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RECENSIONI

TODOROV

TZVETAN TODOROV, LA LETTERATURA IN PERICOLO – GARZANTI, MILANO 2008-2018

Ci sono libri preziosi, che hanno il grande merito di racchiudere, in poche pagine di scorrevole lettura, i caratteri fondamentali del pensiero di un autore, le scelte che ne hanno determinato la formazione e lo sviluppo, gli snodi essenziali della sua biografia. È il caso di un volumetto di Tzvetan Todorov, pubblicato da Garzanti nel 2008 e riedito nel 2018, intitolato La letteratura in pericolo. Todorov (Sofia 1939-Parigi 2017) è stato un critico letterario, un linguista e un saggista di fama internazionale, che nei primi anni della sua carriera ha contribuito a diffondere in Europa gli studi dei formalisti russi, basilari nell’influenzare la cultura strutturalista degli anni Sessanta.

Nella breve introduzione a questo volume racconta di come, nella Bulgaria comunista del dopoguerra, si fosse sottratto al severo controllo della autorità accademiche sull’ortodossia marxista-leninista degli studi universitari, scegliendo di laurearsi con una tesi asetticamente grammaticale. Trasferitosi a Parigi nel 1963 per il dottorato, divenne allievo di Roland Barthes, che lo indirizzò all’approfondimento delle leggi generali della linguistica e del simbolismo letterario. La scelta di restare in Francia, determinata da motivi sia familiari sia politico-culturali, si rivelò conveniente per la sua notorietà intellettuale già dalla prima celebre pubblicazione del ’65, Théorie de la littérature. Ricercatore, poi direttore presso il Centre national de la recherche scientifique, intorno agli anni ’80 prese le distanze dalla critica scientifica del testo per orientarsi verso interessi storici, antropologici, artistici ed etici, aprendosi al dialogo tra diverse culture e all’incontro con l’«altro». Per un trentennio esplorò eventi di cronaca e storia europea e americana, riflettendo su democrazia e totalitarismo, su civiltà e barbarie, sui destini dell’Europa di fronte al multiculturalismo e alle migrazioni.  Affrontando inoltre temi decisamente inusuali per un linguista, come il ruolo dell’artista nella società, le derive autoritarie nei governi e nelle ideologie contemporanee, la scelta indifferibile tra bene e male: sempre con uno stile curato ed elegante, ma di grande presa comunicativa.

La fedeltà alla letteratura, iniziata nell’infanzia e protrattasi fino alla morte, indusse Todorov a scrivere pagine appassionate, con la volontà di renderne partecipi lettori di ogni provenienza, classe ed età, in un nobile desiderio di proselitismo e contagio amoroso: “La letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo… Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di capirlo e organizzarlo… apre all’infinito la possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente… permettendo a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”.

Le considerazioni da cui parte il libro di cui ci occupiamo riguardano l’insegnamento delle lettere ‒ così poco fruibile e stimolante per i giovani ‒ nei licei e nelle università, dove si antepone l’ermeneutica del testo alla comprensione del testo stesso, privilegiando i metodi d’analisi critica al piacere della lettura. La trattazione esclusivamente filologica delle opere finisce per rinchiuderle in un loro limitato e autoreferenziale spazio interno, nell’indagine sugli strumenti formali di cui si servono e sui metodi interpretativi con cui approcciarvisi, escludendo il loro significato ultimo, le finalità che si propongono di raggiungere, il rapporto che hanno col mondo. In tal modo si creano lettori linguisticamente competenti ma annoiati, incapaci di trarre dai classici antichi e moderni la lezione davvero necessaria e illuminante: la riflessione sulle proprie scelte personali, l’apporto di esperienze che provengono dagli altri, l’apertura verso la realtà circostante.

Purtroppo, la concezione riduttiva della letteratura è oggi comune a insegnanti, giornalisti, recensori e scrittori, che sembrano compiacersi della sua autosufficienza e incomunicabilità, spesso tendente a un solipsismo narcisistico e nichilista, espressione di una radicale frattura tra l’io dell’autore e l’esterno. Da queste osservazioni preliminari, Todorov prende lo spunto per delineare una breve e puntuale storia dell’estetica e della critica letteraria, a partire dai greci. Se nella classicità la poesia aveva il compito di imitare la natura, o di piacere, istruire, educare, dal rinascimento in poi le si richiese soprattutto di essere “bella”, formalmente perfetta, quasi fosse una creazione in forma minore di un artista-demiurgo equiparato a Dio. L’opera d’arte non doveva essere sottoposta ad altre finalità o scopi che esulassero dalla sua autonomia e dal suo valore estetico, e lo scrittore andava giudicato solo in base al suo talento. Inizia così uno scollamento tra chi scrive, dipinge, compone musica e la realtà in cui vive, fino ad arrivare agli estremismi dell’epoca romantica, secondo cui ogni forma artistica supera qualsiasi altra espressione della ragione, fornendo “l’accesso a una realtà seconda, vietata ai sensi e all’intelletto, più essenziale o più profonda della prima”. L’arte, insomma, è portatrice di una verità e di un bene superiori a quelli della filosofia, della religione e della scienza: è estasi, rivelazione, assoluto. Nel XX secolo, con le pratiche espressive dell’avanguardia, si è aperto un solco profondo tra letteratura di massa (popolare, a contatto con la vita quotidiana) e letteratura d’élite, fruita da esperti interessati più che altro alla struttura formale dei testi: “da un lato il successo commerciale, dall’altro le autentiche qualità artistiche”. Ci troviamo oggi davanti a un panorama editoriale in cui la relazione tra scrittura e mondo è relegata a produzioni di consumo, ai best seller e a un pubblico di non specialisti, mentre l’intellettualità più raffinata si barrica nell’ermeneutica testuale, inibendo così una ricezione più complessa e arricchente della letteratura.

