FREDERIC DE TOWARNICKI, RITORNO AD HEIDEGGER – DIABASIS, PARMA 2015

Nel breve romanzo Ritorno ad Heidegger, recentemente ripubblicato dalle edizioni Diabasis, il poeta e giornalista francese Frèdèric de Towarnicki (1920-2008) narrava un trentennio di conoscenza, amicizia e discepolato con il filosofo Martin Heidegger, dal primo incontro avvenuto nel 1945 nei dintorni di Friburgo fino all’ultima visita del 1969. Il volume, con prefazione di Beppe Sebaste e nota finale di Gianni Scalia, corredato da alcune interessanti fotografie, ci restituisce “non un supposto, bensì un vivente Heidegger”, come chiosa il postfatore: un omaggio riconoscente di un allievo al suo maestro, l’espressione della gratitudine dovuta al mentore che seppe illuminare la sua giovane intelligenza, inquieta e interrogante, in “una quête che era anche ricerca di se stesso”.

Chi era Frèdèric de Towarnicki? Di origine polacca, e madre ebrea viennese, Sebaste lo incontrò a casa sua, in un sobborgo di Parigi, descrivendolo nel 1996 come «appassionato e istrionico, umoristico e sincero…amico di pittori, uomini e donne di teatro, scrittori, filosofi…da Brecht a Ernst Jünger, da Mircea Eliade a Max Ernst, da Chagall a Picasso… la sua erranza poetica fu costellata di incontri e interrogazioni con maestri». Il più fondamentale dei quali fu, appunto, Heidegger: «La bellezza del loro incontro consisté proprio nell’improbabilità, nella discontinuità e disomogeneità dei linguaggi e dei modi».

Originale, anticonformista, vulcanico l’allievo; meditativo, austero, criptico il filosofo.
Nel capitolo iniziale del libro, Frèdèric si descrive come un ventenne che negli anni della seconda guerra mondiale si aggirava per Saint-Germain-des-Prés desideroso di incontrare i protagonisti della cultura parigina dell’epoca, in un clima di nascente esistenzialismo: Sartre, in primo luogo, nel cui L’être et le néant ebbe a scoprire per la prima volta i nomi di Husserl e Heidegger. E poi tutta la cultura contemporanea che aveva fatto del confronto polemico con il presente, dell’engagement più bellicoso una sfida e un obiettivo imprescindibile. La fenomenologia tedesca, bollata come «canto del cigno di una piccola borghesia minacciata», veniva accusata di aver spostato l’indagine dall’esistenza incardinata nella storia e nella contemporaneità verso la struttura puramente ontologica dell’uomo, e al senso ultimo dell’essere, all’essenza stessa della verità. Incuriosito dalle teorie heideggeriane, il venticinquenne Towarnicki (arruolato nel servizio sociale di documentazione “Rhin et Danube”, e inviato in missione nella Germania meridionale in disfatta), ebbe l’opportunità insperata di avvicinare il tanto ammirato filosofo tedesco, caduto in disgrazia per la sua complicità con il nazismo, e costretto a nascondersi in una baita a Totdnauberg, nella Foresta Nera. Il giovane e arguto poeta francese divenne così il «messaggero segreto» di Heidegger, il suo «visitatore impossibile, senza orologio né calendario», che seppe romperne l’isolamento culturale, creando un collegamento filosofico tra gli scritti di lui e la cultura francese, nelle persone di Sartre, Camus, Queneau, Merleau-Ponty, La Senne, Raymond Aron, Jean Beaufret, Emmanuel Lévinas. Il romanzo è quindi una sorta di diario degli incontri tra il giovane Frèdèric e Heidegger, a partire dal primo, nell’autunno del ’45, avvenuto nella casa di Zähringen, alla presenza di Alain Resnais e del capitano Fleurquin: «Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico… Un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale».

Con questo “provinciale” che lo interroga sulle abitudini sociali e culturali europee, che irride l’ esistenzialismo e il marxismo, che si difende (insieme alla querula moglie Elfride) dalle accuse di collaborazione col nazismo, che gli consegna scritti inediti e fotografie e gli suggerisce di leggere i presocratici e i tragici greci, Nietzsche e Hölderlin, de Towarnicki instaura un rapporto di rispettosa ma non sottomessa amicizia, condividendo con lui la concezione dell’uomo inteso come «essere di slancio e progetto», ma interrogandosi se davvero la filosofia dovesse definirsi «un sapere inutile nell’immediato». Raccontò anni dopo il poeta Renè Char, amico di Martin Heidegger dal 1955, che ai seminari di Thor negli anni Sessanta, ogni volta che il filosofo udiva il nome di Towarnicki, il suo volto «si illuminava di un largo, lungo sorriso». Tornato a Parigi, dove «di caffè in caffè si ricostruiva il mondo», Frèdèrick divenne commentatore delle pagine culturali di Le Figaro, e continuò nel suo pervicace impegno di difendere il pensiero spesso incompreso del Maestro e la passione pedagogica di lui, tentando anche di giustificare il suo travisamento ideologico del nazismo. Poi, di nuovo partecipe dell’impegno culturale francese di sinistra, collaborò con la redazione sartriana di Les Temps Modernes, lavorando a fianco dei dissidenti sovietici. Per un decennio trascurò sia la frequentazione sia la lettura di Heidegger, irretito forse da quella che il filosofo tedesco definiva «l’epoca calcolante dominata dallo spirito della tecnica», oppure «il circo…il girotondo tirannico ed effimero dell’attualità». Il richiamo del pensiero heideggeriano, quindi Il ritorno ad Heidegger, tornò tuttavia a farsi prepotente in lui, e negli anni della protesta sessantottesca lo riportò sulla strada di Friburgo, dal Professore ormai vecchio, deluso, isolato. Solo allora, Frèdèric de Towarnicki osò chiedergli il motivo del suo tragico errore nel 1933. «Dummheit», rispose Heidegger. «Stupidità».

 

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www.sololibri.net/Ritorno-ad-Heidegger-de-Towarnicki.html         20 aprile 2016