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RECENSIONI

STRINDBERG

AUGUST STRINDBERG, SOLO – SALERNO, ROMA 1992

Verso la fine del lungo racconto Solo, August Strindberg (Stoccolma 1849-1912) pone in bocca al suo protagonista alter-ego questa confessione: “La solitudine mi ha reso ipersensibile, come se la mia anima fosse priva delle protezioni della pelle, e sono ormai così viziato dalla libertà di governare i miei pensieri e i miei sentimenti che non riesco quasi a sopportare il contatto fisico con un’altra persona. Di più: qualsiasi persona mi si avvicini mi fa un effetto soffocante per il fatto stesso di invadere con la sua la mia sfera spirituale”.

La novella era stata commissionata allo scrittore svedese dal suo editore Bonnier nel maggio del 1903, e composta nell’arco di un mese. Inizialmente doveva ribadire il tema della solitudine, già indagato da Strindberg in molte opere narrative e teatrali, come fonte di sofferenza patologica, generatrice di angoscia, sensi di colpa e manie di persecuzione. In realtà l’analisi approfondita dell’argomento sfociò in una valutazione positiva dell’isolamento dalla vita sociale, come possibilità di scavo interiore e metamorfosi morale, approdo a una maggiore libertà personale, indipendenza dalle convenzioni e padronanza dei propri istinti.

L’io narrante è uno scrittore che, tornato nella sua città natale dopo un periodo di lontananza, non riesce più ad adattarsi alle abitudini e all’ideologia della ingessata classe sociale cui appartiene. Quindi affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana.  Le sue peregrinazioni attraverso Stoccolma, nello scandire meteorologico delle varie stagioni, non è solo un’osservazione visiva e uditiva di ciò che lo circonda, spietatamente analizzato nei comportamenti degli esseri umani e animali incontrati, ma soprattutto una continua rielaborazione mentale di ricordi, progetti, letture, esperienze vissute e ricostruite immaginosamente. “Così sono rimasto a poco a poco solo, limitandomi ai rapporti superficiali a cui mi obbligava il mio lavoro e che di solito sbrigavo per telefono. Non voglio negare che all’inizio fosse difficile e che il vuoto che circondava la mia persona esigesse di essere riempito. Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.”

Strindberg stesso aveva vissuto un auto-esilio forzato tra il 1883 e il 1889, poiché il suo inquieto anticonformismo e la sua scrittura di denuncia radicale l’avevano messo al bando del mondo letterario, così come la sua tribolata e contraddittoria esistenza professionale e sentimentale aveva avvolto la sua persona in un’aureola leggendaria di misantropia e ribellione politica.

Solamente nell’attività materiale dello scrivere il protagonista del racconto recupera la propria naturale disposizione creativa: “La solitudine, la solitudine è produttiva”, mentre il relazionarsi con l’altro da sé gli crea una sorta di ripugnanza fisica, che modifica addirittura la percezione dei cinque sensi, in un progressivo estraniamento dalla realtà. I visi di vecchi e bambini gli appaiono deformati e imbruttiti, le voci e i suoni esasperati e stridenti, odori e sapori esaltati e disgustosi, in una continua sovrapposizione di quadri sensoriali deliranti. Nella riflessione sul suo stato mentale, e nella ricomposizione di esso sulla pagina trova comunque un potenziamento della propria interiorità, capace di rispecchiare le varie anime dell’esistente.

“Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo…sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto più”.

Solitudine, quindi, non come impoverimento ma come possibilità di crescita e di ricchezza individuale e collettiva, scandaglio interiore e giudizio sociale: “In conclusione la solitudine è questo: avvolgersi dentro al filo di seta che fila la nostra anima, diventare crisalide e aspettare la metamorfosi. Viviamo, intanto, delle nostre esperienze, e telepaticamente viviamo la vita degli altri. Morte e resurrezione, una nuova educazione a qualcosa di inusitato e sconosciuto”.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Solo-Strindberg.html         9 gennaio 2020

RECENSIONI

STRUMIA

FIIPPO STRUMIA, POZZANGHERE – EINAUDI, TORINO 2011

Viviamo in tempi e latitudini che proclamano a gran voce la frattura esistente tra mondo e soggettività, interno ed esterno, cultura (in tutte le sue accezioni) e natura. Una disarmonia che ferisce l’individuo e la collettività, rendendo entrambi prigionieri di una condizione esistenziale di sofferenza e di impotente sterilità. In tale terreno, scabro e irredimibile, si muovono i versi di Filippo Strumia, psicanalista romano cinquantenne, alla sua prima pubblicazione di poesia. Un poeta che si scopre soprattutto nella sua fragilità di uomo scalfibile e votato alla sconfitta («Sono nato scoperchiato // mi scopro nuovamente / qualcosa senza guscio. / E non so che fare», «sono un verme nel becco del mondo», «un esiliato ultraterrestre / come me», «io mi so mezza cartuccia», «io che sono esperto di fughe e sottrazioni»), se il vocabolo a più riprese ripetuto nei suoi versi è proprio «paura»: «anche il suono / delle foglie fa paura», «Ho diritto alla paura», «la paura morde la pelle», «in un bagno di paura e dolcezza», «Non so che paure mi versi nelle ossa».

