Mostra: 121 - 130 of 1.356 RISULTATI
RECENSIONI

BATTIATO

FRANCO BATTIATO, IL SILENZIO E L’ASCOLTO – CASTELVECCHI, ROMA 2014

Queste quattro conversazioni di Franco Battiato sono la trascrizione di altrettanti brevi interventi registrati per il canale satellitare Rai Doc e come tali vengono commentate dalla postfazione di Giuseppe Pollicelli. Il ruolo dell’artista siciliano sembra essere di puro supporto alle parole degli intervistati, uno stimolo discreto al chiarimento di alcuni concetti fondamentali del loro pensiero, ovviamente banalizzato e reso facilmente fruibile in poche righe.
Così all’islamista sufi Gabriele Mandel, Battiato pone domande sul misticismo e sulla reincarnazione: «Non siamo forse noi una goccia di quell’oceano infinito, a cui tendiamo e a cui ritorniamo che è Dio?». Al musicista Claudio Rocchi su dualismo e unità, passato e presente, sesso e castità: «Ciò che è utile in un contenitore è il vuoto, perché un contenitore pieno non può contenere più nulla». Al regista Alejandro Jodorowsky su scienza, rapporto tra maschile e femminile, alchimia, libertà, energia vitale: «Dio o il diavolo sono un’energia a nostra disposizione». Ma è soprattutto con il grande studioso delle religioni e mistico ecumenico Raimon Panikkar che Battiato trova una particolare sintonia di emozioni e riflessioni: «Nella vita quotidiana di noi uomini manca molto la profondità, siamo talmente distratti dai mille gadget della tecnologia… Ebbene, se c’è un compito che spetta alle religioni è quello di andare in profondità! … penso che oggi essere religiosi significhi non essere settari… l’unica vera religione… è quanto ci lega e ci slega dalla realtà».

Tempo ed eternità si compenetrano, non sono uno precedente o successivo all’altro; Panikkar conia a questo proposito il neologismo «tempieternità»: «Cogliere i momenti tempiterni in ogni istante è la chiave della felicità», consapevoli della nostra finitezza ma anche della nostra unicità. Recuperando attenzione e silenzio, capacità di ascolto, meditazione.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Il-silenzio-e-l-ascolto-Franco.html         24 dicembre 2015

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, PERCHE’ NON E’ GIA’ TUTTO SCOMPARSO? – CASTELVECCHI, ROMA 2013

Se Leibniz nella sua Grundfrage si chiedeva «Perché l’ente anziché il niente?», riproponendo uno degli eterni quesiti filosofici, il sociologo francese Jean Baudrillard ha attualizzato con indubbia verve provocatoria quell’antico interrogativo del pensatore tedesco chiedendosi, e chiedendo a noi lettori, se per caso la realtà – e l’umanità con essa – non sia già scomparsa, dissolta, volutamente autoeliminandosi dalla creazione, come in un enorme buco nero. Jean Baudrillard scrisse queste pungenti e amare considerazioni nel 2007, pochi mesi prima di morire, probabilmente riflettendo sulla sua prossima fine e sul destino di incenerimento che attende ogni essere e attività umana.

«La specie umana è l’unica ad aver inventato un modo specifico di scomparire, che non ha niente a che vedere con la legge di natura…» Avendo impresso un’accelerazione aberrante a un’evoluzione che non ha più niente di naturale, e avendo accarezzato presuntuosamente il progetto prometeico della gestione dell’universo, l’umanità si è condannata alla sparizione della sua stessa specie, in un inarrestabile processo di autodistruzione: «come se da qualche parte tale destino fosse stato programmato e noi non fossimo che gli esecutori a lungo termine di questo programma».

Insomma, sembra proprio che il mondo non abbia più bisogno di noi, se è vero – come affermano i biologi – che se il genere umano sparisse dalla terra, con lui sparirebbero solo quattro o cinque specie animali (le zanzare senz’altro…), mentre le altre continuerebbero a sopravvivere, forse anche più felicemente. La realtà si trasforma in virtualità, la coscienza individuale si polverizza, il soggetto si disperde, i valori morali si modificano, i comportamenti si uniformano, le culture si amalgamano e risultano indifferenziate. Stiamo vivendo una rivoluzione antropologica a livello planetario, in cui la rappresentazione del mondo sembra arrivata al suo compimento. Il reale, infatti, è stato inghiottito dalla sua riproduzione tecnica, duplicato sinteticamente in un miraggio artificiale.
E qui la riflessione di Baudrillard propone un’azzeccatissima metafora con la trasformazione subita negli ultimi decenni dall’arte fotografica che, diventando digitale, si è «liberata in un colpo solo del negativo e del mondo reale»». Quando il software prevale sullo sguardo, quando spariscono il differito e il distante, e l’immagine viene riprogrammata tecnicamente, ecco che allora la stessa realtà viene riciclata, e ogni rappresentazione risulta adulterata, falsa, illusoria, seriale.
Se scompare il reale, se l’intelligenza diventa artificiale, e se la singolarità è assorbita e annullata nell’universale, a un filosofo apocalittico come Baudrillard non resta che chiedersi: Perché non è già tutto scomparso?

