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RECENSIONI

SZOCS

GÉZA SZÖCS, NÉ L’ESISTENZA NÉ LA SCALA – JACA BOOK, MILANO 2017

Nella nuova collana di poesia delle edizioni Jaca Book, curata da Vera Minazzi e da Tomaso Kemeny, è uscito – prefato e tradotto da quest’ultimo – un volume di Géza Szöcs, nato in Transilvania nel 1953. Questo autore, conosciuto e premiato anche in Italia, oltre che internazionalmente, è stato un oppositore del regime di Ceausescu, costretto all’esilio nell’88, in seguito impegnato politicamente sia in Romania sia in Ungheria, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche, fino all’attuale presidenza del Pen Club. La poesia in apertura, a cui allude il titolo del libro (Né l’esistenza né la scala), contiene in nuce alcuni dei suoi temi fondamentali. In primo luogo la constatazione dell’inspiegabile gratuità della vita, l’interrogativo riguardo al suo nascere e finire, che pare avere come unica giustificazione la pura riproduzione della materia e dell’energia («Bach non ha bisogno di un ascoltatore. / Al tempo non serve una pendola. / … A che serve una scala all’uccello. / … Cos’è la dolcezza / non lo sa il miele. / Forse la bellezza è / quando Dio / contempla in se stesso?»).

Domande che riecheggiano filosoficamente la Grundfrage di Leibniz, e che vengono riprese nella terza e ultima sezione del volume, con un’esplicita sterzata in direzione del sarcasmo e dell’amarezza, quasi a voler dire che certo non sarà la poesia a poter suggerire risposte, e tantomeno a fornire consolazione. Infatti i temi, spesso irridenti e polemici, sfruttano gli stratagemmi linguistici dei calembour, della boutade, dell’invenzione grafica, di stili e forme diverse  –  dalla prosa al dialogo, dall’epigramma alla cantilena –, sbeffeggiando la seriosità delle varie ipotesi scientifiche e teologiche che pretendono di dare un significato al nostro esserci, qui e ora, nel passato testimoniato dall’archeologia e nel futuro proiettato in un’opinabile e pretestuosa fantascienza.

Così commenta Kemeny nell’introduzione: «Alla profondità di pensiero Szöcs unisce una tensione ludica particolare, alla gravità esistenziale la libertà di flusso, alle altezze mitiche trovate linguistiche di difficile traduzione». Possiamo divertirci leggendo una spassosa Conferenza tra quattordici musicisti che si autodefiniscono chi con prosopopea, chi ingenuamente, chi con tremante pudore; oppure assistendo a inseguimenti polizieschi sulle tracce di ladri, spie, amanti fedifraghi; o ancora osservando lo stravolgimento di confini geografici e temporali, sempre con il trionfo finale dell’assurdo, del nonsense, che può ricordarci altri grandi e labirintici autori dell’Europa orientale, come Kafka, o i suoi compatrioti romeni Ionesco e Nina Cassian.

Il corpo centrale della raccolta è costituito da un dramma in versi composto nel 1999, Via Crucis, vera e propria sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Qui Szöcs mette in scena sul tradizionale sfondo palestinese (Gerusalemme, il Getsemani, il Calvario), un coro angelico osannante e la folla chiassosa, varie comparse umane e animali, e tutti i protagonisti del racconto evangelico, con irruzioni improvvise di personaggi biblici (Giona, Saul) o di artisti contemporanei (Paul Klee): presenze animate da invenzioni surreali (il dialogo tra Pilato, moglie e figlio), e da conversazioni inverosimili, in un connubio ironico di storia e leggenda, di esegesi e cronaca attuale.

 

© Riproduzione riservata            «Poesia» n.338, giugno 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SZYMBORSKA

WISŁAWA SZYMBORSKA, DUE PUNTI – ADELPHI, MILANO 2006

Di Wisława Szymborska (1923-2012) Adelphi ha pubblicato nel 2006 questo libriccino di diciassette poesie edite in Polonia l’anno prima, e salutate da un enorme successo di pubblico. Secondo il curatore e postfatore della plaquette Pietro Marchesani, si ritrovano qui tutti i tratti costitutivi della scrittura della poetessa premio Nobel per la letteratura nel 1996: «l’ironia, l’umorismo, l’invenzione linguistica, la leggerezza, l’attenzione al particolare, la capacità di sorprendere con l’inconsueto approccio alle cose…», accompagnati dallo «spessore della riflessione filosofica sulla vita e in particolare sulla morte».
In effetti, questa meditazione sulla realtà transeunte dell’esistenza è sottilmente e acutamente presente in ogni poesia: mai mortifera o tragica, però; piuttosto serenamente constatativa. Oplà, noi viviamo; e oplà, moriremo. Nel dolore transeunte di chi ci ha amato, e nell’indifferenza del cosmo.
Per cui, in Incidente stradale le nuvole assistono impassibili alle sciagure del traffico quotidiano; in Il giorno dopo – senza di noi un cataclisma climatico verrà ricordato solo dai pochi sopravvissuti; un Vecchio professore confessa all’allieva ritrovata la sua imperturbabile attesa della fine; la Parca Atropo rivela il suo totale disinteresse per il destino interrotto delle sue vittime.