Per cui l’unica àncora che lega all’esistente è l’osservazione disincantata e asettica di ciò che ci circonda, dall’immensamente grande (universo, stelle, nebulose, eoni, galassie) all’infinitamente piccolo (batteri, insetti, microrganismi), con una sensibilità particolare sia per la bellezza folgorante, sia per ciò che appare inquinato, corrotto, fangoso (le pozzanghere, appunto). E soprattutto è il mondo animale quello a cui il poeta presta più partecipe attenzione: il lupo con le zanne grondanti sangue, le «arcaiche scimmie», ma soprattutto i pesci, nostri ancestrali progenitori: sempre inseguiti e «infilzati dall’arpione», sempre prede di una natura feroce. E non c’è nessuna visione laica o paganeggiante, bensì un continuo rimando a un’emotività cattolicamente intrisa di senso del peccato e della colpa. Anche la professione intellettuale è vissuta come un allontanamento dalla sana vitalità del «mondo scanzonato» del lavoro manuale: «Come vorrei parlare da uomini / e andare con loro all’osteria / un po’ di vino, calcio e allegria, / vorrei mostrare che sono simile a loro / non sono migliore non sono un padrone». La psicanalisi di cui vive Strumia è quasi un raggiro: «Un altro giorno da brigante / diligente dondolando sui rami ad aspettare / i pochi viandanti smarriti per la via», e questo risentimento della coscienza finisce per esprimersi in esacerbati manifesti di intenti, in programmatiche dichiarazioni di fede o di pensiero che risultano tra le prove meno riuscite del volume. Che invece si fa più risolto quando si alleggerisce nella descrizione di una «inclita dea barista», o della riposante sala d’aspetto del dentista, con uno stile sempre oscillante tra lirismo e narrazione, prosaicità e elegia, ossequio alla tradizione e volontà di innovazione, ironia e disperazione.

 

«Orizzonti» n.43, giugno2014

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SÜREYA

CEMAL SÜREYA, TUTTE LE CANZONI DI ISTANBUL – BOMPIANI 2025

 

Cemal Süreya (1931-1990) è stato un poliedrico intellettuale turco (fondatore di riviste letterarie, saggista, vignettista, traduttore dal francese), e soprattutto poeta, tra i più amati e iconici del suo paese. I suoi versi vengono tuttora riprodotti sui manifesti pubblicitari, trascritti e imitati sui social (con l’hashtag #şiirsokakta – “poesia in strada”), dipinti sui muri, imparati a memoria grazie alla loro icastica musicalità, l’esibita sensualità e l’assenza di qualsiasi pretestuoso cerebralismo. Economista di formazione e funzionario di alto livello in diversi ministeri nazionali, Süreya ebbe una vita familiare e sentimentale movimentata, e proprio dalle sue turbinose esperienze affettive trasse particolare ispirazione per la propria scrittura.

Attivo letterariamente dalla fine degli anni ’50, la sua produzione poetica ha attraversato diverse fasi: dal simbolismo più visionario al descrittivismo oggettivo, ma sempre rifuggendo da un troppo ostentato impegno politico e sociale e dallo sperimentalismo linguistico: i suoi versi accentuavano invece la carica ironica, l’aspetto erotico e l’abbandono sensuale. Così infatti il poeta si esprimeva, difendendo la propria linea poetica: “Nel suo senso più nobile, l’erotismo è il tentativo di cambiare il mondo […]. Lo humour e l’erotismo sono due aspetti che, senza che me ne accorgessi mai, sono penetrati nella mia opera. Evidentemente sono riflessi della mia vita e delle mie letture. Ma ho sempre sentito anche il desiderio di trasferire questi due aspetti, da soli o insieme, su un piano lirico, perfino tragico”.

Nelle prime raccolte il tema amoroso è dominante, nel trasporto esaltante di un canzoniere dalla forza comunicativa immediata, basato su un lessico semplice, volutamente banalizzato e colloquiale, che utilizza modalità espressive vicine alla canzone, con refrain facilmente memorizzabili: “Ti prendo le mani e le carezzo fino al mattino / Le mani tue bianche e ancora bianche e bianche / Sono bianche da farmi paura le tue mani / In stazione il treno si ferma un po’ / A volte sono l’uomo che non trova la stazione”, “Guarda che non mento lo giuro / Sei così bella che più non si può // Ecco anche i tuoi occhi sono qui / La tua coda dell’occhio è abituata a vivere qui / E meno male ch’è qui sennò cosa farei”, “Ora ti alzi e te ne vai. Va’. / I tuoi occhi non restano certo, vanno via. Vadano pure”, “Anch’io sono nudo ma non mangio mele / Non fanno per me le mele così / Ne ho viste tante di mele così ohooo”.