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/Perche-non-e-gia-tutto-scomparso.html

9 dicembre 2015

 

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, IL COMPLOTTO DELL’ARTE – SE, MILANO 2012

Raccolta di saggi che Jean Baudrillard scrisse negli anni ’90, Il complotto dell’arte ha catalizzato per più di un decennio l’interesse polemico e roventi discussioni tra critici, artisti e appassionati d’arte per il tono irrisorio e requisitorio con cui il sociologo francese metteva alla berlina la produzione pittorica del ventesimo secolo. «Tutto il movimento della pittura ha rinunciato al futuro e si è volto al passato. Citazione, simulazione, riappropriazione…l’arte attuale si limita a riappropriarsi in modo più o meno ludico, o più o meno kitsch, di tutte le forme e le opere del passato, vicino o lontano, o addirittura già contemporaneo».

Gli strali feroci di Baudrillard sono rivolti non solo all’arte figurativa, ma anche al cinema: «un’orgia di mezzi e di sforzi impiegati a squalificare il film con un eccesso di virtuosismo, di effetti speciali, di cliché megalomani…Più ci si avvicina alla definizione assoluta, alla perfezione realistica dell’immagine, più si perde la forza di illusione» Ecco la grande assente dal panorama artistico contemporaneo: l’illusione, e con essa l’incanto, l’immaginazione, il desiderio, l’enigma. Ogni tipo di espressione artistica sembra tesa al “metalinguaggio della banalità”, a parlare e a straparlare di se stessa, snobbando il mondo e la realtà, svelando brutalmente ogni segreto, nell’idolatria dell’apparenza e dell’artificialità. «Oggi, tutte le cose vogliono manifestarsi. Gli oggetti tecnici, industriali, mediatici, gli artefatti di ogni specie vogliono significare, essere visti, essere letti, essere registrati, essere fotografati… Oggetti feticci, senza significato, senza valore, specchio del nostro radicale disincanto del mondo».

Baudrillard osserva che a partire da Duchamp, per arrivare a Warhol e a Koons ci siamo tutti (artisti, critici, pubblico) resi complici di questa derealizzazione dell’arte, diventata oggetto di consumo prestigioso, come qualsiasi altro affare commerciale: «Tutta la duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in questo: rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante. Aspirare alla superficialità in termini superficiali». A questo punto, l’arte diventa inutile, riciclata, non smuove più niente, se non gli interessi del mercato, finendo per produrre gadget estetici funzionali solo al kitsch universale: e «non sarà stata che una parentesi, una sorta di lusso effimero della specie».

Questo pungente e provocatorio volume si conclude con due interviste all’autore e con un saggio di Sylvère Lotringer.

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/complotto-arte-Baudrillard.html      10 maggio 2016

 

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, L’AGONIA DEL POTERE – MIMESIS, MILANO 2008

 

L’agonia del potere, volumetto pubblicato da Mimesis, propone la trascrizione di due conferenze tenute da Jean Baudrillard (1929-2007) a Madrid nel 2005, in cui il più eclettico e polemico teorico della postmodernità attaccava frontalmente l’idea del potere: fagocitante, egemonico, repressivo, ma destinato all’autoannientamento.
Sia nella prefazione di Jorge Lozano sia nella postfazione di Alberto Abruzzese vengono ribaditi i caratteri più peculiari della riflessione teorica di Baudrillard, che ne hanno fatto un filosofo così fuori dagli schemi: «Pensava da solo (…) Un pensiero parossistico e paradossale”, “Intellettuale eccentrico eppure gran Maestro del Novecento (…) in tutta la sua programmatica contraddittorietà (…) un iconoclasta affascinato dalle immagini».

I due saggi proposti ne L’agonia del potere sono accomunati dalla perentoria e sarcastica condanna dell’ideologia occidentale contemporanea, così come viene espressa dalla cultura, dall’arte e dallo spettacolo, e soprattutto dalle forme seduttive e virulente assunte dal potere. Violenza dell’immagine – violenza contro l’immagine  è il titolo del secondo intervento, in cui il filosofo si scaglia con indignazione non tanto contro la soperchieria tradizionale rappresentata dall’aggressione, dalla forza bruta, dall’oppressione, quanto invece contro la prevaricazione più sottile e subdola del controllo, della dissuasione, della neutralizzazione. Esercitata in primo luogo dall’informazione e dai media, che ci riducono tutti a diventare «dei riciclati, degli zombi», affascinati dalla visibilità totale, dalla trasparenza immediata, dal Grande Fratello internazionale che trasforma la realtà in un reality totalizzante e totalitario, «nell’esibizionismo delirante della nullità», in cui l’osceno diventa addirittura banale, ogni distanza si abolisce, trasformando anche la tragedia della sofferenza in spettacolarità virtuale.