«Il savoir-vivre cosmico, / benché taccia sul nostro conto, / tuttavia esige qualcosa di noi; / un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal / e una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote». Lo stesso ammiccante umorismo ritroviamo in altre composizioni, che riflettono non tanto sulla morte, quanto su alcuni aspetti della vita umana ingenuamente considerati fondamentali: la nascita (Assenza: se mio padre o mia madre avessero sposato altri, chi sarei stata io?), l’opinione del prossimo su di noi (ABC), il grande amore (Prospettiva: come sembra tutto banale quando la passione finisce…), la gloria letteraria (La cortesia dei non vedenti, se un poeta si può imbarazzare quando legge i suoi versi ai ciechi, e Uno di loro persino di avvicina / con il libro aperto alla rovescia, / chiedendo un autografo che non vedrà).
A dimostrazione che la vera poesia è tale anche se non si prende troppo sul serio.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Due-punti-Wislawa-Szymborska.html     15 marzo 2016

RECENSIONI

TABUCCHI

ANTONIO TABUCCHI, AUTOBIOGRAFIE ALTRUI – FELTRINELLI 2014

“La scrittura, a volte, è cieca. E, nella sua cecità, oracolare. Solo che la sua ‘previsione’ non riguarda il futuro, ma ciò che successe nel passato a noi o agli altri e che non avevamo capito che era successo e perché”. E poi: “Scrivere, scriversi: la questione è sempre la stessa, da millenni, da quando la letteratura comincia. Per parlare di sé bisogna cercare il sé che non c’è…”. E ancora: “…raccontare significa estrarre l’esistente dal non esistente, suggerire alla realtà ciò che essa deve fare”. Di nuovo: “La letteratura, con il suo potere di trasformare il reale in iper-reale, rendeva tutto quanto ancora più irreale di quanto non fosse sembrato a me. Mi rassegnai: forse la realtà è fantastica di per sé”. Infine: “…la letteratura sarà sempre uno specchio dove riconoscerti, se ti cerchi, o soprattutto se non hai altre uscite”. Questi saggi di Antonio Tabucchi sulla scrittura (sua, e altrui), ripubblicati da Feltrinelli dopo dieci anni dalla prima edizione, parlano di “verità e finzione, di epistolografia e di autobiografia, di diaristica, di memorialistica, del tempo e di molte altre cose”. Ma soprattutto indagano, con estrema acutezza ed eleganza di stile, il mistero della parola, quella detta e taciuta, pronunciata e ascoltata, letta e scritta: nel suo rapporto con la voce e la fisicità, negli incontri casuali e illuminanti, negli addii dell’amore e della morte. Tabucchi rileggeva e postillava i suoi romanzi più famosi, in questi articoli, li spiegava nel loro nascere talvolta imprevisto e irrazionale, e nel loro imporsi categorico alla sua coscienza di narratore. Rileggeva i sogni, reinterpretandoli alla luce di fatti che ancora dovevano accadere, ma certo vagavano in qualche piega del destino; recuperava immagini dei suoi defunti; si interrogava sulle aspettative di ignoti lettori. Con profondità e ironia cercava una definizione per queste sue “poetiche a posteriori tendenzialmente illogiche”, un senso che le giustificasse anche eticamente.

 

© Riproduzione riservata                                     «sololibri», 24 luglio 2017

RECENSIONI

TAGLIAFERRI

CARLA TAGLIAFERRI, L’ARCHITETTURA DI UNA VITA – ARCOLIBRI EDIZIONI, ARCO 2024

 

Con il sottotitolo “Una vita per l’architettura. Una vita…un sogno…una realtà”, è uscito presso le edizioni Arcolibri il corposo volume autobiografico di Carla Tagliaferri L’architettura di una vita”. Architetta, pittrice, progettista, docente universitaria, Carla Tagliaferri (Verona, 8 marzo 1933) ha costruito tutta la sua esistenza con la consapevole solidità, la feroce dedizione e l’ambiziosa utopia di una realizzazione ideale, rispettosa della propria individualità e dell’ambiente in cui si è via via inserita, colorandola con le tinte intense e vivaci che utilizza nei quadri e negli arazzi.