Il poeta ribadisce con forza la gioia procurata dall’innamoramento e dal rapporto fisico, dalle bellezze naturali, dal desiderio di felicità in una Istanbul repressa dalla cappa poliziesca e religiosa, cui non risparmia critiche risentite: “Sono arrivate le canzoni, non potete farne a meno / Le canzoni, ovvero la pace, ovvero il cielo /… Sono arrivati gli Allah, e non c’è modo di liberarsene”, “Stando all’egregio Dio, giacere con te è peccato, ci mancava solo questo”.

Nelle pubblicazioni che si succedono dal 1965 alla morte, Cemal Süreya assume tonalità più accorate e malinconiche, anche nella descrizione delle delusioni e dei tradimenti amorosi (“Io sono andato via da una candida insonnia / Chinando il berretto sul mio dolore / Donna sono stato esiliato sul tuo viso / Eri in ogni strada buia ogni angolo nascosto//… Si sa che sono maestro nell’arte del lamento / Nutro con la mia anima questi uccelli di tristezza”), lasciando spesso prevalere argomenti di un’intimità struggente, mentre l’ironia ha un sapore amaro e sconsolato: “Poi andava a lavarsi la voce / Per aver fatto l’amore al telefono per ore”,  “C’è questa tua voce sinuosa sai / Oscena come un donnone che mangia il gelato, // Comica quanto un sedere poggiato alla ringhiera del balcone”, “Con frasi d’amore e tutto il resto / Non una, non dieci, ma tutte le notti del buon Dio / Mia moglie mi tradiva con la mia ombra”, e in una ventina di poesie dedicate a diverse occasioni ispiratrici il sorriso si tinge di rimpianto nella conclusione sempre uguale: “T’avessi amata anche solo per questo”.

Nella maturità del poeta, il lavoro testuale diventa più complesso, attraverso l’allungamento dei versi e nella loro giustapposizione secondo processi associativi sonori e visivi, nelle continue ellissi-ripetizioni-elenchi marcati dall’assenza di punteggiatura, con un ritorno a formule tipiche del surrealismo. Anche i temi si differenziano, più frequenti risultano i richiami storici, mitologici, religiosi e le esplorazioni geografiche del territorio turco, come nelle articolate composizioni Città vista dall’esterno, Medioriente, Breve storia della Turchia.

Si avverte nelle ultime produzioni la consapevolezza dell’ingiusta prevaricazione del potere sulla libertà individuale, il peso di una violenza patita collettivamente a cui tuttavia risulta quasi impossibile ribellarsi. La prepotenza sofferta dal popolo turco viene riconosciuta ideologicamente, ma accettata con rassegnato fatalismo, e non troviamo nei testi di Süreya un esplicito dissenso, o un appello all’insubordinazione: “Ci siamo spezzati e ci spezziamo ancora // Nessuno potrà toccare la nostra

innocenza”, “Il giorno in cui la libertà arriva / Quel giorno è vietato morire!”, “Siamo abituati alle mancanze o forse all’infelicità?”, “Sei tu la mia patria, o precipizio”. Osserviamo invece una continua aspirazione alla purezza del sentimento, un’ansia di elevazione rispetto alle costrizioni sociali, mentre prevale la nostalgia di rapporti autentici tra gli esseri umani: sentimenti che trovano la loro espressione negli assidui richiami alla luminosità del cielo, al volo degli uccelli, all’indifesa verginità della natura.

La sensazione che rimane al lettore dopo aver scorso le ultime pagine del volume di Süreya è di aver scoperto un poeta che ha fatto della scrittura non solo un metodo di esplorazione lirica della propria interiorità, ma soprattutto il modo di espandere nel canto un’energia vitale sovrabbondante, capace di investire i diversi ambiti dell’esistenza. Intento che è stato ben riassunto in questo suo smagliante verso privo di punto interrogativo, perché afferma e non domanda: “A che serve la poesia se non trascende il buonsenso”.