È però soprattutto nel primo saggio, L’agonia del potere  che si esprime al massimo l’allarme profetico di Baudrillard riguardo ai destini della nostra civiltà. E le sue parole assumerebbero un’asprezza polemica quasi apocalittica, se non intervenisse l’usuale ironia, l’acume beffardo con cui l’autore sembra strizzare l’occhio al lettore.
Se esiste, infatti, un ordine egemonico mondiale che illude i popoli con l’utopia di una liberazione totale, di un’autonoma disposizione di sé, della risoluzione di ogni conflitto – materiale o spirituale – questo potere sovranazionale è artefice di una «immensa simulazione, un immenso reality show in cui non siamo altro che vergognose comparse».

Infatti, negli ultimi anni abbiamo assistito alla subordinazione dell’intera realtà all’ordine economico, e, cosa ancora più grave e drammatica «a un asservimento delle menti a un unico modello, a una sola dimensione concettuale» imposta dal capitalismo attraverso il condizionamento generale dei media e della pubblicità. Bisogni, desideri e aspirazioni delle persone (per lo più indotti) vengono falsamente soddisfatti prima ancora del loro proporsi, attraverso una profusione e una tutela condizionata che producono sazietà e saturazione, anticipando le risposte a qualsiasi domanda.
Anche le politiche delle singole nazioni stanno trasformandosi in un «gioco di idoli e di marketing»: ne è una prova il fatto che salgono alla ribalta del potere personaggi che appartengono al mondo dello spettacolo (attori, comici, soubrette) o comunque creati mediaticamente, in una rincorsa sfrenata verso la farsa e la volgarità. Questa «forma carnevalesca e cannibale» di intendere il servizio pubblico ha già prodotto un’effettiva derealizzazione, non avendo più basi economiche e politiche concrete, ed è destinata all’autodistruzione: perché non la salverà nemmeno il maldestro tentativo di imporre alle popolazioni diseredate del terzo mondo il proprio sistema di valori, l’ideale di un welfare incondizionato, eterno ma fittizio. «Quanto più il mondo si globalizza, tanto più la discriminazione si fa feroce (…) All’ordine integrale risponde una rivolta integrale». Che sta terrorizzando l’intera civiltà occidentale, e ne prospetta la disintegrazione.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/agonia-potere-Baudrillard.html       19 maggio 2016

 

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, LA SPARIZIONE DELL’ARTE – ABSCONDITA, MILANO 2012

«Si pretende che la grande impresa dell’Occidente sia quella della mercantilizzazione del mondo, di aver abbandonato tutto al destino della merce. È vero, ma bisogna vedere come la grande impresa dell’Occidente sarà stata piuttosto quella dell’estetizzazione del mondo, della sua messa in scena cosmopolita, della sua messa in immagine, della sua organizzazione semiologica… Tutto, anche il più insignificante, il più marginale, il più osceno, si culturalizza, si museifica, si estetizza».

In La sparizione dell’arte il filosofo e semiologo francese Jean Baudrillard (1929-2007) ribadisce la sua provocatoria tesi riguardante la minaccia che incombe sulla nostra contemporaneità: l’estetizzazione di tutto il reale. Ogni cosa prodotta viene utilizzata, sfruttata, sacralizzata nell’arte. Non solo nei musei e nelle gallerie, nei luoghi deputati della cultura: ma ovunque, nelle strade, sui muri, nella banalità degli oggetti più comuni. Assistiamo a «una proliferazione di segni all’infinito, riciclaggio all’infinito di forme passate o attuali (il grado Xerox della cultura), ma dove non esiste più alcuna regola fondamentale, alcun criterio di giudizio, alcun piacere». In queste due conferenze tenute nel 1987, e rivolte soprattutto ad utenti-artisti, o comunque al mondo culturale che gravitava intorno al mercato dell’arte, Baudrillard sottolineava il paradosso a cui assistiamo da alcuni decenni: a un sostanziale immobilismo, a un’inerzia, a una mancanza di ispirazione e alla mancanza di profondità e di originalità di chi opera artisticamente, corrisponde una frenesia produttiva, un movimento convulsivo e proliferante dei prodotti artistici. Tutto diventa arte, «tutto è estetico, niente è più bello né brutto, e l’arte stessa sparisce».