A partire dalla sua data di nascita, un otto marzo di novantuno anni fa (omaggio al proprio dichiarato e convinto femminismo, testimoniato dall’adesione come membro onorario alle associazioni Fidapa e Soroptimist, e dai numerosi riconoscimenti ricevuti per il suo impegno nei riguardi dell’empowerment delle donne), Carla Tagliaferri sembra aver scelto l’architettura come espressione artistica e civile capace di incidere più di altre forme culturali sulla realtà circostante, attraverso la possibilità di edificazione e trasformazione concreta del territorio e dell’habitat umano.

Cresciuta in una famiglia colta della borghesia veronese, laureata a Venezia nel 1960, assistente di Bruno Zevi prima allo IUAV di Venezia e poi alla Sapienza di Roma, in seguito docente in entrambe le università e per la Comunità Europea, ha frequentato e collaborato con nomi di assoluto rilievo internazionale, concentrando i suoi interessi soprattutto nel campo dell’architettura ambientale, dell’arredo urbano, dell’edilizia economica e popolare, della ristrutturazione delle periferie. Si è dedicata con particolare passione alla progettazione di parchi e giardini in Italia, Germania e Africa. Oggi risiede in un piccolo comune del lago di Garda, in una villa disegnata e arredata nei minimi particolari con originalissimo gusto estetico, dedicandosi con passione a sensibilizzare i concittadini alla salvaguardia del paesaggio naturale.

Il volume da poco pubblicato si apre con un’affettuosa rivisitazione del milieu familiare che l’ha cresciuta ed educata, con gli anni e gli studi giovanili vissuti tra Verona e Venezia, la traumatica esperienza della guerra e l’esaltante entusiasmo della ricostruzione post-bellica. L’università a Venezia, il trasferimento a Roma con incarichi professionali sempre più prestigiosi e impegnativi, il matrimonio e la maternità: scelte di vita arricchenti anche nella loro problematicità, nel conciliare la dedizione agli affetti privati con l’applicazione a un lavoro che negli anni ’60-70 non incoraggiava

la presenza delle donne (soprattutto a livelli dirigenziali!), diffidando di chi proponesse un pensiero autonomo, anticonformista e innovativo. Le esperienze vissute negli studi tecnici, nei cantieri, nei rapporti con le maestranze; le difficoltà e le resistenze patite per vincere i pregiudizi sessisti delle commissioni esaminatrici e delle imprese edilizie; la fatica fisica del protrarsi di discussioni e rielaborazioni di progetti già approvati: tutto ha contribuito a forgiare il carattere, sempre più risoluto, della giovane professionista.

Carla Tagliaferri si sofferma orgogliosamente sugli incontri e le amicizie importanti intessute negli anni romani con le maggiori personalità dell’arte, della scienza, della politica nazionale e internazionale. La passione civile che l’ha vista militare nelle file del Partito Socialista – esponendosi con veemenza nei comizi, affrontando logoranti riunioni di partito, testimoniando la propria verità riguardo alle morti di Moro e Falcone, conosciuti di persona –, la portò a essere minacciata direttamente negli anni bui del terrorismo, al punto da dover vivere sotto scorta, mettendo a rischio anche l’esistenza dei propri familiari.

Tutto il volume è postillato, quasi a ogni pagina, da citazioni illuminanti tratte da discorsi o testi di poeti, narratori, scienziati, musicisti, cantautori, artisti di ogni epoca e provenienza, con ampia partecipazione femminile, a indicare la vastità delle letture e della preparazione culturale dell’autrice. Ma è nel richiamo forte alla creatività, alla gioia di vivere, al coraggio di fare scelte difficili impegnandosi per il bene della collettività, che trova la propria giustificazione la pubblicazione di questo volume: messaggio di speranza e invito morale ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità nei riguardi del prossimo: “La mia idea è attuare programmi e azioni per aiutare a modellare la società, ridefinendo cosa significa essere uomini e donne nel nostro secolo, dare nuova positività e contenuto alla società civile”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 26 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TAGORE