 

«Gli Stati Generali», 19 giugno 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SVETONIO

SVETONIO, VITA DEI CESARI – NEWTON COMPTON, ROMA 2015

A un prezzo davvero risibile possiamo da qualche mese leggere l’edizione integrale (con testo latino a fronte e accurata introduzione di Lietta De Salvo) dell’opera più famosa di Svetonio, quella De vita Caesarum che inaugurò nella letteratura classica un nuovo modo di intendere la biografia storica, meno tradizionalista e aristocratica, più attenta alla vita privata dei personaggi descritti, alle loro caratteristiche fisiche e morali, agli eccessi e alle aberrazioni del loro esercizio del potere. Dodici medaglioni degli imperatori della dinastia Giulio-Claudia e Flavia, a partire dal ritratto del divino Cesare fino a quello del crudele Domiziano, per un totale di 145 anni di storia romana. A Svetonio fu sempre rimproverato un gusto quasi plebeo per il pettegolezzo, per l’aneddoto scandalistico, e una sorta di voyeurismo per le dissolutezze e le perversioni sessuali dei suoi protagonisti: in realtà dalle sue narrazioni traiamo un quadro vivace e realistico della società da lui descritta, sia nella corruzione del mondo politico e militare, sia nelle abitudini del popolo.

Le dodici biografie si snodano secondo schemi ripetuti ma non vincolanti: di ogni imperatore si racconta la nascita, l’infanzia e la giovinezza, la formazione scolastica (quasi tutti erano abili oratori, parlavano correttamente più lingue, amavano esibirsi artisticamente, recitando o componendo poesie), l’aspetto fisico, le operazioni belliche e l’attività amministrativa. E poi naturalmente mogli e figli, amanti di ogni sesso-età-condizione, orge e incesti, tradimenti e assassini, decessi per malattia, congiure, avvelenamenti. L’autore contrappone in ogni vita narrata privato e pubblico, bene e male, virtù e vizi, senza tuttavia seguire schemi cronologici rigidi, ed evitando generalizzazioni accomunanti i vari caratteri. Se non forse quella, propria a tutti, della brama insaziabile di potere, della crudeltà verso i nemici, della sete di vendetta nei riguardi dei traditori. Che poi Domiziano depilasse personalmente le sue concubine e avesse le dita dei piedi troppo corte, che Caligola fosse epilettico, amasse i travestimenti, adorasse il suo cavallo e fosse terrorizzato dai fulmini, che Tito “delizia del genere umano” fosse un abile falsario, che tutti i Caio siano morti ammazzati, sono particolari che ci possono divertire, scandalizzare, incuriosire quanto i gossip dei nostri tabloid contemporanei. Ma, come afferma Svetonio quasi a voler giustificare il suo scandagliare morbosamente pieghe e piaghe delle vite dei suoi eroi, «chiunque può farsi un’idea della condizione di quei tempi, anche da questi eventi».

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Vita-dei-Cesari-Svetonio.html       13 aprile 2016

RECENSIONI

SZOCS

GÉZA SZÖCS, NÉ L’ESISTENZA NÉ LA SCALA – JACA BOOK, MILANO 2017

Nella nuova collana di poesia delle edizioni Jaca Book, curata da Vera Minazzi e da Tomaso Kemeny, è uscito – prefato e tradotto da quest’ultimo – un volume di Géza Szöcs, nato in Transilvania nel 1953. Questo autore, conosciuto e premiato anche in Italia, oltre che internazionalmente, è stato un oppositore del regime di Ceausescu, costretto all’esilio nell’88, in seguito impegnato politicamente sia in Romania sia in Ungheria, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche, fino all’attuale presidenza del Pen Club. La poesia in apertura, a cui allude il titolo del libro (Né l’esistenza né la scala), contiene in nuce alcuni dei suoi temi fondamentali. In primo luogo la constatazione dell’inspiegabile gratuità della vita, l’interrogativo riguardo al suo nascere e finire, che pare avere come unica giustificazione la pura riproduzione della materia e dell’energia («Bach non ha bisogno di un ascoltatore. / Al tempo non serve una pendola. / … A che serve una scala all’uccello. / … Cos’è la dolcezza / non lo sa il miele. / Forse la bellezza è / quando Dio / contempla in se stesso?»).

Domande che riecheggiano filosoficamente la Grundfrage di Leibniz, e che vengono riprese nella terza e ultima sezione del volume, con un’esplicita sterzata in direzione del sarcasmo e dell’amarezza, quasi a voler dire che certo non sarà la poesia a poter suggerire risposte, e tantomeno a fornire consolazione. Infatti i temi, spesso irridenti e polemici, sfruttano gli stratagemmi linguistici dei calembour, della boutade, dell’invenzione grafica, di stili e forme diverse  –  dalla prosa al dialogo, dall’epigramma alla cantilena –, sbeffeggiando la seriosità delle varie ipotesi scientifiche e teologiche che pretendono di dare un significato al nostro esserci, qui e ora, nel passato testimoniato dall’archeologia e nel futuro proiettato in un’opinabile e pretestuosa fantascienza.

