dal disgusto davanti al presente o davanti al futuro. Non è questo il punto. Insomma, una scrittura che si nutre di se stessa e delle proprie allucinazioni. Esemplarmente resa da Albino Crovetto, che è anche un poeta, oltreché un traduttore.

«Lo Straniero» n. 193, luglio 2016

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Angeli-minori-Volodine.html       18 agosto 2016

RECENSIONI

VOLPONI

PAOLO VOLPONI, POESIE GIOVANILI – EINAUDI, TORINO 2020

Paolo Volponi (Urbino, 1924-Ancona 1994) è stato uno dei più importanti romanzieri italiani del dopoguerra (Memoriale, La macchina mondiale, Corporale, Le mosche del capitale, La strada per Roma…), ma ha iniziato la sua carriera letteraria come poeta, e ha continuato a frequentare la poesia per tutta la vita. Aveva esordito infatti pubblicando tre libri di versi: Il ramarro (1948), L’antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960, premio Viareggio), che da una prima inclinazione pascoliana e simbolista, si erano evoluti verso temi più biografici e una maggiore pregnanza realistica.

Alla composizione poetica Volponi era tornato nella maturità con altre raccolte, uscite nel 1980-1986-1990 e riunite da Einaudi in un unico volume del 2001. Ora lo stesso editore propone queste Poesie giovanili, risalenti agli anni ’40-’50, rinvenute in tre fascicoli manoscritti e autografi nella casa di Urbino. Si tratta in massima parte di testi inediti, di cui nella nota finale vengono trascritte e commentate dalla curatrice Sara Serenelli le numerose varianti, le versioni depennate, le ricomposizioni e le correzioni apportate dall’autore nei decenni successivi.

Nell’epigrafe all’introduzione di Salvatore Ritrovato, viene riportato quanto lo stesso Volponi ebbe a chiarire nel 1988 a proposito della sua produzione giovanile (“Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura, perché avevo ansia di conoscere, perché non capivo esattamente dove mi trovassi, in che posizione, quale potesse essere il mio rapporto con il mondo”), definendosi folgorato da visioni e letture che lo ancoravano a “fatti lontani e magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le giornate o le ragazze”. Fatti non ancora direttamente collegati alla passione morale e alla vocazione politica che sempre lo ha animato da adulto (ricordiamo che Volponi fu a lungo dirigente all’Olivetti, attivamente interessato alle questioni economiche e alla realtà sociale del lavoro in fabbrica, e ricoprì importanti incarichi istituzionali nel PCI), ma già espressione di un’interiorità combattiva e lucida, capace di sdegni e ribellioni, seppure circoscritte nell’ambito dell’esistenza privata.

Questi versi giovanili, per alcuni tratti ancora acerbi ma già segnati da una notevole intensità espressiva, vanno letti come introduzione e apprendistato al lavoro poetico e narrativo posteriore, forse proprio nella scostante rigidità di alcuni contenuti, propedeutica alla severità etica dello scrittore maturo. Scontroso e insofferente, il ragazzo Paolo si mostrava nel relazionarsi alle figure familiari: “Mia madre / mi vede solo / come mi ha fatto. / Non cerca di più. / Ho messo ieri / una cappa incappucciata, / fra gli altri / non mi trovava. / Prese una smorfia / fissa / come un pupazzo di terracotta”.

La paura e l’ansia di conoscere da lui stesso attribuite alla propria inquieta giovinezza, hanno caratterizzato principalmente i primi rapporti amorosi e le donne incontrate (come recentemente ha suggerito Adriano Sofri su “Il Foglio”), che vengono spesso tratteggiate non solo con scarsa empatia, ma addirittura con una repulsione sbilanciata fino all’offesa volgare, sintomo di un’angoscia incontrollata e temuta: “Quel peso di piombo / nel ventre / ti salda alla terra. / Il corpo ti cola tutto / e le gambe gonfie / sono incredibilmente aperte. / Ti slarghi come un frutto maturo, / ed io sento lo schifo / di vederti dentro”, “Muoiano / l’un dietro l’altro / i figli tuoi. / Io rido / dietro pascendo / la mia maledizione. / Tu rimarrai / con il ventre / acido. / Tu che t’offristi / piena / a quell’uomo”, “Quella tua carne / con un rigo di sangue. / Nel taglio della ferita / garza gengivosa. / L’acutissimo vetro / t’ha aperta / con una naturalezza spaventosa. / Come se il sangue / annoiato / godesse d’uscire”, “Volevi ingannarmi. / Stringevi / le cosce, / e smaniavi / per la tua verginità. / T’ho tirata giù / dal letto / per i capelli, / nuda sul pavimento. / Mi sono rivestito / senza più guardarti”, “È colpa tua. / Mi ricordo dell’odore / perché eri poco pulita”, “Sei la croce dei campanili, / il tetto delle case, / la cupola dell’ombrello. / Vuoi stare / sempre sopra”, “C’è sempre qualcosa / in te, fisso, che non partecipa”, “Hai riso, / ed io avrei sputato / dentro la tua gola / aperta. //… Il cielo / non ti dia / ombra, né luce. / Ti salti una vipera / dentro la bocca aperta”.

