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RECENSIONI

WILDE

OSCAR WILDE, IL DELITTO DI LORD ARTHUR SAVILE – IL GRANO, MESSINA 2016

Nel racconto di Oscar Wilde, pubblicato nel 1891, sembra prevalere “il fascino dell’abisso” (come scrisse Mario Praz), celato all’interno della vivace rappresentazione di uno spaccato di società futile, ambiziosa, volubile, i cui protagonisti si muovono come inconsapevoli e insignificanti pedine del tragico gioco del destino. «Il mondo è un teatro, ma le parti del dramma sono assai mal distribuite… Non saremmo dunque che pezzi di scacchi, mossi da un potere occulto? Non saremmo se non vasi di argilla che il vasaio modella a suo talento per l’onore o per l’onta?».

Lady Windermere, durante uno degli abituali ricevimenti serali a Bentink House, chiede al suo chiromante personale di leggere la mano agli invitati. Lei rifulge di un indiscusso fascino: «Abbagliava con la sua bellezza, col latteo seno opulento, l’azzurro floreale dei grandi occhi, l’oro dei capelli inanellati… Aveva ora quarant’anni, niente figli, e quella disordinata brama del piacere che è il segreto di chi si conserva giovane». I suoi ospiti, garruli e frivoli, sono finanzieri e politici della Londra che conta, dame di alta classe, prelati libertini, artisti e uomini di scienza, fanciulle e giovanotti aspiranti a nozze convenienti: «maschere della rappresentazione sociale», insomma. Tra di loro, il giovane patrizio Lord Arthur Savile, fidanzato con la nobile (d’animo e di lignaggio) Sibilla Merton, osserva nel chiromante a cui porge in lettura la mano, un turbamento evidente, che presto si tramuta in terrore. Ottenute le spiegazioni richieste, fugge nella notte perdendosi tra le strade brulicanti di vizio e povertà della City più povera. «Assassino! Ecco quel che vi aveva letto il chiromante. Assassino! La stessa notte pareva saperlo e il vento desolato glielo ripeteva».

Sconvolto dal nefasto vaticinio che gli preannunciava la prossima attuazione di un omicidio, Arthur rompe il fidanzamento con Sibilla, e decide di sfidare il fato, avvelenando una vecchia zia ed evitando così misfatti più gravi. Quindi lascia Londra e fugge in Italia, per distrarsi e insieme procurarsi un alibi. La vecchia zia nel frattempo muore davvero, ma di morte naturale: pertanto rimane inesaudita e sospesa sul capo di Arthur, che fa rientro in Inghilterra, la terribile profezia del chiromante. Una Londra indaffarata e indifferente appare agli occhi del tormentato protagonista mutevole come i suoi sentimenti, oscillanti tra paura e speranza: «C’era nella delicata gaiezza dell’alba non so che ineffabile emozione; e pensò a tutti i giorni che spuntano in bellezza e tramontano in tempesta. Quei rozzi uomini, dalle voci aspre, dalla grossolana allegria, dal portamento spensierato, che strana Londra vedevano! Una Londra libera dai delitti notturni, sgombra dal fumo del giorno, una città pallida, spettrale, tristemente seminata di tombe. Si domandò che cosa ne pensassero, e se sapessero dei suoi splendori, e delle sue vergogne, delle gioie sonanti e vistose, della fame orrenda, di tutto ciò che vi si distilla, ribolle e rovina nel breve corso d’un giorno… Eppure, non già il mistero lo colpì, bensì la commedia del dolore, la sua assoluta inutilità, la grottesca assenza di senso comune. Come tutto ciò era incoerente, disarmonico! Che discordia stridente fra l’ottimismo superficiale dei tempi correnti e i fatti reali dell’esistenza».