Così commenta Kemeny nell’introduzione: «Alla profondità di pensiero Szöcs unisce una tensione ludica particolare, alla gravità esistenziale la libertà di flusso, alle altezze mitiche trovate linguistiche di difficile traduzione». Possiamo divertirci leggendo una spassosa Conferenza tra quattordici musicisti che si autodefiniscono chi con prosopopea, chi ingenuamente, chi con tremante pudore; oppure assistendo a inseguimenti polizieschi sulle tracce di ladri, spie, amanti fedifraghi; o ancora osservando lo stravolgimento di confini geografici e temporali, sempre con il trionfo finale dell’assurdo, del nonsense, che può ricordarci altri grandi e labirintici autori dell’Europa orientale, come Kafka, o i suoi compatrioti romeni Ionesco e Nina Cassian.

Il corpo centrale della raccolta è costituito da un dramma in versi composto nel 1999, Via Crucis, vera e propria sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Qui Szöcs mette in scena sul tradizionale sfondo palestinese (Gerusalemme, il Getsemani, il Calvario), un coro angelico osannante e la folla chiassosa, varie comparse umane e animali, e tutti i protagonisti del racconto evangelico, con irruzioni improvvise di personaggi biblici (Giona, Saul) o di artisti contemporanei (Paul Klee): presenze animate da invenzioni surreali (il dialogo tra Pilato, moglie e figlio), e da conversazioni inverosimili, in un connubio ironico di storia e leggenda, di esegesi e cronaca attuale.

 

© Riproduzione riservata            «Poesia» n.338, giugno 2018

 

 

 

 

 

 

 

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SZYMBORSKA

WISŁAWA SZYMBORSKA, DUE PUNTI – ADELPHI, MILANO 2006

Di Wisława Szymborska (1923-2012) Adelphi ha pubblicato nel 2006 questo libriccino di diciassette poesie edite in Polonia l’anno prima, e salutate da un enorme successo di pubblico. Secondo il curatore e postfatore della plaquette Pietro Marchesani, si ritrovano qui tutti i tratti costitutivi della scrittura della poetessa premio Nobel per la letteratura nel 1996: «l’ironia, l’umorismo, l’invenzione linguistica, la leggerezza, l’attenzione al particolare, la capacità di sorprendere con l’inconsueto approccio alle cose…», accompagnati dallo «spessore della riflessione filosofica sulla vita e in particolare sulla morte».
In effetti, questa meditazione sulla realtà transeunte dell’esistenza è sottilmente e acutamente presente in ogni poesia: mai mortifera o tragica, però; piuttosto serenamente constatativa. Oplà, noi viviamo; e oplà, moriremo. Nel dolore transeunte di chi ci ha amato, e nell’indifferenza del cosmo.
Per cui, in Incidente stradale le nuvole assistono impassibili alle sciagure del traffico quotidiano; in Il giorno dopo – senza di noi un cataclisma climatico verrà ricordato solo dai pochi sopravvissuti; un Vecchio professore confessa all’allieva ritrovata la sua imperturbabile attesa della fine; la Parca Atropo rivela il suo totale disinteresse per il destino interrotto delle sue vittime.

«Il savoir-vivre cosmico, / benché taccia sul nostro conto, / tuttavia esige qualcosa di noi; / un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal / e una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote». Lo stesso ammiccante umorismo ritroviamo in altre composizioni, che riflettono non tanto sulla morte, quanto su alcuni aspetti della vita umana ingenuamente considerati fondamentali: la nascita (Assenza: se mio padre o mia madre avessero sposato altri, chi sarei stata io?), l’opinione del prossimo su di noi (ABC), il grande amore (Prospettiva: come sembra tutto banale quando la passione finisce…), la gloria letteraria (La cortesia dei non vedenti, se un poeta si può imbarazzare quando legge i suoi versi ai ciechi, e Uno di loro persino di avvicina / con il libro aperto alla rovescia, / chiedendo un autografo che non vedrà).
A dimostrazione che la vera poesia è tale anche se non si prende troppo sul serio.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Due-punti-Wislawa-Szymborska.html     15 marzo 2016