Tzvetan Todorov aveva intrapreso la carriera accademica (che gli ha valso numerosi premi internazionali e incarichi di prestigio in importanti università) proprio come studioso del formalismo e dello strutturalismo. La sua svolta ideologica verso un differente approccio culturale, che lo portò ad occuparsi della “scoperta che l’io fa dell’altro, l’incontro con il diverso per eccellenza”, fu determinata dal coinvolgimento psicologico nei riguardi della conquista dell’America, descritta nel volume omonimo del 1982. In esso ripercorre le sconvolgenti vicende che dal primo viaggio di Colombo fino al 1600 interessarono le popolazioni dei Caraibi e del Messico, e lo fa utilizzando le cronache e i diari dei conquistadores, testimonianze del più grande genocidio della storia umana, iniziato con la volontà di scoprire popoli e territori ignoti, e passato successivamente al volerli convertire, per poi conquistarli e infine distruggerli.

L’interesse politico e sociale per le sorti dell’umanità si rivelò preminente in tutte le successive pubblicazioni dello studioso bulgaro. Nel volume L’identità europea del 2009, giustamente riproposto da Garzanti in questo anno di elezioni, Todorov indaga le motivazioni che nel dopoguerra hanno spinto alcune nazioni a fondare l’Unione Europea, e i motivi per cui essa dovrebbe rinsaldare i propri principi costituenti, potenziando la sua influenza nel mondo. Sarà forse proprio la cultura a dare un impulso supplementare al ruolo politico del nostro continente: culla della filosofia, della poesia, dell’arte e della musica già dall’antichità, patria di geni universali, cementata da un’uguale spiritualità e sensibilità religiosa, resa incredibilmente unica da capolavori architettonici e plastici, aperta a influenze di pensiero provenienti da realtà lontane nel tempo e nello spazio, crocevia di scambi commerciali. Le nazioni europee sono “sufficientemente simili per dimensioni e potenza perché nessuna di esse possa sottomettere le altre”: ciascuna nella sua indipendenza conserva libertà di giudizio e pensiero, in un equilibrio di unità e pluralità che fa dell’Europa un caso unico tra i continenti. Così un tratto che può sembrare negativo, quale quello dell’eccessiva differenziazione tra i paesi membri, in realtà si trasforma “in qualità positiva assoluta: la differenza diventa identità e la pluralità unità”. L’unione europea si configura dunque nell’accettare le disuguaglianze tra le varie entità nazionali, in un cosmopolitismo capace di integrare “le diverse maniere di vivere l’alterità culturale”. Le spinte sovraniste attuali, nazionaliste sul piano istituzionale ma europeiste nella rivendicazione di radici storiche e religiose comuni, in realtà tendono a legittimare l’esclusione di chi, arrivando da zone povere e conflittuali della terra, preme ai confini, e chiede di essere accettato portando il proprio contributo di lavoro e di sapere.

A questa nuova anima multirazziale e multiculturale delle società occidentali, Todorov dedicò i suoi ultimi anni di studio e di impegno civile, con la convinzione che l’arte e la letteratura possono salvare sé stesse e il mondo solo aprendosi ai contributi più diversi, mettendo a tacere paure e pregiudizi. Da esule bulgaro in Francia aveva sperimentato su di sé la difficoltà dell’integrazione, il peso della diffidenza e del rifiuto: con la sua testimonianza afferma che l’unica soluzione per uscire indenni dalla tagliola discriminante dell’intolleranza consiste nella capacità di conoscere e accogliere la diversità a livello personale e politico, poiché la storia umana è fatta di “una serie di impercettibili modificazioni”, prima individuali e poi collettive.

 

© Riproduzione riservata                 «Il Pickwick», 21 maggio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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TOEWS