La stessa cosa succede nella politica e nella sessualità, che si estetizzano nello spettacolo, nella pubblicità e nella pornografia, perdendo l’effettivo contatto con la realtà, nella nostra era «del simulacro e della simulazione», delle fake news imperanti, in cui il vero non si distingue più dal falso, e il veicolo del messaggio diventa più importante del contenuto. Forse il simbolo più rappresentativo di questa nuova funzione dell’arte è stato Andy Warhol: «Warhol non appartiene alla storia dell’arte. Appartiene al mondo, molto semplicemente. Non lo rappresenta, ne è un frammento, un frammento allo stato puro. Ecco perché, visto nella prospettiva dell’arte, egli può essere deludente. Visto come rifrazione del nostro mondo, è di un’evidenza perfetta». L’arte, perduta la sua autonomia creativa, sembra destinata a sparire, o a definirsi come pura tecnica, industria, artigianato rituale, diventando «solo una parentesi nella storia dell’umanità». Se nella mistificazione orgiastica di ciò che appare finisce per sparire la realtà, forse sarà necessario tornare all’evidenza del mondo.

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/La-sparizione-dell-arte-Baudrillard.html

23 gennaio 2018

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, PAROLE CHIAVE – ARMANDO, ROMA 2002

Quali sono i termini chiave che introducono alla filosofia di Jean Baudrillard, uno dei pensatori più originali e provocatori del postmodernismo? Li elenca lui stesso in questo piccolo volume, che non ha alcuna ambizione esaustiva, ma tenta di “traghettare” il lettore verso una proliferazione di concetti e di immagini continuamente in trasformazione, senza mai rivendicare un approdo definitivo. Una prospettiva dinamica, dunque, di collegamento e scambio tra le varie idee che hanno animato l’interpretazione filosofica del semiologo francese.

La prima delle quindici Parole-chiave presentate è quindi “l’oggetto”, fondamentale nella riflessione sul consumismo e sull’egemonia della merce nel mondo contemporaneo. L’oggetto si oppone al predominio assolutizzante del soggetto, rivendicando quasi una propria autonomia attraverso la sua immanenza concreta, immediata, non riducibile alla volontà o al desiderio umano: appaga e insieme inganna ogni aspettativa, si oppone a ogni relazione. Alla riflessione sull’oggetto, Baudrillard lega quella sul valore e sullo scambio simbolico, non più vincolati esclusivamente ai concetti economici e commerciali, bensì anche alla sfera – ormai prevalente ‒ dell’estetica, della comunicazione, della creatività, del gioco.

Qui entrano in discussione i termini che più hanno caratterizzato il pensiero del filosofo: la seduzione, l’osceno, il virtuale, l’aleatorio. Insomma, tutto ciò che sembra mancare di concretezza ma finisce per influenzare moltissimo il comportamento dell’uomo contemporaneo, legando le sue scelte ideologiche ed etiche alla soddisfazione del piacere, svincolandolo dal dominio necessitante della produzione e dell’accumulazione. Gioco, godimento, spettacolo, simulazione, rendono il reale più flessibile e meno coercitivo, superabile in un’iper-realtà che finisce per diventare dominante. La tecnologia rende il virtuale più “riuscito” e funzionante del reale: “La realtà virtuale, la quale è perfettamente omogeneizzata, numerizzata, si sostituisce all’altra perché è perfetta, controllabile e non contraddittoria”.

Le nuove tecnologie, pur caratterizzate dall’inumanità, finiranno per liberarci dal mondo dei valori, del giudizio, di ogni “pesante cultura morale e filosofica”? Spersonalizzati, epurati, ci dirigeremo verso un futuro non prevedibile e non controllabile, che potrebbe costituirsi come catastrofe o salvifica rinascita. In conclusione del suo dizionario, Baudrillard elenca appunto termini quali fine, caos, male, morte, in un raffronto metafisico e fatale tra Eros e Thanatos. Poiché la nostra cultura occidentale ha avuto “l’ambizione, l’esigenza e l’illusione di possedere il mondo, di analizzarlo per poi dominarlo”, patisce ora la minaccia di una sparizione, assorbita completamente dall’irrealtà del virtuale.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Parole-chiave-Jean-Baudrillard.html

5 febbraio 2018

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, LA TRASPARENZA DEL MALE – SUGARCO, MILANO 2018

Nel 1990 Jean Baudrillard (1929-2007) pubblicò in Francia una raccolta di saggi, come sempre acuti e provocatori, intitolata La trasparenza del male, più volte riproposta in Italia fino a quest’ultima edizione di Sugarco del 2018.

In questo volume, è l’articolo iniziale ad assumere un rilievo filosofico fondamentale, nel suo porre quesiti ineludibili alla riflessione etica sulla società contemporanea. L’orgia come momento esplosivodella modernità, determinato dalla liberazione (avvenuta a partire dagli anni ’60) di tutti gli impulsi consci e inconsci, individuali e collettivi. Liberazione politica, sessuale, artistica, con la conseguente sovraproduzione di modelli materiali e comunicativi, ideologici ed edonistici, svincolati dal reale. Tutte le varie categorie della modernità arrivarono alla deflagrazione, aprendosi a un cambiamento continuo, e quindi all’indeterminazione e all’incertezza. Il crollo dei valori, delle fedi e delle ideologie, comportò un disorientamento nei comportamenti individuali e collettivi, poiché lo stesso senso della realtà risultava diluito e fortemente ridimensionato. Un’orgia, quindi, di sensazioni e condotte individuali non più sottoposte al vaglio della razionalità, ma obbedienti alle direttive fornite dai media mondiali, direzionati da interessi economici sovranazionali che hanno mercantilizzato anche le relazioni umane.