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TABUCCHI

ANTONIO TABUCCHI, AUTOBIOGRAFIE ALTRUI – FELTRINELLI 2014

“La scrittura, a volte, è cieca. E, nella sua cecità, oracolare. Solo che la sua ‘previsione’ non riguarda il futuro, ma ciò che successe nel passato a noi o agli altri e che non avevamo capito che era successo e perché”. E poi: “Scrivere, scriversi: la questione è sempre la stessa, da millenni, da quando la letteratura comincia. Per parlare di sé bisogna cercare il sé che non c’è…”. E ancora: “…raccontare significa estrarre l’esistente dal non esistente, suggerire alla realtà ciò che essa deve fare”. Di nuovo: “La letteratura, con il suo potere di trasformare il reale in iper-reale, rendeva tutto quanto ancora più irreale di quanto non fosse sembrato a me. Mi rassegnai: forse la realtà è fantastica di per sé”. Infine: “…la letteratura sarà sempre uno specchio dove riconoscerti, se ti cerchi, o soprattutto se non hai altre uscite”. Questi saggi di Antonio Tabucchi sulla scrittura (sua, e altrui), ripubblicati da Feltrinelli dopo dieci anni dalla prima edizione, parlano di “verità e finzione, di epistolografia e di autobiografia, di diaristica, di memorialistica, del tempo e di molte altre cose”. Ma soprattutto indagano, con estrema acutezza ed eleganza di stile, il mistero della parola, quella detta e taciuta, pronunciata e ascoltata, letta e scritta: nel suo rapporto con la voce e la fisicità, negli incontri casuali e illuminanti, negli addii dell’amore e della morte. Tabucchi rileggeva e postillava i suoi romanzi più famosi, in questi articoli, li spiegava nel loro nascere talvolta imprevisto e irrazionale, e nel loro imporsi categorico alla sua coscienza di narratore. Rileggeva i sogni, reinterpretandoli alla luce di fatti che ancora dovevano accadere, ma certo vagavano in qualche piega del destino; recuperava immagini dei suoi defunti; si interrogava sulle aspettative di ignoti lettori. Con profondità e ironia cercava una definizione per queste sue “poetiche a posteriori tendenzialmente illogiche”, un senso che le giustificasse anche eticamente.

 

© Riproduzione riservata                                     «sololibri», 24 luglio 2017

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TAGLIAFERRI

CARLA TAGLIAFERRI, L’ARCHITETTURA DI UNA VITA – ARCOLIBRI EDIZIONI, ARCO 2024

 

Con il sottotitolo “Una vita per l’architettura. Una vita…un sogno…una realtà”, è uscito presso le edizioni Arcolibri il corposo volume autobiografico di Carla Tagliaferri L’architettura di una vita”. Architetta, pittrice, progettista, docente universitaria, Carla Tagliaferri (Verona, 8 marzo 1933) ha costruito tutta la sua esistenza con la consapevole solidità, la feroce dedizione e l’ambiziosa utopia di una realizzazione ideale, rispettosa della propria individualità e dell’ambiente in cui si è via via inserita, colorandola con le tinte intense e vivaci che utilizza nei quadri e negli arazzi.

A partire dalla sua data di nascita, un otto marzo di novantuno anni fa (omaggio al proprio dichiarato e convinto femminismo, testimoniato dall’adesione come membro onorario alle associazioni Fidapa e Soroptimist, e dai numerosi riconoscimenti ricevuti per il suo impegno nei riguardi dell’empowerment delle donne), Carla Tagliaferri sembra aver scelto l’architettura come espressione artistica e civile capace di incidere più di altre forme culturali sulla realtà circostante, attraverso la possibilità di edificazione e trasformazione concreta del territorio e dell’habitat umano.

Cresciuta in una famiglia colta della borghesia veronese, laureata a Venezia nel 1960, assistente di Bruno Zevi prima allo IUAV di Venezia e poi alla Sapienza di Roma, in seguito docente in entrambe le università e per la Comunità Europea, ha frequentato e collaborato con nomi di assoluto rilievo internazionale, concentrando i suoi interessi soprattutto nel campo dell’architettura ambientale, dell’arredo urbano, dell’edilizia economica e popolare, della ristrutturazione delle periferie. Si è dedicata con particolare passione alla progettazione di parchi e giardini in Italia, Germania e Africa. Oggi risiede in un piccolo comune del lago di Garda, in una villa disegnata e arredata nei minimi particolari con originalissimo gusto estetico, dedicandosi con passione a sensibilizzare i concittadini alla salvaguardia del paesaggio naturale.

Il volume da poco pubblicato si apre con un’affettuosa rivisitazione del milieu familiare che l’ha cresciuta ed educata, con gli anni e gli studi giovanili vissuti tra Verona e Venezia, la traumatica esperienza della guerra e l’esaltante entusiasmo della ricostruzione post-bellica. L’università a Venezia, il trasferimento a Roma con incarichi professionali sempre più prestigiosi e impegnativi, il matrimonio e la maternità: scelte di vita arricchenti anche nella loro problematicità, nel conciliare la dedizione agli affetti privati con l’applicazione a un lavoro che negli anni ’60-70 non incoraggiava

la presenza delle donne (soprattutto a livelli dirigenziali!), diffidando di chi proponesse un pensiero autonomo, anticonformista e innovativo. Le esperienze vissute negli studi tecnici, nei cantieri, nei rapporti con le maestranze; le difficoltà e le resistenze patite per vincere i pregiudizi sessisti delle commissioni esaminatrici e delle imprese edilizie; la fatica fisica del protrarsi di discussioni e rielaborazioni di progetti già approvati: tutto ha contribuito a forgiare il carattere, sempre più risoluto, della giovane professionista.