RABINDRANATH TAGORE, GITANJALI – MIMESIS, MILANO 2017

Rabindranath Tagore (1861-1941) fu poeta, saggista, drammaturgo e filosofo indiano di lingua bengalese. Figlio di un ricco bramino, studiò nel Regno Unito, e qui decise di anglicizzare il proprio cognome (originariamente Thakhur). Tornato in patria, si dedicò all’amministrazione dei ben paterni e a coltivare la poesia e la musica. I suoi interessi furono però primariamente religiosi e filosofici, e nel corso della sua esistenza si propose di conciliare la cultura orientale con quella europea, arricchendo quest’ultima soprattutto di un’atmosfera spirituale e di messaggi di pace e fratellanza universale, radicati nell’amore per la natura e per la bellezza di tutte le creature. Si impegnò anche come benefattore e mecenate, facendo costruire strade, ospedali e scuole. Il premio Nobel, assegnatogli nel 1913, fu il primo conferito a un autore non occidentale.

L’editore Mimesis pubblica un centinaio di sue composizioni, tradotte all’inizio del ’900 da Arundel Del Re, e prefate dal grande poeta irlandese W.B. Yeats, che con estrema commozione paragonò queste liriche, «di una dolcezza insidiosa», alla voce di San Francesco e di William Blake. Io aggiungerei che alcuni accenti di assoluto misticismo possono ricordare la passione bruciante di San Juan de la Cruz e di Santa Teresa d’Avila. Gitanjali significa in lingua bengalese “offerta d’amore”, e davvero in queste poesie Tagore sembra voler elevarsi a un’altezza spirituale che sia insieme adorazione, preghiera, ringraziamento, con formule che ricalcano il linguaggio erotico, a partire dagli attributi con cui si rivolge a Dio, sempre invocato con il Tu maiuscolo: mio signore, maestro mio, vita della mia vita, mio unico amico, luce, mio tutto, divinità sempre vigile, mio amante, mio re, signore di tutti i cieli, mio diletto, mia bellezza, glorioso sole della mia vita, compagno dei miei giorni vani. Le profferte d’amore sono espresse con la dedizione inebriata di chi aspira all’unione mistica con l’Essere Supremo, a cui sa di dovere l’esistenza del corpo e dell’anima: «Nell’ebrezza gioiosa del canto dimentico me stesso e chiamo amico Te che sei mio signore», «O mio unico amico, caro al mio cuore, le porte di casa mia sono aperte – non passare oltre come un sogno», «Solo quel tanto mi rimanga ché io possa proclamare che Tu sei il mio tutto», «Il mio cuore ripete senza fine che voglio Te, Te solo», «Tu sei il cielo e Tu sei anche il nido», «Tu chini il viso, i tuoi occhi guardano nei miei ed il mio cuore ha toccato i tuoi piedi».

Tagore proclama il suo amore per Dio con la stessa pudica emozione con cui la sposa si offre all’amato, con l’ingenua gratuità di un bambino gioioso, con la fedeltà di un servo o con la leggerezza di una nuvola. E anche nel momento di congedarsi dalla vita, esprime gratitudine e sollievo, nella certezza di poter essere accolto da chi l’ha pensato e amato dall’inizio dei tempi: «Ora voglio morire nell’immortale… Come uno stormo di nostalgiche gru che volano notte e giorno verso i loro nidi montani, così tutta la vita mia viaggi verso l’eterna sua dimora in una suprema preghiera a Te».

 

© Riproduzione riservata            

www.sololibri.net/Gitanjali-Rabindranath-Tagore.html        26 settembre 2017

 

 

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TAMMUZ

BENJAMIN TAMMUZ, IL FRUTTETO – E/O, ROMA 2014

Benjamin Tammuz (1919-1989), nato in Russia da famiglia ebrea trasferitasi nel 1924 in Palestina, laureato in legge e scienze economiche all’università di Tel Aviv e, più tardi, in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi, è stato a lungo redattore della pagina letteraria del quotidiano israeliano “Ha’aretz” e per quattro anni attaché culturale dell’ambasciata di Israele a Londra. Autore prolifico di narrativa anche per l’infanzia, ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari internazionali. In Italia sono stati pubblicati dalle edizioni E/O Il minotauro (giustamente celebrato a livello mondiale), Il re dormiva quattro volte al giorno, Londra, Requiem per Naaman, e Il frutteto, edito in patria nel 1972 e tradotto da noi nel 1995, con successive ristampe.

Quest’ultimo romanzo, accolto dalle critiche positive di Domenico Starnone ed Erri De Luca per la sua capacità di narrare decenni di convivenza e di massacri nel Medio Oriente, esibendo rispetto per vinti e vincitori alla ricerca delle ragioni di entrambi, è una parabola sulla rivalità sentimentale ed economica che può scavare baratri sanguinosi tra consanguinei, trasformando l’odio familiare in feroci contrasti ideologici.