Poesie del disamore, in cui non si legge nessuna dolcezza, nessuna descrizione di sorrisi dolci, guance delicate, capelli morbidi: e invece cicatrici rossastre, venine verdi sul collo, occhi affogati, gambe gonfie, ventri ansanti, pesantissimo fiato, bocca devastata… Versi prossimi all’invettiva, alla maledizione, al disprezzo, che mettono in luce la ripugnanza per i corpi fatti di carne, sangue e umori: una fisicità violenta poco conciliabile con l’ideale di liricità e astrazione esibita nelle raccolte poetiche successive. Anche il gusto della ricerca lessicale qui mantiene qualcosa di volutamente aspro, dissonante, provocatorio, nella proposta di termini scelti sulla base di un suono coriaceo, rappreso: gengivosa, ingaientato, smanati, appiccicosa.

Questa sfrontata improntitudine giovanile è indice forse di una ribellione alla claustrofobica mansuetudine dell’ambiente marchigiano (curato, gentile, verdeazzurro), avvertito come fastidiosamente retorico e soporifero. Secondo quanto recita la quarta di copertina, “anche gli elementi naturali, molto frequenti (fiumi, colline, alberi, animali, campi lavorati), non sono mai pacificanti ma partecipano di un tumulto interiore, tanto più forte quando il poeta non sa trovarne una ragione e un bersaglio prestabiliti”. I corsi d’acqua sono assordanti (“O fiume, smetti d’andare. / Fra le tue canne / fra i tuoi limpidi sassi / mai porterei una donna. / Come gli occhi, / me la ruberebbe / questo tuo sicuro andare / rumoroso”), la luna “muore / e perde sangue chiaro”, il cielo è vuoto, la strada consunta, i cani accecati, l’erba pallidissima, il pastore onanista.

In queste prime prove, Salvatore Ritrovato intuisce “una parola ancora saldamente posizionate sull’io, egocentrica, ma senza alcun compiacimento, affatto priva di autocommiserazione narcisistica, percorsa da una punta di gelida e feroce desublimazione”. L’esplicita volontà di evitare ogni sentimentalismo, di smorzare qualsiasi elegiaca liricità, non risulta evidente solo dall’ostentata degradazione delle esperienze sessuali, e dal rifiuto dell’idillio paesaggistico e di atteggiamenti consolatori, ma anche dalla scelta formale di un verseggiare scarno, frantumato, paratattico: lontano sia dall’ermetismo sia dal classicismo, e semmai propenso a ereditare le formule prosastiche che dall’America iniziavano a influenzare la poesia italiana del dopoguerra.

Paolo Volponi, pur continuando a rivedere e correggere queste composizioni giovanili, non le ha volute pubblicare in vita, adeguandosi nella produzione successiva a esiti meno aggressivi e polemici, in linea con la tradizione letteraria vigente. L’iniziativa einaudiana di recuperare gli inediti del suo primo affacciarsi alla creazione poetica permette al lettore di scoprire un carattere diverso e ignorato della sua produzione, rivelatore di un’inasprita inquietudine, e di un puntuto, risentito spirito dissidente.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 7 luglio 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

VUONG

OCEAN VUONG, IL TEMPO È UNA MADRE – GUANDA, MILANO 2023

Sono circa una trentina le composizioni raccolte in Il tempo è una madre, ultima pubblicazione italiana di Ocean Vuong, poeta e narratore statunitense di origini vietnamite. Nato a Ho Chi Minh nel 1988, emigrato con la famiglia nel Connecticut nel 1990, si è affermato giovanissimo nel panorama letterario americano affrontando temi autobiografici e sociali (la famiglia, l’omosessualità, lo sradicamento culturale, il consumismo) attraverso un linguaggio fortemente innovativo, che utilizza con intelligenza lo slang e la sperimentazione sintattica, la visionarietà di stampo cinematografico e la provocazione verbale.