Arthur tenta nuovamente un secondo omicidio, cercando di far saltare in aria con l’esplosivo un anziano e dotto parente appassionato di collezionismo. Sconfitto ancora da circostanze avverse, riuscirà nell’impresa con la vittima meno prevedibile, liberandosi finalmente dal funereo pronostico e impalmando in gloria la sua amata Sibilla. L’ironia feroce di Oscar Wilde suggella la vicenda con il sogghigno divertito rivolto a maghi, astrologi, truffatori di ogni sorta, e ai loro ingenui o sciocchi seguaci.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/IL-DELITTO-DI-LORD-ARTHUR SAVILE.html        6 ottobre 2018

RECENSIONI

WILLIAMS

WILLIAM CARLOS WILLIAMS, A UN DISCEPOLO SOLITARIO – BOMPIANI, MILANO 2023

Nato, vissuto e morto (1883-1963) a Rutherford, una cittadina industriale del New Jersey a una ventina di chilometri da New York, William Carlos Williams esercitò per cinquant’anni la professione di pediatra e ostetrico, dedicandosi alla poesia nel tempo libero dai pressanti impegni lavorativi e familiari, soprattutto scrivendo di notte, mentre nei fine settimana frequentava l’intellighenzia letteraria e artistica statunitense: Ezra Pound, Hilda Doolittle, Wallace Stevens, Marianne Moore, Marcel Duchamp, Francis Picabia. Figlio di immigrati portoricani – il padre era di origini inglesi e iberiche mentre la madre di origini basche ed ebraicoolandesi – parlò spagnolo fino all’adolescenza, e sia il meticciato culturale nativo sia il plurilinguismo diede alla sua scrittura e al suo carattere una particolare vivacità e apertura mentale, incoraggiata dai frequenti viaggi in Europa, dagli studi scientifici così come dagli approfonditi interessi letterari.

Il primo ventennio del ’900 fremeva di nuovi impulsi nell’arte, nella musica, nella letteratura; il modernismo sancì un cambiamento epocale, promuovendo lo stravolgimento delle forme, distruggendo la retorica del romanticismo e abbandonando la prospettiva storicista in favore di un rafforzamento dell’espressività, anche a scapito dell’ideale estetico dell’armonia e della compostezza. In tutte le sue varie correnti (dal simbolismo all’ermetismo, dall’acmeismo al surrealismo) si definì come iconoclasta, anti-decorativo, perseguendo il percorso delle li bere associazioni mentali (lo “stream of consciousness”), la frantumazione della figura e della personalità attraverso il moltiplicarsi dei punti di vista, l’abbandono della sintassi nell’accostamento di termini incongrui, stranieri o de-temporalizzati.

Williams aderì inizialmente alla corrente imagista, e alcune sue poesie furono inserite da Pound nell’antologia Des Imagistes (1914), in cui figuravano Ford Madox Ford, Amy Lowell e James Joyce. Ma anche se questa collaborazione finì per incasellare tutta la sua carriera nell’ambito ristretto dell’imagismo, in realtà si svincolò presto e radicalmente dai temi e dalle forme che più caratterizzavano questo movimento. L’antologia pubblicata da Bompiani raccoglie testi tratti da diversi volumi: da The Tempers del 1913 a Pictures from Brueghel del 1962, premiato con il Pulitzer. Proprio nelle prime sezioni troviamo le tracce più evidenti dell’insegnamento poundiano (visionarietà, concisione, ritmo): “C’è un uccello tra i pioppi! / È il sole! / Le foglie sono pesciolini gialli che nuotano nel fiume. / L’uccello plana e li sfiora, porta il giorno sulle ali. / Febo! / È lui che crea / l’incredibile bagliore tra i pioppi!”

Nelle raccolte successive Williams si distanziò sempre di più da questa eredità primo-novecentesca, facendo della realtà quotidiana (la natura, la presenza femminile, le cose materiali, la propria esperienza di medico, gli ironici autoritratti) l’oggetto principale della sua poesia, anche nella scelta linguistica, che privilegiava un lessico più sensibile alla parlata quotidiana, ai toni e alle cadenze americane, allontanandosi dalla letterarietà britannica, e invece scegliendo strutture più originali, vicini alla tensione poliritmica della musica jazz. La polemica contro l’intellettualismo di Joyce e Eliot si fece pungente, al punto da spingerlo a definire The Waste Land “the great catastrophe”, una reale minaccia per l’identità e lo spirito del Nuovo Mondo. Sia la sua professione, esercitata con dedizione e generosità soprattutto nei confronti degli strati popolari e degli immigrati, sia l’immersione nella vita concreta della sua città, offriva al suo talento poetico naturale materia e ispirazione per osare nuove modalità espressive, estranee alle seduzioni culturali europee, che fornissero “una replica a pugni nudi al greco e al latino”, e un ideale di poetica sintetizzato  nel motto “No ideas  / but in things”, in A sort of a song del 1944: “Che il serpente attenda sotto / la malerba / e la scrittura / sia di parole, lente, svelte, acuminate / nello sferrarsi, mute nell’attesa, / insonni. // – a riconciliare grazie alla metafora / persone e pietre. / Componete. (Niente idee / se non nelle cose) Inventate! / La sassifraga è il mio fiore, spacca / le rocce”.