Se tutto è per tutti simultaneamente politico, sessuale ed estetico, ecco che non esiste più politica come mediazione, sesso come amore e piacere, arte come bellezza. Non esiste più avanguardia perché non c’è nulla da anticipare, né informazione obiettiva poiché ogni avvenimento si trasforma in spettacolo, non produzione ma solo ri-produzione. Qualsiasi espressione supera sé stessa, arriva all’oltre, al “trans” e al “post”. L’arte e la critica dell’arte sono scomparse proliferando i loro segni all’infinito, riciclando forme passate e attuali, eliminando qualsiasi criterio di giudizio: tutto è arte, quindi niente è più arte.

Alla stessa maniera, tutto è sessualizzato e indifferenziato nel rapporto fisico tra i corpi: al desiderio si è sostituito il consumo della pornografia (anch’esso arrivato all’eccesso bulimico), alla cura dell’aspetto l’idolatria del look. E nella gestione del potere finanziario si è arrivati allo stesso sdoppiamento, tra economia reale e economia fittizia; intrappolati come siamo tra speculazioni bancarie, debiti insolvibili, nazioni intere in deficit, inflazione e disoccupazione. Persino lo sport non è più un’attività disinteressata, ma programmata per superare record, per distruggere gli avversari, per esaltare fino all’ossessione la propria forma fisica.

Quale ruolo rivestono, a questo punto, internet e la rete, nella creazione dei modelli culturali? “Il successo fantastico dell’intelligenza artificiale non proviene forse dal fatto che essa ci libera dall’intelligenza reale, dal fatto che, rendendo ipertrofico il processo operativo del pensiero, ci libera dall’ambiguità del pensiero e dell’enigma insolubile del suo rapporto col mondo?” La macchina pensa per noi, decide per noi.

Cos’è allora, oggi, il male? Da dove viene, come agisce, con quali finalità? Sulla malattia (tema oggi attualissimo!) e sul terrorismo, Baudrillard scrive pagine addirittura profetiche, quando afferma che le difese messe in atto dalle società progredite sono addirittura controproducenti. I “fenomeni estremi”, come li definisce, sono i soli capaci di attirare l’interesse della gente. Per vincerli, per superarli, per disarmarli, dobbiamo rimettere in gioco tutti gli scenari possibili, reali o virtuali, riproponendo l’utopia di una liberazione dal male capace di usare le sue stesse armi, spuntandole.

“Abbiamo portato nel resto del mondo abbastanza germi, abbastanza malattie, epidemie e ideologie nei confronti delle quali era privo di difese; sembra ora che con un rivolgimento ironico delle cose siamo noi oggi senza difese di fronte e un infame piccolo morbo arcaico”.

Negando il male, espellendolo dai suoi confini, l’occidente l’ha reso più contagioso: candeggiando la propria violenza, mimetizzandola retoricamente in un farisaico buonismo generalizzato, l’ha in realtà potenziato. E in qualche modo, ora il male si vendica, in totale trasparenza.

 

© Riproduzione riservata

//www.sololibri.net/La-trasparenza-del-male-Baudrillard.html           10 marzo 2020

RECENSIONI

BAUMAN

ZYGMUNT BAUMAN, MEGLIO ESSERE FELICI – CASTELVECCHI, ROMA 2017

Di Zygmunt Bauman (1925-2017), sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche, Castelvecchi pubblica, nella sua meritoria collana economica di saggistica breve “Irruzioni”, un libriccino introdotto da Massimo Arcangeli, che affronta un argomento discusso e indagato dagli albori della civiltà e della cultura umana. Teorico e critico dei fasti nefasti della globalizzazione, della modernità liquida, della sessualità estetizzante e della piovra consumistica, Bauman in Meglio essere felici non vuole additarci la via per raggiungere e afferrare saldamente la felicità, obiettivo quanto mai incerto e sfocato. Ci invita invece, proponendoci “molte più domande che risposte”, a riflettere sulle cose positive che abbiamo, piuttosto che a tormentarci per ciò che non possediamo e probabilmente non possederemo mai.