MIRIAM TOEWS, I MIEI PICCOLI DISPIACERI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Marcos y Marcos propone ai lettori un quarto romanzo di Miriam Toews, autrice canadese di fama internazionale, nata nel 1964 da una famiglia mennonita di lontane origini ucraine. Di lei la critica ha sempre lodato l’abilità particolare nel raccontare vicende tragiche, in genere circoscritte al microcosmo della famiglia, senza scadere nella retorica o nel gusto del patetico, punteggiando invece la narrazione (scorrevole e colloquiale, fatta di frasi brevi e dialoghi vivaci, con frequenti e puntuali citazioni letterarie) di episodi leggeri, ironici, o francamente comici. Quasi a voler stemperare pudicamente il dolore, imbavagliandolo, quando si fa troppo forte o pericolosamente declamato.
Anche in questo romanzo i riferimenti autobiografici sono espliciti: la residenza stessa dell’autrice nella città di Winnipeg, il claustrofobico clima di fanatismo religioso della comunità mennonita (sempre ottusamente incline alla riprovazione, alla condanna, all’esclusione di chi avverte come potenzialmente diverso, e quindi minaccioso), la dolorosa catena di suicidi parentali, l’originalità controcorrente e le aspirazioni artistiche del nucleo familiare. Protagonista in prima persona è Yolandi, sorella minore e complessata della talentuosa, sensibilissima, geniale Elfrieda. Il rapporto che lega le due è strettissimo, simbiotico. La maggiore è una pianista di successo, «un’assoluta professionista della mondanità. Tutto in lei era di un’intensità incredibile. Così nitido e frizzante». Ma questo eccesso di intelligenza ed emotività l’ha resa fin da piccola un corpo estraneo nel mondo, vulnerabile, incapace di rassegnarsi alla mediocrità. Yoli invece si sa, o si crede, mediocre, e cresce all’ombra della sorella, con ammirata dedizione. Il romanzo si apre su una prima vicenda traumatica della famiglia, costretta a un trasloco non voluto, all’interno di una comunità religiosa fanatica e ottusa: padre, madre, figlie mal si adattano al conformismo dell’ambiente, cementandosi nel loro rapporto di assediati incompresi. Elfrida studia musica e legge poesie, e per lasciare un segno di sé incide su muri e alberi un acronimo tratto da un verso di Coleridge: «IMPD, i miei piccoli dispiaceri». Yolandi cresce goffa e alternativa, con un’inquietudine che la porterà da adulta a contorte scelte sentimentali, a una perpetua instabilità economica, e a inseguire una realizzazione come scrittrice sempre frustrata dai risultati.
Dopo poche pagine, il lettore viene catapultato in una realtà drammatica: il padre, un idealista sconfitto dalla rudezza dell’esistenza, si è ucciso sotto un treno; la madre, positivamente ottimista ma incapace di reagire alla disgrazia, si ammala di cuore; Yolanda si immola all’assistenza adorante della sorella, chiusa nella sua disperata scelta di rinunciare non solo a una luminosa carriera di pianista, ma alla vita stessa.

«La sofferenza, anche se risalente a un passato lontano, è una cosa che si trasmette di generazione in generazione, come l’agilità o la dislessia». I tentativi di suicidio di Elfrida si susseguono implacabili, come i suoi ricoveri, nonostante l’amore e la comprensione di chi la circonda, e della sorella in primo luogo. A niente valgono le carezze, i ricatti emotivi, le minacce, le recriminazioni, le dichiarazioni d’amore di Yolandi, perché «il problema è la vita e la sua invivibilità». Eppure, nonostante il dolore che dilaga, tra le righe aleggia un senso invincibile di leggerezza, di solidarietà e comprensione affettiva che fortifica i rapporti di amicizia e parentela; si impone come un dovere la possibilità di continuare a sorridere, aggrappandosi ai ricordi belli, ai rari gesti di qualche generoso sconosciuto, a preziosi momenti di inaspettata rivelazione della bellezza: «Lo sai che la gente è più felice quando smette di cercare di esserlo?»
Il lungo racconto di Miriam Toews termina con l’apertura alla continuità della vita, e alla necessità della speranza: «Dài, alziamoci, facciamo la doccia e andiamo». Un plauso alla traduttrice Maurizia Balmelli, che ha saputo rendere in un italiano fluido ed elegante la prosa della scrittrice canadese.

 

«succedeoggi», 22 aprile 2015

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TOGNONI

LUCA TOGNONI, DISTANZE – CAMPANOTTO, UDINE 2015

Un volume che offre al lettore versi di una delicatezza pudica e quasi ombrosa – nel senso che paiono temere qualsiasi esibita ostentazione di sé -, questo che Luca Tognoni (1977) ha pubblicato con l’editore friulano Campanotto. Benché l’autore sia laureato in filosofia, la sua poesia rifugge da teorizzazioni intellettualistiche, da tortuosità psicologiche, da sperimentazioni linguistiche. Si tratta di una scrittura puramente ed essenzialmente descrittiva, dello stesso nitore che possiamo ritrovare in alcuni acquerelli paesaggistici, anche là dove non è l’ambientazione esterna che prevale, ma l’attenzione al gesto, allo sguardo dell’altro da sé, alla sua parola e al suo silenzio. È appunto il silenzio a dominare l’espressione poetica di Tognoni, nel reiterarsi delle pause che privilegiano il taciuto e il sottinteso. Si legga per esempio la bella composizione riportata anche in quarta di copertina: «Vivi lontano, / sai del quieto giorno, / del fico che si piega / un poco al vento. / Sai dell’amore / che muta nel profondo. / Sai del tempo».  Oppure quest’altra: «Essere l’alba / dove l’acqua trema / o il lento insetto / che attraversa il grano. // Essere, forse, / dove nessuno è stato, / prima che giunga inverno».