Fedele a un progetto liberal-democratico della società, e vicino a posizioni di sinistra, la collaborazione alla Partisan Review, trimestrale del Partito Comunista, e ad altre riviste radicali (Blast e New Masses) gli costò nel 1953 la perdita della consulenza alla Library of Congress. A poesie politicamente schierate, talvolta venate di sarcasmo (Proletarian Portrait, Raleigh Was Right, Russia, The Pink Church), dalla metà degli anni ’30 in poi si affiancarono composizioni che esprimevano empatia e rispetto per la sofferenza degli umili (To a Poor Old Woman, The Gentle Negress, To a Dog Injured in the Street, The Mental Hospital Garden, The Dead Baby).

Gli era specialmente consona la descrizione di ambienti e oggetti (“Alla brillante luce del gas / apro il rubinetto in cucina / e guardo l’acqua schizzare / nel lindo lavandino bianco. / Sullo scanalato scolapiatti / da una parte c’è / un bicchiere pieno di prezzemolo / – fresco verde crespo”) quanto quella di personaggi comuni, presi dalla strada (“Intanto, / il vecchio che va in giro / a raccogliere cacche secche di cane / cammina nel canalino di scolo / senza alzare lo sguardo / e il suo incedere / è più maestoso di / quello del Vescovo / che si dirige al pulpito / la domenica”). L’osservazione della natura non scadeva mai nell’idillio retorico: “Vibranti rami arcuati / spingono verso il basso, risucchiando il cielo / che trabocca da dietro, intonacandosi / sul loro sfondo in spiragli stipati, azzurro lapideo / e arancione sporco!”

Dedicava a se stesso ironici autoritratti: “se io nella mia stanza a nord / ballo nudo, grottescamente / davanti allo specchio / sventolando la camicia sulla testa, / cantando sottovoce tra me e me: / “Sono solo, solo. / Sono nato per essere solo, / per me è il massimo così! / Se ammiro le mie braccia, la faccia, / le spalle, i fianchi, il sedere, / sullo sfondo delle tende gialle, chiuse – // Chi potrà mai dire che non sono il genio felice della mia casa?”. E la quotidianità domestica veniva raccontata in toni spiritosamente colloquiali: “i piccoli favori / ricambiati, io e te, una camicia / passata a un uomo nudo dalla / moglie che mostra le gambe, grattami la schiena / per favore, oh e vuota il bugliolo / quando scendi – e avvicinami / quel fiore, io non c’arrivo”,

“SOLO PER FARTI SAPERE // che ho mangiato / le prugne / nella / ghiacciaia // che / probabilmente avevi / serbato / per la colazione // Perdonami / erano squisite / così dolci / e così fresche”.

Massima espressione del coinvolgimento umano di William Carlos Williams nell’ambiente sociale a lui circostante è la pubblicazione di un poema epico in cinque libri, edito tra il 1946 e il 1958, intitolato Paterson, resoconto biografico quasi documentaristico di una città industriale del New Jersey, distante una decina di chilometri dal suo luogo di nascita, con diverse generazioni di abitanti alle prese con la modernizzazione neocapitalista.

Se con Paterson giunse finalmente l’agognato riconoscimento del valore letterario con l’attribuzione nel 1950 del National Book Award for Poetry, fu solo dopo la morte che la critica si decise a prendere finalmente sul serio la sua produzione, con la medaglia d’oro per la poesia del National Institute for Arts and Letters. Una gratificazione dovuta al lavoro saggistico, narrativo, teatrale, oltreché poetico, e all’attività di promozione svolta in favore della nuova generazione di poeti americani della San Francisco Renaissance e della New York School (Allen Ginsberg, Frank O’Hara, John Ashbery, Kenneth Koch…), a testimonianza di quanto la generosità del poeta e dell’uomo si sia prodigata fino all’ultimo in aiuto degli altri. Ne è una riprova anche l’ammonimento offerto al discepolo solitario –aspirante poeta – a osservare le cose (cielo, luna, case, chiese) nella loro reale concretezza, senza abbellimenti artificiosi.