Carla Tagliaferri si sofferma orgogliosamente sugli incontri e le amicizie importanti intessute negli anni romani con le maggiori personalità dell’arte, della scienza, della politica nazionale e internazionale. La passione civile che l’ha vista militare nelle file del Partito Socialista – esponendosi con veemenza nei comizi, affrontando logoranti riunioni di partito, testimoniando la propria verità riguardo alle morti di Moro e Falcone, conosciuti di persona –, la portò a essere minacciata direttamente negli anni bui del terrorismo, al punto da dover vivere sotto scorta, mettendo a rischio anche l’esistenza dei propri familiari.

Tutto il volume è postillato, quasi a ogni pagina, da citazioni illuminanti tratte da discorsi o testi di poeti, narratori, scienziati, musicisti, cantautori, artisti di ogni epoca e provenienza, con ampia partecipazione femminile, a indicare la vastità delle letture e della preparazione culturale dell’autrice. Ma è nel richiamo forte alla creatività, alla gioia di vivere, al coraggio di fare scelte difficili impegnandosi per il bene della collettività, che trova la propria giustificazione la pubblicazione di questo volume: messaggio di speranza e invito morale ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità nei riguardi del prossimo: “La mia idea è attuare programmi e azioni per aiutare a modellare la società, ridefinendo cosa significa essere uomini e donne nel nostro secolo, dare nuova positività e contenuto alla società civile”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 26 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TAGORE

RABINDRANATH TAGORE, GITANJALI – MIMESIS, MILANO 2017

Rabindranath Tagore (1861-1941) fu poeta, saggista, drammaturgo e filosofo indiano di lingua bengalese. Figlio di un ricco bramino, studiò nel Regno Unito, e qui decise di anglicizzare il proprio cognome (originariamente Thakhur). Tornato in patria, si dedicò all’amministrazione dei ben paterni e a coltivare la poesia e la musica. I suoi interessi furono però primariamente religiosi e filosofici, e nel corso della sua esistenza si propose di conciliare la cultura orientale con quella europea, arricchendo quest’ultima soprattutto di un’atmosfera spirituale e di messaggi di pace e fratellanza universale, radicati nell’amore per la natura e per la bellezza di tutte le creature. Si impegnò anche come benefattore e mecenate, facendo costruire strade, ospedali e scuole. Il premio Nobel, assegnatogli nel 1913, fu il primo conferito a un autore non occidentale.

L’editore Mimesis pubblica un centinaio di sue composizioni, tradotte all’inizio del ’900 da Arundel Del Re, e prefate dal grande poeta irlandese W.B. Yeats, che con estrema commozione paragonò queste liriche, «di una dolcezza insidiosa», alla voce di San Francesco e di William Blake. Io aggiungerei che alcuni accenti di assoluto misticismo possono ricordare la passione bruciante di San Juan de la Cruz e di Santa Teresa d’Avila. Gitanjali significa in lingua bengalese “offerta d’amore”, e davvero in queste poesie Tagore sembra voler elevarsi a un’altezza spirituale che sia insieme adorazione, preghiera, ringraziamento, con formule che ricalcano il linguaggio erotico, a partire dagli attributi con cui si rivolge a Dio, sempre invocato con il Tu maiuscolo: mio signore, maestro mio, vita della mia vita, mio unico amico, luce, mio tutto, divinità sempre vigile, mio amante, mio re, signore di tutti i cieli, mio diletto, mia bellezza, glorioso sole della mia vita, compagno dei miei giorni vani. Le profferte d’amore sono espresse con la dedizione inebriata di chi aspira all’unione mistica con l’Essere Supremo, a cui sa di dovere l’esistenza del corpo e dell’anima: «Nell’ebrezza gioiosa del canto dimentico me stesso e chiamo amico Te che sei mio signore», «O mio unico amico, caro al mio cuore, le porte di casa mia sono aperte – non passare oltre come un sogno», «Solo quel tanto mi rimanga ché io possa proclamare che Tu sei il mio tutto», «Il mio cuore ripete senza fine che voglio Te, Te solo», «Tu sei il cielo e Tu sei anche il nido», «Tu chini il viso, i tuoi occhi guardano nei miei ed il mio cuore ha toccato i tuoi piedi».

Tagore proclama il suo amore per Dio con la stessa pudica emozione con cui la sposa si offre all’amato, con l’ingenua gratuità di un bambino gioioso, con la fedeltà di un servo o con la leggerezza di una nuvola. E anche nel momento di congedarsi dalla vita, esprime gratitudine e sollievo, nella certezza di poter essere accolto da chi l’ha pensato e amato dall’inizio dei tempi: «Ora voglio morire nell’immortale… Come uno stormo di nostalgiche gru che volano notte e giorno verso i loro nidi montani, così tutta la vita mia viaggi verso l’eterna sua dimora in una suprema preghiera a Te».