Silenzio, lentezza, colori sfumati, il tempo quasi immobile della campagna: i versi di Luca Tognoni sono orgogliosamente inattuali, nel contenuto come nella forma. Non si intravede in essi alcun interesse per l’impegno politico e la vita sociale, per i miti imperanti della moda, del successo, dell’apparire. Non offrono spazio alla passione, o all’emotività esasperata. Amore e amicizia sono raccontati utilizzando la terminologia degli affetti, circoscritta a un ambito prevalentemente familiare: «Voglio essere l’uomo / che torna, / dopo tanto vagare, / alla casa del padre». È forse solo per la cagnetta morta che il poeta osa scoprirsi nell’intimità della sofferenza: «Sono venuto a trovarti, / mio amore, / dove grigia è la terra / e il cipresso che svetta / fa ombra. / Il mattino di giugno / ha il colore dell’erba / e l’insetto / e ogni cosa che vive / parla ancora di te». Distanze, infatti, è il titolo che Tognoni ha scelto per questa sua prima raccolta: il suo è un osservare la realtà non con distacco, ma con la discrezione di chi teme l’irruenza e l’aggressività del possesso, l’imposizione di una prepotenza. I nomi a cui sembra rifarsi la sua poesia sono quelli di una tradizione letteraria novecentesca poco sfruttata (Cardarelli e Valeri, oppure Govoni e Betocchi): voci pressoché dimenticate, ma che un epigono attento e sensibile può e deve saper fruttuosamente recuperare.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Distanze-Luca-Tognoni.html      23 novembre 2017

RECENSIONI

TOLENTINO

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA,  ESTRANEI ALLA TERRA – CROCETTI, MILANO 2023

José Tolentino de Mendonça (Machico 1965), cardinale, teologo, docente universitario, dal settembre 2022 è Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione. Recentemente vincitore del Premio Lerici Pea, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia. Tra i temi principali delle sue numerose raccolte di versi, oltre a un rapporto intimamente vissuto con la natura, troviamo la riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico.

Estranei alla terra è il suo ultimo volume, edito da Crocetti: comprende i versi pubblicati in La strada bianca del 2005 e in Teoria della frontiera del 2017. A conclusione di entrambe le sezioni, Mendonça ha voluto apporre due riflessioni teoriche su significato e finalità della poesia, di cui sottolinea il carattere dissidente, ereticale, addirittura guerrigliero e fuorilegge: “Una poesia abbraccia precisamente l’impurezza che il mondo ripudia”. Nella sua “estraneità alla terra”, la poesia assume la forma di apostasia, indifferente all’“onnipotenza di ciò che è visibile, stabile, appreso”.

Per nulla consolatoria o devozionale, la voce intensamente spirituale di José Tolentino Mendonça è anche profondamente incarnata nell’innocente “materialità del corpo”, nella sua “esatta trasparenza”: “Ogni corpo è sempre senza speranza / e, tuttavia, la speranza / solo ai corpi appartiene”. I corpi abbruttiti e sofferenti degli emarginati e dei clandestini, destinati ad assumere su di sé “la spazzatura del mondo”, in realtà rivestono i panni luminosi degli angeli di Jahvé.

C’è, nella poesia di Mendonça, un’esplicita e orgogliosamente esibita ostilità verso il limite, la costrizione, la regola imposta: “malgrado fissa dimora e orari stabiliti / è per strada che dormiamo, a cielo aperto”, mentre è all’infinito che aspira, allo sconfinato di cui giustamente parla Alessandro Zaccuri nella partecipe prefazione, quando afferma che solo la poesia – in virtù della sua smisuratezza, della sua “natura originaria e insieme insurrezionale” -, è autorizzata ad avventurarsi nelle regioni dell’interiorità e del sacro. Della riflessione introspettiva il poeta conosce beneficio e seduzione, ma anche il turbamento e “l’indefinibile inquietudine”, il “governo del vuoto / … la caduta senza fine”. La noche oscura di San Juan de la Cruz preme su di lui con lo strazio dell’inadeguatezza, del dubbio e dell’abbandono: “a volte vedo andare a rotoli / giù per le scale la mia vita”, “Da parte mia non so mai / se sono irrimediabilmente lontano o troppo vicino a Dio”, “immagino il mio scendere nel buio / scialuppa calata nella solitudine”.

A salvarlo interviene la nostalgia di assoluto, l’attesa del miracolo, la fede che supera ogni confine spazio-temporale: “l’anima non abita dentro il proprio tempo / porta con sé una fragranza lontana”.

La volontà di partecipare alla storia, quella mitologica e millenaria e quella più recente (l’assassinio di Pasolini, il consumismo, il delirio televisivo, la corruzione ambientale e morale), si scontra con il timore di non riuscire a giustificare l’assedio del reale (“Io dicevo alle montagne: ‘cadete sopra di me’ / e alle colline: ‘nascondetemi’”).

Nella ricchezza di originali metafore visive e uditive, i versi di Mendonça si accendono di colori e suoni quando descrivono la natura assolata od ombrosa, che nel fitto della vegetazione, nel violento abbattersi delle tempeste o negli abissi siderali, mantiene traccia di un passaggio celeste: “il fruscio d’argento del fogliame / anticipa il passo dell’angelo, nel buio”, “in mezzo a quella terra incolta  / eriche, rovi, lentischi, mirti e ginestre / crescono come se lì ci fosse qualcosa / grazie a cui restare in vita”.

Se all’apparire di un segno soprannaturale si accompagna il silenzio, incapace di mentire (“prendi in bocca / il silenzio e immergiti con lui / fino al fondo / in questo consiste la vera devozione”), ecco che allora anche il ricordo di un volto amato, di un respiro sottile fa sussultare il tempo, supera ere geologiche e spazi cosmici, crea “punti di luce” nel buio del presente, con la dolcezza del sentimento condiviso.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese», n. II – febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

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TOLENTINO DE MENDONÇA

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA, IL PAPAVERO E IL MONACO – QIQAJON, BOSE 2022

José Tolentino de Mendonça (Machico,1965) teologo e docente universitario, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia, perché di poesia si occupa sia criticamente sia attraverso un’apprezzata produzione personale. Ha trascorso l’infanzia in Angola, dove suo padre faceva il pescatore in alcune città portuali.