Ovadia e Daniel sono due fratellastri, nati dallo stesso padre, facoltoso possidente terriero ebreo, vissuto tra l’Oriente arabo e la Russia, e da due madri diverse: una plebea turca, brutalmente liquidata dopo la nascita del primo figlio illegittimo, e un’aristocratica ebrea russa, condotta orgogliosamente all’altare e poi ossequiata in una lussuosa residenza insieme al secondogenito. Ovadia, da subito ostile sia al padre sia alla matrigna e al fratello minore, si allontana dalla casa paterna trasferendosi in Palestina, ostentando la sua origine araba con il nome di Abdallah, e trovando lavoro come capo giardiniere in un frutteto di proprietà della famiglia di Mehmet Effendi.

“Era un agrumeto sterminato, di aranci e limoni; c’erano persino dei cedri. In mezzo, e ai lati, erano piantate alcune file di fichi e melograni”. Fitto, intricato, invaso alla base da vegetazione secca e pungente, Ovadia si intestardisce a coltivarlo, preservandolo dall’invasione di cavallette che danneggia i possedimenti circostanti, spinto soprattutto dalla passione sensuale che lo lega alla figlia sordomuta dei proprietari, Luna.

Gli anni sono quelli della prima guerra mondiale, critici per l’esportazione dei prodotti agricoli in Europa e per la temuta invasione delle truppe inglesi in Medio Oriente. Quando, a causa dell’improvvisa malattia invalidante di Mehmet Effendi, il frutteto deve essere venduto, arriva via mare al porto di Giaffa il fratellastro Daniel, giovane ventenne “dall’espressione chiara, onesta e determinata, l’espressione di uno che non ha niente da nascondere”, divenuto ricchissimo dopo la morte di entrambi i genitori. Educato nel culto di Israele e della lingua ebraica, il sogno che lo anima è non solo quello di insediarsi nella terra dei suoi avi, ma soprattutto di trovare l’anima gemella, di cui fantastica dall’adolescenza. Avvicinato dall’agronomo-sensale (voce narrante del romanzo) cui è affidata la vendita del frutteto, accoglie con entusiasmo l’idea di acquistarlo, pronto a firmare il contratto davanti al proprietario ormai moribondo. L’incontro con Luna, apparizione incantevole nella sua misteriosa seduzione, si rivela oltremodo sconvolgente per Daniel, che subito si candida ad acquirente della piantagione e della casa, chiedendo in moglie la giovane donna. L’incontro, inaspettato e disorientante, con il fratellastro Ovadia, con cui i rapporti si erano interrotti molti anni prima, segna una cesura nella narrazione fino a questo punto solenne e pacata, e l’andamento del romanzo assume un ritmo più concitato e ansiogeno. Nelle vene di Ovadia scorre sangue arabo, in quelle di Daniel sangue ebreo: in loro due religioni e due culture millenarie si confrontano, scontrandosi fino all’annullamento reciproco. E se il pretesto è sempre esterno (il matrimonio di Daniel con Luna, la nascita di un figlio, la relazione clandestina di Ovadia con la cognata, la resa produttiva del frutteto, i continui pogrom antiebraici, lo scoppio della seconda guerra mondiale), in realtà le motivazioni profonde della loro ineliminabile inimicizia rimangono più radicate e crudeli.

 

© Riproduzione riservata         «SoloLibri», 17 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TANIZAKI