 

© Riproduzione riservata            

www.sololibri.net/Gitanjali-Rabindranath-Tagore.html        26 settembre 2017

 

 

RECENSIONI

TAMMUZ

BENJAMIN TAMMUZ, IL FRUTTETO – E/O, ROMA 2014

Benjamin Tammuz (1919-1989), nato in Russia da famiglia ebrea trasferitasi nel 1924 in Palestina, laureato in legge e scienze economiche all’università di Tel Aviv e, più tardi, in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi, è stato a lungo redattore della pagina letteraria del quotidiano israeliano “Ha’aretz” e per quattro anni attaché culturale dell’ambasciata di Israele a Londra. Autore prolifico di narrativa anche per l’infanzia, ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari internazionali. In Italia sono stati pubblicati dalle edizioni E/O Il minotauro (giustamente celebrato a livello mondiale), Il re dormiva quattro volte al giorno, Londra, Requiem per Naaman, e Il frutteto, edito in patria nel 1972 e tradotto da noi nel 1995, con successive ristampe.

Quest’ultimo romanzo, accolto dalle critiche positive di Domenico Starnone ed Erri De Luca per la sua capacità di narrare decenni di convivenza e di massacri nel Medio Oriente, esibendo rispetto per vinti e vincitori alla ricerca delle ragioni di entrambi, è una parabola sulla rivalità sentimentale ed economica che può scavare baratri sanguinosi tra consanguinei, trasformando l’odio familiare in feroci contrasti ideologici.

Ovadia e Daniel sono due fratellastri, nati dallo stesso padre, facoltoso possidente terriero ebreo, vissuto tra l’Oriente arabo e la Russia, e da due madri diverse: una plebea turca, brutalmente liquidata dopo la nascita del primo figlio illegittimo, e un’aristocratica ebrea russa, condotta orgogliosamente all’altare e poi ossequiata in una lussuosa residenza insieme al secondogenito. Ovadia, da subito ostile sia al padre sia alla matrigna e al fratello minore, si allontana dalla casa paterna trasferendosi in Palestina, ostentando la sua origine araba con il nome di Abdallah, e trovando lavoro come capo giardiniere in un frutteto di proprietà della famiglia di Mehmet Effendi.

“Era un agrumeto sterminato, di aranci e limoni; c’erano persino dei cedri. In mezzo, e ai lati, erano piantate alcune file di fichi e melograni”. Fitto, intricato, invaso alla base da vegetazione secca e pungente, Ovadia si intestardisce a coltivarlo, preservandolo dall’invasione di cavallette che danneggia i possedimenti circostanti, spinto soprattutto dalla passione sensuale che lo lega alla figlia sordomuta dei proprietari, Luna.

Gli anni sono quelli della prima guerra mondiale, critici per l’esportazione dei prodotti agricoli in Europa e per la temuta invasione delle truppe inglesi in Medio Oriente. Quando, a causa dell’improvvisa malattia invalidante di Mehmet Effendi, il frutteto deve essere venduto, arriva via mare al porto di Giaffa il fratellastro Daniel, giovane ventenne “dall’espressione chiara, onesta e determinata, l’espressione di uno che non ha niente da nascondere”, divenuto ricchissimo dopo la morte di entrambi i genitori. Educato nel culto di Israele e della lingua ebraica, il sogno che lo anima è non solo quello di insediarsi nella terra dei suoi avi, ma soprattutto di trovare l’anima gemella, di cui fantastica dall’adolescenza. Avvicinato dall’agronomo-sensale (voce narrante del romanzo) cui è affidata la vendita del frutteto, accoglie con entusiasmo l’idea di acquistarlo, pronto a firmare il contratto davanti al proprietario ormai moribondo. L’incontro con Luna, apparizione incantevole nella sua misteriosa seduzione, si rivela oltremodo sconvolgente per Daniel, che subito si candida ad acquirente della piantagione e della casa, chiedendo in moglie la giovane donna. L’incontro, inaspettato e disorientante, con il fratellastro Ovadia, con cui i rapporti si erano interrotti molti anni prima, segna una cesura nella narrazione fino a questo punto solenne e pacata, e l’andamento del romanzo assume un ritmo più concitato e ansiogeno. Nelle vene di Ovadia scorre sangue arabo, in quelle di Daniel sangue ebreo: in loro due religioni e due culture millenarie si confrontano, scontrandosi fino all’annullamento reciproco. E se il pretesto è sempre esterno (il matrimonio di Daniel con Luna, la nascita di un figlio, la relazione clandestina di Ovadia con la cognata, la resa produttiva del frutteto, i continui pogrom antiebraici, lo scoppio della seconda guerra mondiale), in realtà le motivazioni profonde della loro ineliminabile inimicizia rimangono più radicate e crudeli.

 

© Riproduzione riservata         «SoloLibri», 17 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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