Il rapporto con la natura è tra i temi principali delle sue raccolte, insieme alla riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico. Il suo ultimo volume di versi, Il papavero e il monaco, ha tratto ispirazione da un viaggio in Giappone e dalla forma letteraria più tradizionale e nota di quel paese, l’haiku. L’haiku, che ha molti estimatori e seguaci anche in Italia (al punto che ogni anno gli si dedicano numerosi concorsi e convegni, con una vivace partecipazione di appassionati) è, come si sa, una poesia in tre versi privi di rime, che non supera le 17 sillabe, suddivise in 5/7/5 more per verso.

Nelle sue composizioni, Tolentino non si attiene rigidamente a questo schema metrico, ma rimane comunque fedele tanto a una struttura di estrema concisione, quanto alla dimensione spirituale, al richiamo evocativo, alla sensibilità pittorica tipica di tale figurazione poetica: nella premessa, afferma di essere debitore, per le sue composizioni, sia a Kerouac sia a Bashō.

Il silenzio, come intenzione di ascolto e svotamento interiore, è spesso protagonista dei versi: “Il silenzio solo raramente è vuoto / dice qualcosa / dice quel che non è”, “Il silenzio non è una forma / di riposo o sospensione / ma di resistenza”, “Silenzio: / contemplare la neve / fino a confondersi con lei”, “Impara a rinunciare / a tutto / persino al silenzio”, “Il silenzio / non è l’opposto / ma il rovescio”.

La preghiera è disposizione dell’animo, in una misura che non appartiene solo al cristianesimo, ma al sentire religioso universale, la cui espressione primaria è contemplativa, di ringraziamento e meraviglia, e i cui celebranti sono gli antichi pellegrini, i monaci di tutte le fedi: Vuoi sapere che cosa prego quando prego? / tronchi secchi, ramoscelli / recinzioni e creta rossa”, “Felice colui che bacia l’icona / con devozione totale / senza nulla chiedere”, “La vita monastica / è una forma di nudità / che non ha vergogna di sé stessa”, “La vera scienza della santità / è vivere / senza perché”, “L’estate / insegna la stessa preghiera / al papavero e al monaco”, “Il pellegrino / preferisce le scarpe / più volte riparate”.

La natura celebra la bellezza in totale gratuità: “Oggi le nuvole sembrano / monaci che prendono il tè / in silenzio”, “Cose che non lasciano traccia: il lampo nella notte / il volo degli aironi contro la neve”, “La begonia è tornata a fiorire / e la pernice ha ritrovato intatto / il proprio nido”, “Nel ramo del melo cotogno / scopro nuvole / che non avevo visto”, “Tante volte / dico alla rugiada / sono come te”.

Tra i colori di questi acquerelli poetici prevale senz’altro il bianco, nel candore della neve e dei cirri, nel vuoto della pagina che accoglie le scarne sillabe vergate in nero. Ma sono presenti anche il verde dell’erba e dei boschi, l’azzurro del cielo e dei laghi, il giallo e il rosso dei fiori.

Respiriamo qui la tranquilla serenità di chi si sa creatura simile a qualsiasi altro essere vivente, animale e vegetale, riconoscendosi inessenziale al mondo ma comunque amato da Dio; di chi desidera abbandonarsi al fluire del tempo, rinunciando a ciò che appesantisce mente e cuore: il tormento del pensiero, l’imposizione della volontà, l’afflizione della memoria, l’ansia del progetto. “Tutto è effimero: / ieri ascoltavo la tua / voce oggi solo il vento”.

Nella sua ammirata e intensa prefazione, l’italianista Lina Bolzoni così commenta queste pagine: “È un libro fascinoso e perturbante. Ci porta lontano, tra i giunchi e i crisantemi del Giappone e insieme scava nella nostra interiorità, ci provoca con le sue domande, con i suoi rovesciamenti di prospettiva, ci incanta con la magia del verso, con la danza turbinosa dei punti di vista”.

Oltre a essere poeta, José Tolentino de Mendonça è Cardinale della Curia Romana dal 2019.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 23 dicembre 2022

 

 

 

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TOLENTINO MENDONCA

JOSÉ TOLENTINO MENDONÇA, LIBERIAMO IL TEMPO – EMI, BOLOGNA 2016

José Tolentino Mendonça (1965), sacerdote e poeta, è una delle voci più autorevoli e note della cultura portoghese. Le sue poesie e i suoi saggi di letteratura e filosofia gli hanno valso vari riconoscimenti e traduzioni in numerose lingue. Attualmente cura una rubrica sul quotidiano Avvenire, offrendo ai lettori una sorta di vademecum di saggezza e rasserenante spiritualità come viatico giornaliero. Questo piccolo volume pubblicato lo scorso anno consta di 17 brevi capitoli, ognuno dei quali è dedicato a un insegnamento etico, all’elogio di un sentimento, a una benevola avvertenza d’uso del vivere. “L’arte di”, si intitolano tutti: l’arte di ritrovare se stessi, e una disposizione d’animo positiva nei riguardi del proprio esistere nel mondo.