Partendo dalla considerazione condivisa universalmente che è “meglio essere felici che infelici”, afferma che le definizioni di cosa sia la felicità si sprecano, anche se sostanzialmente nell’opinione comune sembrano ridursi alla promessa di una vita con meno disagi e svantaggi, priva di preoccupazioni (come ci illude la modernità, nell’avanzamento del progresso tecnico e scientifico), impantanata in una quotidianità appagata ma noiosa. In realtà, noi non siamo mai felici in modo continuativo, ma solo nel momento in cui superiamo il dolore, il fastidio fisico, una delusione o un disappunto. Felici per poco tempo, però intensamente, proprio quando lottiamo contro le difficoltà e riusciamo a superarle. Verissimo che “c’è un effetto diretto tra la situazione in cui siamo nati, la nostra cosiddetta sorte, e l’abilità di perseguire e conquistare la felicità”: ognuno di noi è delimitato da condizioni fisiche, sociali, economiche di partenza, su cui è arduo se non impossibile intervenire. Però possiamo modificare il nostro carattere, in modo da indirizzare la nostra esistenza verso condizioni migliori di quelle stabilite per noi dal fato. Ma perché, se non riusciamo a raggiungere lo stesso successo dei modelli che ci vengono imposti culturalmente, diventiamo infelici, scontenti di noi, complessati? Molti filosofi, da Max Scheler a Alexis de Tocqueville, hanno attribuito proprio all’illusione democratica dell’uguaglianza questo diffuso senso di inadeguatezza che rende le persone insoddisfatte, in quanto spalanca davanti ai loro occhi un enorme ventaglio di possibilità di realizzazione che tuttavia rimangono spesso un miraggio irraggiungibile. Ne nascono invidie, rivalità, sensi di colpa e di inferiorità paralizzanti. Attraverso internet tutti possono spiare nelle esistenze degli altri, valutare i loro standard di vita, vedere dove abitano, dove vanno in vacanza, come si vestono: ne deriva un’ansia continua di confronto e il timore di non essere all’altezza delle aspettative proprie e altrui.

Bauman così commenta: finiamo per “comprare con i soldi che non si sono guadagnati cose di cui non abbiamo bisogno per fare una buona impressione – che non durerà – a persone di cui non ci importa nulla”. Vivere assorbiti in una spirale ansiogena che ci ossessiona con la seduzione del potere, dell’acquisto, della moda, del successo, ci rende proni agli imperativi consumistici del mercato che ci vuole insoddisfatti e sempre più desideranti, quindi potenziali clienti di prodotti innovativi. Bisogni indotti, infelicità immotivata, assuefatta all’idea che tutto si possa comperare: amicizia, amore, successo, compagnia. C’è Amazon, c’è Facebook, ci sono i talent show che promettono fama e soldi: ma, ci ammonisce Bauman, se vogliamo veramente stare bene, con noi stessi e con il mondo che ci circonda, la felicità dobbiamo cercarla in quello che abbiamo già: in casa nostra, con la nostra famiglia, con gli amici veri non casualmente incontrati sui social.

 

© Riproduzione riservata            

www.sololibri.net/Meglio-essere-felici-Bauman.html       30 ottobre 2017

RECENSIONI

BELLET

MAURICE BELLET, INCIPIT O DELL’INIZIO – SERVITIUM, 2001

Attraverso una scrittura semplice e accattivante, il sacerdote e psicanalista francese Maurice Bellet offre al lettore queste sue riflessioni sulla miopia spirituale della contemporaneità, sulla solitudine e incomunicabilità che contraddistinguono l’esistenza nelle nostre città alienanti, sulla carenza di risposte credibili alla angosciate richieste di senso da parte di chi è in ricerca di se stesso e di un ruolo sociale. Undici capitoletti scritti all’insegna della speranza, di un cauto ottimismo nel futuro, dell’apertura a una vita vissuta nella fede e nella solidarietà. “Cosa resta quando non resta niente? Questo: di essere umani verso gli umani, che fra di noi dimori il ‘fra noi’ che ci rende uomini”. Bisogna che torniamo tutti ad affidarci, secondo Bellet, al banale e all’ordinario della vita, a ciò che avevamo trascurato, presi da mille distrazioni e paure: a monte di ogni morale o politica, c’è l’attenzione verso ciò che è fuori di noi. Prima ancora di pensare il divino, “noi siamo questa primitiva tenerezza gli uni per gli altri… questa sobria tenerezza senza misura”. La parola d’ordine allora suona inusuale sulla bocca di un uomo di chiesa: “Disfare gli appoggi!”, “Nessuna barriera, nessuna frontiera”. Incontrare l’altro nel singolare, non nell’astrazione; nella sua fisicità e concretezza: “in tutto ciò che abita l’uomo, ivi compreso l’oscuro e il basso, ripreso, trasfigurato, trasmutato”. Un inno alla gioia e alla pienezza, al risveglio, alla premura e alla partecipazione, pronunciato con gaiezza quasi francescana, in una nuova aurora capace di superare ogni malinconia e crudeltà. Bellet è consapevole di quanto ci divida sempre dal prossimo: invidia, concorrenzialità, rancore. Ma invita ad abbandonare il rigore del Tempio, l’asprezza della condanna, la speculazione ascetica. Saremo giudicati non per ciò che siamo, ma per ciò che desideriamo di essere. Più nell’orizzontalità del rapporto umano che nella verticalità del rapporto con Dio.