JUN’ICHIRΟ TANIZAKI, LA CROCE BUDDISTA – GUANDA, PARMA 2015

Di Jun’ichiro Tanizaki (1886-1965), uno dei massimi narratori della narrativa giapponese del secolo scorso, leggiamo questo romanzo del 1931 edito da Guanda nell’elegante collana de Le Bussole: e lo leggiamo con qualche aspettativa e curiosità, in quanto viene presentato in copertina come un «classico della letteratura erotica». In realtà, di eros se ne trova poco, nelle 250 paginette del volume, e invece di noia, mescolata a un leggero senso di fastidio, tanta. Protagonista del racconto è Sonoko, giovane e non troppo avvenente moglie di un uggioso avvocato di Tokyo: Sonoko narra in prima persona a un misterioso e silenzioso Maestro (una guida spirituale? un saggio o un monaco buddista? una sorta di psicanalista estraneo alla cultura occidentale?) della sua complicata vicenda esistenziale, da cui arguiamo soprattutto di trovarci di fronte a una signora benestante e insoddisfatta, viziata e superficiale, in spasmodica ricerca di emozioni e situazioni che la liberino dal suo torpore quotidiano. Sonoko ha già tradito il marito, che non sembra particolarmente turbato dall’incostanza della moglie: ma nella vicenda qui narrata viene sconvolta dalla turbinosa passione per una splendida ragazza, Mitsuko, con cui intreccia una relazione frenetica ed eccitante. Si badi bene che Tanizaki non racconta in nessun modo particolari o atteggiamenti relativi alla sessualità, non c’è nessuna prurigine pornografica, nessuna morbosità descrittiva. Solo accompagna il lettore attraverso una serie di situazioni labirintiche, e in fondo anche comiche, in cui le due ragazze si trovano invischiate rispetto alle loro pudiche famiglie, ai domestici e ai relativi partner di sesso opposto. Ne deriva una carambola di incontri, bugie, sotterfugi, ricatti, promesse, fughe e ritrovamenti, gravidanze supposte o reali, aborti minacciati o concretizzati, promesse siglate col sangue, in cui tutti i protagonisti appaiono insieme persecutori e vittime. Mitsuko è affascinante e crudele, irretisce con la sua conturbante personalità e bellezza chiunque incontri: la futile amante, il bolso e paziente marito di lei, un fidanzato impotente e ossessivo, la cameriera e i genitori. Sonoko quasi impazzisce per amore, travolta da una passione irresistibile: «Se per caso avessi finito per incontrarla per strada… se fosse capitato non le avrei detto niente, ma chissà poi come mi sarei comportata se per caso i nostri sguardi si fossero incrociati! Sarei impallidita e, tutta tremante, non avrei potuto muovere un passo, sarei forse svenuta sulla soglia».

Mitsuko agisce con crudele sadismo, certa del suo irresistibile fascino a cui nessuno riesce a sottrarsi: «Lei si credeva la donna più bella del mondo, era superba e si sentiva triste se non c’era qualcuno a adorarla». Questa sicurezza di facciata si rivela tuttavia scalfibile proprio nei suoi comportamenti frenetici e irrazionali, nei suoi progetti convulsi di fuga o di matrimonio, nelle sue oscillazioni sessuali; Tanizaki sottolinea con maestria la superficialità del personaggio attraverso una narrazione altrettanto superficiale, priva di scavo psicologico, intessuta di dialoghi brevi e insulsi, fino ad arrivare alla paradossale conclusione, in cui da un triplice suicidio annunciato si salva solamente Sonoko, narratrice carnefice e vittima sacrificale, probabilmente la più forte di tutti.

 

© Riproduzione riservata  

http://www.sololibri.net/La-croce-buddista-Tanizaki.html#forum5187       14 settembre 2015

RECENSIONI

TANIZAKI

JUNICHIRO TANIZAKI, LA GATTA – BOMPIANI, MILANO 2018

Junichiro Tanizaki (1886-1965) pubblicò questo lungo e giustamente celebrato racconto nel 1936. Tutto compreso all’interno di una casa e di stretti rapporti familiari, è giocato sulle sottili seduzioni e vendette psicologiche che si scatenano tra i quattro protagonisti umani (il pingue e mellifluo Shōzō, proprietario trentenne di un negozio di casalinghi; sua madre O-Rin, che ancora lo domina e sorveglia; la prima moglie Shinako, rancorosa per essere stata ripudiata e sostituita; la nuova moglie Fukuko, volubile e isterica) e il personaggio principe: la splendida e viziatissima gatta Lily. Shōzō la adora, la coccola, si lascia graffiare e tormentare in ogni modo, le permette di dormire nel suo letto, si toglie dalla bocca i pesciolini cucinati dalla mogliettina per regalarli alla micia. Non sopporta l’idea di separarsi da lei, che invece è quanto gli chiedono, con motivazioni diverse, tutt’e tre le donne della sua vita.

La madre O-Rin utilizza Lily come arma per attaccare le due nuore o per rimproverare al figlio i suoi molti difetti, la prima moglie Shinako dopo il divorzio ne reclama il possesso sperando così che l’ex-marito le si riavvicini per amore dell’animale, Fukuko la odia perché non ne sopporta gli odori, i peli, il vomito, e soprattutto è furiosa per l’interesse e le attenzioni che il suo sposo le dedica. Ma Shōzō, che l’aveva accolta in casa ventenne e dopo dieci anni ne rimane più innamorato che mai, non tollera l’ipotesi di allontanarla da sé, e le permette qualsiasi capriccio, incoraggiandola con eccessive e morbose abitudini confidenziali. Quando Shinako riesce ad avere in custodia la gatta, sottraendola al marito, nasce una specie di guerra tra i due ex-coniugi, fatta di gelosie, appostamenti e dispetti reciproci, quasi si trattasse di contendersi un figlio