Una sorta di breviario laico su cui soffermarsi a meditare, magari una pagina per sera, prima di addormentarsi. Pillole di sapienza antica, come si trovano in tutti i testi di morale, da quelli delle Scritture, a Platone, allo stoicismo di Seneca e Marco Aurelio, alla mistica orientale. Questi interventi, tesi a sgombrarci la mente da ciò che è superfluo e ci appesantisce, suggeriscono le loro intenzioni già dal titolo: Liberiamo il tempo. Liberiamolo dalla fretta, dall’ansia di successo, dalla volontà di emulazione; ritroviamolo, facciamolo nostro, pensiamo a come scorra velocemente e non possa essere recuperato. Ecco quindi i brani che invitano alla riscoperta di virtù e valori dimenticati: L’arte della lentezza, L’arte dell’attesa, L’arte della perseveranza, L’arte del prendersi cura… Senza guardare solo ai risultati, pressati dal dovere di assolvere a mille impegni, senza riuscire mai a interrompere le nostre attività frenetiche, con il solo scopo di ottenere gratificazioni economiche o di carriera. Ricordarci che «tutto può scomparire in un attimo». Siamo sempre più polivalenti, ipertecnologici, multifunzionali, perfezionisti, efficienti, competitivi, incostanti: e sempre più insoddisfatti, scontenti, invidiosi.

Allora José Tolentino Mendonça ci invita a riscoprire altri valori dimenticati e derisi: la pazienza, la compassione, il perdono anche verso noi stessi e i nostri difetti. Per ritrovare nelle cose e in ciò che ci circonda quello che sembra non interessarci più: la gioia, l’attenzione verso i desideri più veri, la consapevolezza di quello che perdiamo ogni giorno per sbadataggine o superficialità. Abbiamo il dovere di essere felici, dobbiamo re-imparare a essere allegri come sapevamo esserlo da bambini, ribellandoci a quella «quotidianità ferrea e ingolfata che ci tiene volontariamente o involontariamente sequestrati», lasciandoci stupire dall’inatteso, dall’insperato, da qualsiasi cosa sappia farci uscire dai binari grigi dell’abitudine.

 

© Riproduzione riservata 

www.sololibri.net/Liberiamo-il-tempo-Mendonca.html;     1 aprile 2017

 

 

 

 

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TOMMASI

WANDA TOMMASI, LE PAROLE PER SCRIVERLO – MIMESIS, MILANO 2020

Nei quattro capitoli che compongono il volume “Le parole per scriverlo. La ferita e la parola”, la filosofa Wanda Tommasi (che per decenni ha indagato il pensiero della differenza sessuale, sia come docente all’Università di Verona, sia all’interno della comunità filosofica di Diotima) affronta da un punto di vista poco esplorato la produzione narrativa di cinque famose scrittrici, analizzando il tema della sofferenza e della trasformazione messa in atto per superarla, rendendola fruttifera e vitale.

Già nell’introduzione l’autrice esplicita la sua intenzionalità: “Questo libro nasce dalla convinzione che ci sia una grande capacità femminile di accogliere il dolore, di ospitarlo e di elaborarlo… Tuttavia, prima dell’elaborazione del dolore, dev’esserci la sua accoglienza, la sua accettazione a livello esistenziale”. Ascoltando attentamente il proprio sentire, percependolo inconsciamente e affettivamente prima ancora di comprenderlo razionalmente, e mantenendosi recettivi rispetto all’accadere, si può convertire anche la ferita più penosa in un varco, in un’apertura all’alterità: processo di crescita percorribile solo attraverso l’espressione della parola.

Il primo tema preso in esame è tra i più dolentemente complessi da dipanare, perché archetipico e ineludibile: quello della relazione che lega madre e figlia, spesso conflittuale, colpevolizzante, ricattatoria. Tommasi ne approfondisce le dinamiche studiando le pagine di Irène Némirowsky e Marie Cardinal.  “L’oscuro materno”, il nodo “enigmatico, inquietante e intrattabile” che lega ogni figlia alla madre viene reso da Némirowsky con rancorosa e irrimediabile ostilità. “L’odio senza riparazione” nutrito dalla scrittrice ebrea russa, l’aveva indotta a tratteggiare un ritratto “abominevole” della genitrice: “affettivamente arida, avida di denaro, di gioielli e di amanti, preoccupata solo della propria bellezza”. Nel 1992, cinquant’anni dopo la morte di Irène avvenuta ad Auschwitz, è stata la figlia secondogenita di lei Élisabeth Gille ad assumersi il pesante compito di rielaborare il rapporto di sua madre con la nonna, attraverso il romanzo biografico Mirador, con una coraggiosa operazione che, rimuovendo il rimosso, non solo offriva una riparazione postuma a un irrisolto conflitto generazionale, ma riconciliava lei stessa con l’ingombrante figura materna.

A differenza della Némirowsky, Marie Cardinal riesce a superare l’avversità verso la madre (colpevole di aver tentato di abortirla e di non averla mai amata), non solo grazie a un lungo percorso di scavo psicanalitico, ma soprattutto servendosi della scrittura. “La carognata” di sua madre (non solo i ripetuti tentativi di aborto, ma soprattutto la sadica rivelazione fattane alla figlia adolescente), colpevole di averle procurato una serie di gravi malattie fisiche e psichiche, viene infine perdonata dopo la morte di lei, dapprima vissuta con sollievo, e in seguito accettata pietosamente, in una riconciliazione ottenuta riattraversando il nucleo più profondo della sofferenza.