IBS, 24 febbraio 2014

RECENSIONI

BELLINTANI

UMBERTO BELLINTANI, NELLA GRANDE PIANURA – MONDADORI, MILANO 2023

Sono passati più di trent’anni da quando venni a sapere dell’esistenza di un poeta schivo e originale, che viveva e scriveva lontano dai circuiti letterari ed editoriali, Umberto Bellintani, di cui subito cercai tracce, leggendo con commossa ammirazione i pochi versi allora recuperabili.

Bellintani è nato, vissuto e morto (1914-1999) a San Benedetto Po, in provincia di Mantova, e al suo paese, alla pianura e al fiume che lo ha accolto e nutrito, ha dedicato versi sanguigni e delicati, furenti e nostalgici. Dopo aver frequentato da ragazzo una scuola d’arte a Monza, con maestri prestigiosi (Marino Marini, Arturo Martini, Raffaele De Grada…), specializzandosi in scultura, nel 1940 fu richiamato alle armi, combatté in Grecia e Albania, e fu imprigionato in campi di lavoro tedeschi e polacchi dal ’43 al ’45. Tornato a casa, lavorò per tutta la vita come segretario nella scuola media del suo comune. Dopo le prime raccolte poetiche, uscite con notevole successo di critica nel 1953 e nel 1955, non pubblicò nient’altro per trentacinque anni, pur continuando a scrivere e a esporre disegni e sculture. Solo poco prima di morire diede alle stampe due raccolte di versi, la più importante delle quali, Nella grande pianura, viene oggi riproposta da Mondadori nella sua integrità, dagli esordi fino alle ultime composizioni e ad altri inediti. Nel 2004 il regista Franco Piavoli gli ha dedicato il lungometraggio Affettuosa presenza, i cui testi sono tratti dalla corrispondenza, allora inedita, con il poeta fiorentino Alessandro Parronchi, da sempre suo estimatore e  attento critico letterario.

Estraneo allo sperimentalismo e alla neoavanguardia degli anni ’60, ma altrettanto distante dal cronachismo neorealista e dal descrittivismo pacato della linea lombarda, Umberto Bellintani era più orientato verso un lirismo classicheggiante (risuonano in lui echi di Dante, Leopardi, D’Annunzio), capace sia di usare registri bassi e popolareschi, sia di proiettarsi “in una dimensione aperta all’ «immenso della vita», in un’avventura poetica segnata da una violenta, insolita forza espressiva, capace di increspare di continuo il verso e la pagina”, secondo Maurizio Cucchi, curatore del volume di cui ci occupiamo. Fu poeta irregolare, fuori dagli schemi, guardato con qualche sufficienza  dall’establishment letterario e accademico, come si evince dalle parole che gli dedicò Eugenio Montale nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”. Poeta di paese, quindi, addirittura campestre e terragno, alla pari del suo concittadino Virgilio amante della natura, degli animali, del paesaggio. Materia dei suoi versi fu essenzialmente la frazione di Gorgo in cui abitava, e che chiamava “il guscio”: tana, ovile, culla protettiva ma anche prigione e limite, vero e proprio gorgo di passioni contrastanti e scrigno di ricordi (“O mia Gorgo, / amici arrampicati sopra i pali, / allodole nel cuore, canto lieto / alle rive dei fiumi, amici, / salviamo la memoria, la memoria / almeno del riso, la memoria”.

Scriveva dei suoi compaesani, redigendo una cronaca malinconica di nascite, malattie, tradimenti, lutti. Tra i vivi, avvertiva una solidarietà sociale e politica – visceralmente “di classe” –, per gli sfruttati, i contadini e gli operai (“Poveri affaticati nelle membra, / servi della gleba, paria, / per noi la morte è riposo”), esprimendo inoltre un coinvolgimento turbato nei riguardi degli infelici nel corpo e nella mente, come il ragazzino che di notte, terrorizzato dai rumori e dalle ombre nel buio, aveva perso la parola “e il senso naturale delle cose”. Verso i morti nutriva una familiarità pietosa e stizzita; la sua Spoon River padana abbraccia con uguale indulgenza buoni e cattivi, vittime e carnefici: “I poveri morti sono i miei fratelli / passeggio con loro per il cimitero, / non vi è nessuno che abbia il cuore felice. / Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato / in questa vita così fatta per gli uomini; / chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino / e ha distrutto le colture, e chi la donna / dell’amico ha condotta a perdizione”. In questa dedizione al ricordo, alla memoria collettiva e personale, è presente uno sguardo complice alla storia universale, delle trasformazioni geologiche e dei grandi eventi politici: “Amo il passato. In esso mi ritrovo / nell’unno forte, nell’ominide che balza / sopra la preda, nell’urlar del dinosauro”.