Negli ultimi anni, segnati dalla sofferenza fisica e psichica, i versi di Williams assunsero talvolta i toni della preghiera, con frequenti accenni alla simbologia cristiana, e richiami al bene universale anche nel sentimento erotico privato (Viaggio verso l’amore si intitola la raccolta del 1955), espresso in sentenze moraleggianti: “Siamo miseri mortali / ma l’essere mortali / può opporre resistenza al nostro fato. / Potremmo / grazie a una remota possibilità / persino vincere!”, “Quello che abbiamo sofferto / ci era destinato / perché lo soffrissimo”, “Era l’amore per l’amore, / l’amore che ingoia tutto il resto, / amore riconoscente, / amore della natura, delle persone, / animali, / un amore che dà vita a / gentilezza e bontà / che mi ha commosso / ed è quello che ho visto in te”.

Amore, appunto, è ciò che il curatore del volume Luigi Sampietro sottolinea come elemento più caratterizzante la vita e l’opera di William Carlos Williams. Amore inteso come carità e compassione, che accetta e comprende anche gli aspetti impoetici della realtà, e ne fa oggetto di interesse e bellezza nei versi.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 29 maggio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WILSON

EDWARD O.WILSON, IL SIGNIFICATO DELL’ESISTENZA UMANA – CODICE, TORINO 2015

Il biologo americano Edward Wilson, entomologo di fama mondiale e docente emerito a Harvard, più volte Premio Pulitzer per la saggistica, è stato il fondatore della sociobiologia, lo studio sistematico dell’evoluzione biologica del comportamento sociale, basato sulle teorie evoluzionistiche darwiniane. Convinto che il comportamento, sia degli animali che degli uomini, sia il prodotto dell’interazione tra l’ereditarietà genetica e gli stimoli ambientali, ha difeso coraggiosamente le sue tesi di fronte a velenosi attacchi politici e accademici.
In questo piccolo libro, Il significato dell’esistenza umana, espone con ironia e chiarezza divulgativa il suo pensiero, già noto ai lettori italiani per altre pubblicazioni di successo, ma qui riassunto e semplificato in brevi, appassionanti capitoli che hanno l’ambizioso obiettivo di spiegare le origini della nostra specie e di indicare come sia possibile riprogettarla per renderla migliore, fisicamente e intellettualmente.
Secondo Wilson lo sviluppo della storia umana in sei millenni di civiltà non è stato determinato da un disegno soprannaturale, bensì dal dispiegarsi di un comportamento naturale, molto raro nel mondo vivente (riguarda solo venti specie), che viene definito «eusocialità», e che ha avuto origine, dopo ere di evoluzione, con la comparsa dell’Homo habilis, due milioni di anni fa.
In cosa consiste l’eusocialità? Si tratta di una forma avanzata di comportamento sociale esistente solo tra alcuni insetti e crostacei marini, in due famiglie di ratti-talpa, e appunto nell’uomo: riguarda la capacità di collaborare nell’allevamento dei piccoli e nella divisione del lavoro. Tutto qui? Pare proprio di sì.
Il passo iniziale per creare una colonia eusociale fu la costruzione di un nido protetto per difendere la prole, quindi la divisione tra foraggiatori disposti a correre rischi uscendo dal nido per procacciare cibo, da una parte, e riproduttori e nutrici destinati alla protezione e alla cura dei figli, dall’altra. Con questa scelta altruistica e cooperativa, ebbe inizio lo sviluppo mentale (favorito dall’istituzione degli accampamenti, dalla caccia e dalla nutrizione carnivora) che portò il cervello a svilupparsi dai 600 cc delle scimmie antropomorfe ai 1400 dell’Homo sapiens.

«Le forme più complesse di organizzazione sociale sono costituite a partire da livelli di cooperazione elevati, e sono promosse da atti altruistici eseguiti da almeno alcuni membri della colonia». Non più sopraffazione e competizione, quindi, ma interazione e intelligenza «fecero dell’Homo sapiens la prima specie pienamente dominante della Terra». Wilson dedica pagine avvincenti al mondo degli insetti, alla loro rigida ma collaborativa struttura sociale; e poi a tutte le forme di vita presenti nella biosfera, dai batteri ai vermi ai superorganismi fino alla probabile ma indimostrata esistenza degli alieni. Per concludere che l’essere umano, con le sue contraddizioni e manchevolezze, è comunque il più evoluto tra le cento milioni di specie esistenti sulla terra: e solo sulla terra può raggiungere e mantenere la sua immortalità, fatta di una particolare e sensibilissima predisposizione culturale verso la conoscenza, la bellezza, l’arte, il progresso tecnico e scientifico.