La battaglia combattuta da Cardinal non si situa solo all’interno della sua storia personale, ma agita coraggiosamente le acque immobili del linguaggio patriarcale: “Se vinceremo questa battaglia […], potremo anche inventare delle parole per tappare gli spazi lasciati vuoti nella nostra lingua da quegli immensi dominii dell’inespresso, ed essenziale, che, guarda caso, sono dei dominii femminili. Dominii che appartengono da sempre all’umanità, e il fatto di arricchirli, e di occuparli, deve poter arricchire  tutti, uomini e donne”. Parlare e scrivere, quindi, per rimarginare ferite, inventando spazi simbolici da occupare, nella fantasia e nel sogno, nella pratica politica, filosofica, artistica.

Lo ha fatto egregiamente Ágota Kristóf, ungherese riparata in Svizzera, che attraverso la scrittura ha trovato modo di esprimere il dramma dello sradicamento dal paese nativo e dalla lingua materna (“Al di fuori della scrittura io non vivo”, diceva). A lei Wanda Tommasi, e al dolore di un sopruso “inassumibile”, dedica la seconda tappa della sua riflessione. Kristóf scrisse i suoi capolavori narrativi in francese, “una lingua nemica” imparata con sforzo e avversione, perché la allontanava inesorabilmente dall’infanzia, dai ricordi, dal modo con cui aveva imparato a nominare il mondo. Tornando sempre nei romanzi al trauma fondamentale dell’esilio, la scrittrice costeggiava la sofferenza senza mai liberarsene, facendo assumere ai suoi personaggi la propria solitudine, lo spaesamento, la rabbia.

Dalla scrittura esplorativa e mai catartica di Ágota Kristóf, Tommasi passa a raccontare l’esperienza esistenziale e intellettuale completamente diversa dell’americana Flannery O’Connor, “fiera claudicante”, costretta all’invalidità da una grave malattia reumatica, capace di accettare la menomazione fisica e la sofferenza che ne derivava in nome di un cattolicesimo in cui l’irruzione violenta e inaspettata della grazia riesce a sconfiggere l’agire malefico del diavolo. In questo senso, la malattia si rivela come evento salvifico, che non sminuisce il valore della persona, ma accentuandone la fragilità aiuta a condividere con gli altri il limite insito in ogni condizione creaturale.

O’Connor fa dell’imperfezione e della propria dolorosa claudicanza un punto di forza, uno stimolo a partecipare al processo creativo di Dio attraverso la scrittura: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia      è un luogo, più istruttivo di un viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa perde una benedizione del Signore”.

L’ultimo capitolo del volume, dedicato ad Anna Maria Ortese, “pensatrice del negativo”, invita a riflettere sulla possibilità di trasformare il rancore per la sofferenza innocente (l’indigenza, le ingiustizie sociali, l’abbandono, il lutto) in un sentimento di solidarietà e compassione universale e inclusiva verso ogni aspetto della vita. L’angoscia provata per la morte di un fratello amato poteva essere lenita dalla Ortese solamente utilizzando “parole di luce”: “Queste espressività, e solo queste espressività, mi calmavano. Dicendo la pena, la pena se ne andava.  Perciò sentivo lo scrivere come una benedizione”. “L’autrice si fa carico di una pietas femminile, sorretta da una ragione visionaria, capace di penetrare al di là dello schermo del visibile per scorgere i segni di  una realtà altra, più vera”. La sua “teologia della perdita” apriva all’interno della negazione spiragli di consapevolezza responsabile, incoraggiando in lei l’amore partecipe per tutti gli esseri umani, gli animali e la natura sfregiata da interessi economici miopi e distruttivi. Solo ac cogliendo fino in fondo il patire comune a tutti, con umiltà, tenerezza, empatia, si può riuscire a stemperare il male patito, a renderlo più sopportabile,

Ciascuna delle autrici trattate in Le parole per scriverlo “percorre un itinerario personale, che attraversa il negativo elaborandolo e offrendogli uno sbocco nella scrittura”. Wanda Tommasi commenta i testi citati con puntuale competenza e sensibilità, proponendo in conclusione del volume una ricca bibliografia di riferimento.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 10 giugno 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TONI

ALBERTO TONI, DEMOCRAZIA – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Secondo la prefatrice e il postfatore di questo poemetto di Alberto Toni (Gabriela Fantato e Elio Pecora), molto esaurienti ed elogiativi nei loro interventi, il lettore si trova di fronte a un “poemetto unitario”, in cui “tutto pare fremere… in versi intensi e ritmati”, che fondono insieme “riflessione ed emozione”, animati da “una pietà sorgiva, una intensa, vera compassione”. Il titolo è lapidario, asseverativo, declamato: Democrazia. Quasi un manifesto programmatico, che da subito dichiara l’alta intenzione di denuncia civile di tutta la composizione, voce di uno solo che si fa di tutti, e diventa corale, sociale, politica. In un’epoca, la nostra, in cui versi e prosa si confessano orgogliosamente in esibizioni impudiche del privato più privato, del solipsismo più glorificato, del disimpegno più superficialmente divertito, questa di Toni appare un’operazione culturale decisamente controcorrente e coraggiosa.