Già la prima bellissima poesia introduttiva al volume, Il toro, contiene molti elementi identificativi del suo stile: dall’atmosfera onirica (la visione allucinata del bestione nero dagli occhi azzurro-kerosene), all’autoritratto di un sé stesso sfasato nel rapportarsi agli altri (“io ero un ragazzo – / il che vuol dire che ero l’assassino / della mia infanzia. & come per tutti gli assassini, il mio dio / era l’immobilità”), ai versi graficamente scomposti, al vezzo grafico di usare come congiunzione il carattere “&”, all’uso sapiente della metafora (“Come una cosa pregata / da un uomo senza bocca”), all’attenzione per i particolari ambientali (la lampada nel portalampada), all’esibita necessità di comprensione e tenerezza (“avevo bisogno che la bellezza / fosse più che un dolore mansueto / abbastanza da poterlo abbracciare”), fino allo scavo psicologico interiore (“Arrivai – non al toro – ma agli abissi”).

Sono requisiti che troviamo sparsi in tutti i testi della raccolta, insieme ad altri, come la fortissima e sdegnata denuncia sociale contro il razzismo, i pregiudizi sessuali, l’esclusione di indigenti, malati, anziani, oppositori politici. In Caro Peter, ad esempio, racconta in forma epistolare di una ospedalizzazione psichiatrica a base di Xanax, costrizioni fisiche, colloqui mirati a un’improbabile “normalizzazione”. “Dentro la mia testa la guerra è dappertutto”, afferma, confessando il suo perpetuo disagio, nutrito da incubi, confusione, fantasie oscene, proiezioni suicidarie, intrecci martellanti di brani musicali e scene da film: un lungo elenco di infelicità, rabbia, sensi di colpa, desideri di vendetta.

Ma anche intensità di sentimenti ricambiati con chi gli è vicino: l’ultimo ragazzo amato, la nipotina, i genitori. Il ricordo della madre morta è fatto di nostalgia, recriminazioni, fantasie incestuose: “La silhouette secca di mia madre / Promettimi che non svanirai di nuovo, ho detto / Lei è rimasta là sdraiata per un po’, ripensando / A una a una alle case ha spento tutte le luci / Io mi sdraio sulla sua silhouette, per mantenerla vera / Insieme abbiamo fatto un angelo”. Della mamma recupera un’antica ricetta, desideroso della sua approvazione postuma: “Io sono / un figlio passabile… // Il piatto si annebbia dei propri / spettri”. Il rapporto col padre, operaio in una fabbrica di calze con cui non c’è mai stata alcuna confidenza o manifestazione d’affetto, viene esplorato in una delle poesie più commoventi del libro, Leggenda americana, in cui Ocean racconta di come abbia volontariamente provocato un terribile incidente automobilistico per avere l’opportunità di baciare e abbracciare per la prima volta il suo vecchio, e di liberare il cane malato che entrambi stavano portando dal veterinario per la soppressione.

Troviamo nei racconti in versi di Ocean Vuong tracce del cinema di Spike Lee, della scrittura depressa e incazzata di Raymond Carver e Charles Bukowski, e il ricordo urlato della beat generation. Ma con una consapevolezza nuova, in cui l’emarginazione sociale si trasforma in sfida e orgoglio di un’intera generazione immigrata nel regno del capitalismo mondiale, e insieme diventa sprone a una maggiore conoscenza di sé, dei propri limiti come delle proprie ambizioni e privilegi. “Finalmente, dopo anni e anni, sono diventato un perdente / professionista. / Sono imbattibile a perdere”, “Una volta ero frocio ma adesso sono un fico. Ah”. L’essere vietnamita americano, gay, poeta non ha fatto di lui “L’ultimo dinosauro”, non l’ha penalizzato intellettualmente ed emotivamente, perché gli ha permesso di sottrarsi ai condizionamenti soffocanti di sovrastrutture culturali che disprezza e rifiuta: “Quando mi chiedono come ci si sente, rispondo / immaginatevi di essere nati in una casa di riposo / in fiamme. Mentre i miei parenti fondevano, io me ne stavo / su una gamba, alzavo le braccia, chiudevo gli occhi & pensavo: / albero albero albero mentre la morte passava oltre – / lasciandomi illeso”. Al di là di ogni sofferenza e gioia privata, Ocean Vuong sa proiettarsi in un oltre spaziale e temporale, nella Germania nazista come nel Vietnam bombardato dei suoi nonni, con la sensibilità che lo rende vicino e solidale alle sorti di una pianta, di un pesce, di un supermercato, della neve destinata a sciogliersi: ovunque insomma il suo sguardo sappia farsi partecipe del fuori da sé, tra cose minime e universali: “Be’, eccolo qui / il mondo, piccolo / & grande come un padre”.

Un plauso ai traduttori di questo ottimo libro, Damiano Abeni e Moira Egan.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 6 marzo 2023