Il senso profondo di fratellanza che lo accomunava a tutto l’esistente, si riflette in particolare nel mondo animale, non solo in quello a lui prossimo, ma anche nell’universo delle creature fantastiche create dalla sua visionaria immaginazione. Il gatto e la rana, “voci dell’arcano”, e poi mucche, uccelli, pesci, cani, in una metamorfosi che lo rendeva loro uguale: “Sono un topo di campagna, sono il grillo / che nel cuore mi ricanta ogni sera / se l’ascolto dal paterno focolare”, “Il grande ragno che mi sta nel cuore, / la tarantola maligna della mia sofferenza”. Un bestiario medievale e futuristico, onnivoro e consolatorio, a cui dedicava espressioni di gratitudine: “Le mie parole sono capra / ed erano capra e pecora / le mie parole sono zappa / e asino vanga e pietra / per affilare la falce erba / medica farfalla e ragno / nella ragnatela al sole / nel granturco e mulo erano / e cavalla scrofa carretto / le mie parole amate”. Dall’immersione visiva nelle savane e nelle foreste africane, popolate da gorilla, giraffe, bufali, iene, gazzelle ed elefanti, passava al panorama apocalittico de “La terra spenta”, rinsecchita e disabitata, con i calabroni ronzanti su ossa umane dissepolte, in un paesaggio dominato da insetti: “E fu il tempo e lo spazio inondato dai ragni. / Orrendo a dirsi coprivano ogni cosa, / e non fu posa nel mondo sinché / d’esseri alfine non rimase che lo scheletro”, sempre tornando poi alle stalle, ai canili, ai fossi della sua terra. Così fa anche la mucca che in cima all’altura spaventa il paese col suo potente muggito (“e si poteva ben crederla il più grandioso dio”), ma all’arrivo del buio rientra nel recinto “come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino”.

All’animalità del proprio corpo, negli aspetti più materiali, sono dedicati i versi di All’aperto, in cui “L’uomo che sta accucciato nella vecchia latrina”, nella più prosaica soddisfazione dei suoi bisogni, appena tornato fuori si riconosce “padrone di tutto ciò che vede / e sente attorno a sé e lontano: / sia la distesa di campi, sia il bosco del barone / proprietario di pianure e di montagne; / sia la tana del topo, sia il gorgo impetuoso / del fiume che agguanta e annega un temerario / o sfortunato nuotatore; / e sia la nube del cielo e il sole e lo spazio / e tutto il passato e futuro giro del tempo”.

In versi di fuoco malediceva chi vigliaccamente si divertiva a distruggere i nidi degli uccelli, facendone cadere i piccini “ancora ignudi”, e chiunque – uomo o animale – recasse violenza agli indifesi, ai deboli, come nella poesia bellissima e crudele, che forse meglio racchiude lo spirito indocile della sua scrittura: “Poiché veramente sono fratello / del topo nella bocca della gatta / che svelta se ne corre via / e sopportare non posso il ragazzo / scemo che inchioda al tronco / dell’acero la lucertola // ecco che uccido il ragazzo / con il cuore e gli tronco le mani, / poi rendo la testa della gatta / in poltiglia con colpi di pietra / ed è davvero perché sono fratello del fossato / della latta arrugginita e dei ciottoli / della strada e di ogni essere che vive o non vive / ecco che amo e odio follemente il mondo”.

Bellintani aderiva con furore mistico all’amore francescano per tutte le creature, all’ingiusto sacrificio del Golgota e a un senso paganeggiante e panteistico del divino, lontano dalla ritualità del messaggio clericale, e invece intriso dell’animismo primitivo che rende l’uomo un’unica cosa con l’esistente non-umano, bestie, piante, nuvole, terra: “Forse non esiste Dio. Forse / solo il rapporto / fra noi esiste e gli alberi / annosi o appena d’anni / uno e le erbe / e i coccodrilli e il buon tepore / della sera”, “Quest’albero era / quando ancora non erano / i nostri padri i nostri avi. / Ed ecco io sento che qualcosa gli devo, / ma non so cosa, amici, ma la mano / mia ecco lo accosta e lo carezza, / e tutta trema la mia mano, amici”. La terra, quindi, quella umida o inaridita che patisce le piene e le secche del Po, la pianura millenaria sempre uguale a sé stessa nella sua distesa uniforme è la vera nutrice e ispiratrice della sua poesia: “E ditemi voi se non è bella una pianura verde / tutta gremita di margherite e bianchi scheletri”, “case morte della mia pianura / vite spente della gioia / aie al sole della luce / mia tristezza che non taci mai”, “Io cara mi espando nella grande pianura / ed estasiato l’ammiro…. // È la mia pianura ancor più vasta e sonora d’un gran mare”.

La grande pianura padana, oggi resa uniforme e grigia dalla cementificazione, privata dei suoi profumi dai miasmi industriali, attraversata da corsi d’acqua sempre più sofferenti e umiliata da rivendicazioni sovraniste, si staglia nei versi di Umberto Bellintani nella sua antica bellezza, di natura primigenia e profonda umanità.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 27 aprile 2023