Si articola in cinque sezioni, formalmente molto omogenee e sorvegliate, di strofe per lo più di cinque versi, con un respiro narrativo che non si avvale di rime, allitterazioni, artifici retorici. La poesia va cercata nel susseguirsi incalzante delle immagini, che sono soprattutto immagini di guerra: fango, puzzo insopportabile nelle tende, urina e filamenti di tabacco, braccia e gambe che fanno male, fronti che scottano, giacche a brandelli, madri silenziose, lunghe scie di automezzi, messaggeri, dispacci: insomma, tutto quello che fa di un conflitto una tragedia. Ma il poeta non rende esplicito o retorico il suo racconto: lo mimetizza in scenari diversi, distribuendolo nelle diverse sezioni del poemetto, che il lettore deve poi ricostruire. E la democrazia nasce dalla resistenza, dalla liberazione, è un’opera di pazienza e dignità collettiva, con nuovi eroi e nuove vittime, di altre lotte civili, o di incidenti sul lavoro, nell’intento di far progredire la comunità tutta: «educarsi alla / legge degli uomini: abbattere / il silenzio… // Allora parlare sarà un mattino / di sole ritrovato…».

IBS, 4 febbraio 2012

RECENSIONI

TORCHIO

MAURIZIO TORCHIO, CATTIVI – EINAUDI, TORINO 2015

Storia terrificante narrata in prima persona da un senza nome, un “captivus”, un ergastolano in cella di isolamento, inchiavardato senza scampo e remissione all’interno di un mondo di cattivi, dove tra carcerati e carcerieri scorre uno stige infernale di odio e brutture, di sevizie e vendette atroci, ma anche di reciproca dipendenza emotiva.

Maurizio Torchio narra con un pathos privo di retorica, e con una lucidità che sa farsi partecipazione empatica, la vicenda di un uomo che dopo un’infanzia e un’adolescenza normale (“I miei hanno sempre firmato il diario e controllato i compiti. Messo la merendina in cartella”) viene catturato a venticinque anni per aver sequestrato una donna, madre di due figli, e dopo due anni di carcere ammazza la guardia che lo scortava, guadagnandosi la “fine pena mai” in un buco di due metri, buio, gelido, con una latrina come unico suppellettile. Racconta la prigione, descrivendola analiticamente nella sua struttura interna ed esterna. Racconta i secondini, abbrutiti, rabbiosi, frustrati fisicamente e intellettualmente. Le umilianti perquisizioni fisiche e nelle celle, il vitto vomitevole, il silenzio tombale o le urla assordanti, la merda e il sangue, le ribellioni e i pestaggi, i commoventi e imbarazzati colloqui coi parenti, gli amori fittizi, i rimorsi e le nostalgie, i suicidi e i processi. “Il carcere non serve a restituire al mondo. E’ fatto per chiudere, coprire, cicatrizzare”.

Se si può trovare un limite a questo romanzo, peraltro interessante e meritevole, è quello comune a molta narrativa italiana odierna: cioè l’insistenza a far esprimere il protagonista in prima persona, con la stessa sensibilità macerata di un seminarista, con lo stesso eloquio raffinato e la consapevolezza culturale di un intellettuale di radio3, anche quando si tratti di un pluriomicida, di un drogato all’ultimo stadio o di un semianalfabeta. Troppa empatia, insomma, o troppo imbozzolamento nel proprio io travestito in altri panni.

IBS, 24 febbraio 2015

RECENSIONI

TORREGROSSA

GIUSEPPINA TORREGROSSA, ADELE – NOTTETEMPO, ROMA 2012

Con questo sapido e intrigante monologo teatrale, ambientato in una rigorosa e oppressa Sicilia degli anni ’60, Giuseppina Terragrossa ha vinto il Premio Roma 2008  Donne e teatro. Protagonista è Adele, una sessantenne sciatta e rancorosa, che ha vissuto e sprecato la sua esistenza nelle mura domestiche, assediata da presenze maschili mal sopportate, ondeggiando tra nevrosi e sadismo.
Rimasta incinta diciottenne di un uomo che l’ha abbandonata, sposa «’u manciato», un chimico violento, marchiato da una disgustosa malattia cutanea, che tuttavia riconosce come suo il bambino di lei, Ciccio, e anzi si lega a lui con un affetto protettivo e paterno. Adele vive il rapporto con il figlio e il marito con una sorta di nauseata e imposta dedizione, odiando se stessa, i corpi maschili che la circondano, e senza riuscire ad ammorbidire il suo livore nemmeno con la nascita del secondogenito, Gabriele. «’U manciatu s’era fatto pretenzioso, voleva trovare la tavola conzata, il picciriddo curcatu, un silenzio di chiesa e la pasta nel piatto…».

Con un ritmo narrativo incalzante, e un linguaggio reso assolutamente vivido ed espressivo dalle numerose interferenze dialettali («ammucciavano il sole con il crivo!»), Giuseppina Torregrossa riesce a rendere senza pietismi e con partecipe adesione l’abbattimento morale di questa donna, che si riduce e parlare con i suoi fantasmi mentali, chiusa nelle sua cucina, spettinata e ciabattona, ammorbando l’esistenza soprattutto al figlio maggiore, mai desiderato eppure profondamente amato, fino a fargli del male fisicamente, ad allontanarlo da casa, per poi perderlo definitivamente con un’ultima, crudele, ferita quando pensava di averlo riconquistato.

 

«Leggendaria» n.97/98, gennaio 2013

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