Il grande merito di Tanizaki in questo racconto risiede nella sua straordinaria capacità di scrutare e portare alla luce i grovigli e le contraddizioni della psiche dei protagonisti, e ancora di più nel tratteggiare con affettuosa complicità i comportamenti della gatta, sia nell’istinto naturale che la anima, sia negli atteggiamenti quasi umani assunti nel corso della narrazione. Ad esempio, la pagina in cui viene narrato il primo parto di Lily, la sua paura della sofferenza, le mute richieste di aiuto al padrone, meriterebbe di essere inserita in un manuale di etologia felina. Così come la descrizione delle moine ruffianesche con cui la micia tenta di sedurre le persone per ricavarne qualche profitto, in termini di cibo o di carezze. L’attenzione e la cura con cui l’autore descrive sia la fisicità sia la psicologia di Lily, rivela non solo la sua profonda conoscenza e il suo amore personale per i gatti, ma anche la considerazione in cui la cultura giapponese ha tradizionalmente tenuto questi animali, per la loro particolare intelligenza e misteriosa sensibilità.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/La-gatta-Tanizaki.html             25 marzo 2019

 

RECENSIONI

TARCHETTI

IGINIO UGO TARCHETTI, STORIA DI UNA GAMBA E ALTRI RACCONTI FANTASTICI

ERETICA, BUCCINO (SA) 2022

 

Tra gli esponenti più radicali della Scapigliatura milanese, si deve senz’altro annoverare Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839-Milano 1869) che, sia negli scritti teorici, sia nelle poesie e nelle opere narrative, seppe interpretare le istanze più radicali di questo movimento letterario, attivo per un ventennio nella seconda metà dell’800. In primo luogo per il gusto della ribellione antiborghese e della dissacrazione delle convenzioni morali e sociali dell’epoca, secondariamente per l’interesse a indagare gli aspetti crudi e patologici dei comportamenti umani, con una predilezione quasi ossessiva verso il macabro e la malattia. Suo capolavoro fu il romanzo Fosca pubblicato nel 1869, e ancora oggi ristampato e analizzato criticamente soprattutto per la penetrante rappresentazione della personalità della protagonista, donna colta e intelligente che riesce ad affascinare e turbare la psiche del coprotagonista maschile nonostante – o proprio a causa – del suo infelice aspetto fisico, al limite dell’anormalità.

Anche i racconti di Tarchetti, nella recente edizione proposta da Eretica, risentono dello stesso clima aderente all’ideale estetico della decadenza, scisso tra morbosità e grottesco, iperrealismo e illusione fantastica, che in quegli anni ebbe tra i massimi rappresentanti E.T.A. Hoffmann, Heinrich Heine, Charles Baudelaire, Mary Shelley ed Edgar Allan Poe.

Dei sei racconti presentati in questo volume, i più famosi sono il primo e l’ultimo, Storia di una gamba e La lettera U, entrambi incentrati su una fissazione maniacale del personaggio principale. Nel primo caso, il ventiquattrenne Eugenio, amputato della gamba sinistra (forse pretestuosamente) da un amico chirurgo cui era legato da un complicato rapporto di rivalità amorosa per la stessa donna, mantiene con l’arto asportato un legame angoscioso: non solo perché continua a viverlo attraverso assillanti sensazioni psicofisiche, ma anche perché non riesce a staccarsene nemmeno materialmente, e lo conserva in una teca con devozione abnorme. Sofferente di “ipocondria inguaribile” e di tetra malinconia, il giovane si sente parimenti vivo e morto, tormentandosi nell’osservazione ansiosa della parte vitale del suo corpo e di quella scheletrita. “Quella gamba? Io mi sento attratto continuamente, incessantemente verso di lei; è impossibile che io possa sottrarmi un istante a quella attrazione. Di giorno la vedo, di notte la sogno. E spesso anche la notte devo balzare dal letto, accendere la mia lampada, guardarla e ricoricarmi più tristo e più atterrito di prima”. Quando gli viene proposto di liberarsi dal suo incubo e di sotterrare “la reliquia”, preferisce lasciarsi morire.

Se in questa novella perturbante è la corporeità offesa e ferita ad avere il predominio nella psiche del protagonista, ne La lettera U è invece la follia psicotica, ammessa fieramente dall’io narrante già nel sottotitolo (manoscritto di un pazzo), ad annidarsi tra le righe del narrato, coinvolgendo nelle sue spire ipnotiche lo stesso lettore. Perseguitato dalla visione nefasta della vocale U, cui attribuisce la negatività che pervade l’intera umanità, già dall’infanzia combatte una sua personale e sanguinosa battaglia per cancellarla dall’alfabeto: “Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore? Sì, io l’ho scritta… Quella linea che si curva e s’inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio… Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!! Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!”. L’infelice si allontana dalla scuola, dai luoghi di lavoro, da tutte le donne di cui si innamora non appena scopre la mefistofelica traccia di una U nei loro nomi (Giulia, Ulrica, Susanna, Lucia…), e solamente il ricovero e il successivo decesso in manicomio lo liberano dalla sua angustia.

Anche gli altri quattro racconti presenti nel volume (Le leggende del castello nero, Un osso di morto, Uno spirito in un lampone, I fatali), calibrati con intelligenza tra atmosfere metafisiche e realistiche, sarcasmo e comicità, evidenziano la compenetrazione esistente nell’individuo e nella società di vita concreta e apparenza, salute e malattia, partecipazione e marginalità. Nell’approfondita postfazione di Daniele

Palmieri (che introducendo il libro offre una visione d’insieme della Scapigliatura milanese), Iginio Ugo Tarchetti viene definito un anticipatore delle angosce novecentesche espresse da Sartre, Camus e Cioran: “la perdita di senso, la morte dell’anima che rende l’uomo un involucro vuoto schiacciato tra due dimensioni, quella della vita quella della morte”. L’assurdo inspiegabile, insomma, che attanaglia le menti degli esseri umani, con interrogativi privi di risposta.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 6 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TAROZZI

BIANCA TAROZZI, TRE PER DIECI – CICERO, VENEZIA 2013

Bianca Tarozzi, stimata traduttrice dall’inglese e per anni docente universitaria di letteratura anglo-americana, si è occupata egregiamente di critica letteraria e di poesia, pubblicando numerose raccolte di versi. In questo volume, il titolo allude alla scansione delle trenta liriche in dieci sezioni, ciascuna delle quali contiene tre composizioni accomunate dallo stesso tema. Il fil rouge che attraversa il libro è quello della memoria, di un intenerito omaggio al proprio passato, rivisitato nei suoi aspetti più pregnanti, commossi, e graffiati nel cuore. Quindi i giochi infantili, in brigate rissose e vivaci, in una natura campestre ancora amica e complice; i primi amori e i progetti sul futuro; gli incubi e le paure irrazionali; le letture e il mondo fantastico delle biblioteche; i ritratti di amicizie femminili; la sostanziale estraneità all’esibito pragmatismo sociale; il ricordo dell’arte magica del ricamo, perduto irrimediabilmente nell’attuale e disanimata produzione industriale: «Il vestito col punto a nido d’ape / si metteva soltanto la domenica, / nelle grandi occasioni, / alle feste e alle prime comunioni.//… Le sarte specialiste ora purtroppo / han cambiato mestiere. Anche le api / vanno vagando in luoghi ove si è rotto / l’equilibrio ecologico, a zig zag, // non più dolci ma amare, / perso l’orientamento e l’alveare».

Il rimpianto per il tempo trascorso, per il mondo d’antan, non riguarda tuttavia solamente la realtà esterna: è soprattutto disillusione e rincrescimento rispetto alle scelte non fatte, alle occasioni sprecate, alle ambizioni rinnegate: «l’angoscia sempre torna / per ogni cosa persa, trafugata, / scomparsa in qualche sacca della vita, / di cui devo rispondere… //…quando mi chiederanno i miei talenti / io piangendo dovrò dissotterrarli?»; «La mente / l’ha tradita, volava intorno al niente»; «Dopo aver evitato quasi sempre / con cura di scontrarsi con la vita / (bastava in fondo restarsene di lato/ guardare senza essere guardati)…»; «Il mondo mi tirava dalla sua, / l’arte dall’altra parte. / Incerta, mi affidavo / a sintassi e grammatiche / prescrittive, automatiche, / a statistiche regole».

Il passato, allora, è rifugio e consolazione («Impensabile / impossibile / invisibile / passato»), e Bianca Tarozzi lo offre ai lettori con la dolcezza di tonalità sfumate, spesso cantilenanti nell’assiduità delle rime baciate, di una metrica tradizionale, di echi letterari primonovecenteschi (Gozzano, soprattutto), sullo sfondo suggestivo di una sua Venezia magica.

 

«Leggere Donna» n.163, luglio 2014

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