«Non siamo stati creati da un’intelligenza soprannaturale ma dal caso e dalla necessità; siamo una specie fra milioni di altre presenti nella biosfera terrestre. Per quanto si voglia sperare e desiderare altrimenti, non vi è prova alcuna di una grazia che scenda luminosa su di noi dall’esterno, nessuno scopo o destino dimostrabile che ci sia stato assegnato, nessuna seconda vita accordataci alla fine di quella attuale. A quanto pare siamo completamente soli. Il che, a mio avviso, è un’ottima cosa. Significa che siamo completamente liberi. Di conseguenza possiamo individuare più facilmente la radice delle convinzioni irrazionali che ci dividono in modo tanto ingiustificato».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Il-significato-dell-esistenza.html     8 febbraio 2016

 

RECENSIONI

WILSON

EDWARD O.WILSON, LA CREAZIONE – ADELPHI, MILANO 2008

“La biodiversità del nostro pianeta è ben più ricca di quanto si pensasse. Questa diversità sta scomparendo a un ritmo sempre più rapido a causa della distruzione degli habitat, operata direttamente dall’uomo o indirettamente dal cambiamento climatico in corso, a cui si aggiungono il proliferare di specie invasive, l’inquinamento e il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Se queste forze scatenate dall’attività umana non vengono in qualche modo mitigate, potremo perdere fino a metà delle specie di piante e di animali sulla Terra entro la fine del secolo”. Il grido d’allarme, appassionato e inquietante, che si alza da queste pagine di Edward O. Wilson (grande entomologo, per decenni titolare di una cattedra di biologia ad Harvard), non solo rende il lettore consapevole delle sue responsabilità individuali di fronte al mantenimento dell’ambiente che lo ospita, ma gli fornisce una quantità sorprendente di informazioni, per lo più ignorate o volutamente censurate dal sistema mediatico asservito a un irresponsabile sviluppo economico. Che la nostra civiltà sia stata costruita sul tradimento della natura, che milioni di specie viventi scompaiano annualmente dal nostro pianeta, che l’acqua dolce non costituisca una riserva infinita, che le foreste pluviali siano a rischio estinzione, lo sappiamo più o meno tutti. Ma Wilson ci insegna in questo libro come l’uomo sia solo una delle molte specie animali esistenti sulla terra, e tra le più fragili e meno essenziali. Batteri, funghi, lombrichi, insetti dominano in assoluto rispetto alla ristretta nicchia naturale che ci ospita. E quindi è essenziale rieducare gli abitanti del pianeta a nuove regole di comportamento, responsabilizzando in questa indispensabile educazione ecologica collettiva governi, mezzi d’informazione e religioni. Altrettanto fondamentale è supportare culturalmente le sfide che attendono la biologia del terzo millennio, foriera di decisive rivoluzioni intellettuali.

IBS, 3 febbraio 2014

RECENSIONI

WOELFFLIN

HEINRICH WÖLFFLIN, CAPIRE L’OPERA D’ARTE – CASTELVECCHI, ROMA 2015

Uno dei più importanti storici dell’arte, lo svizzero Heinrich Wölfflin, pubblicò negli anni ’20 un breve testo, rielaborato poi nel 1940 (e oggi riproposto dall’editore romano Castelvecchi con l’introduzione di Andrea Pinotti), che si apre con questa domanda: «Devono davvero essere spiegate le opere d’arte?» Non basta forse accontentarsi di goderne la visione, di vivere le emozioni che esse ci suscitano dentro, senza comprendere fino in fondo perché ci sembrino belle, perché vengano universalmente considerate capolavori? Secondo Wölfflin, bisogna imparare a guardare un quadro in base a un graduale apprendimento, con la stessa applicazione con cui si imparano le lingue straniere, studiandone la grammatica, le frasi idiomatiche, la pronuncia.
Nessuna opera d’arte, infatti, è immediatamente e spontaneamente comprensibile da qualsivoglia spettatore, ma deve essere letta situandola «nel processo evolutivo, rintracciandone antecedenti e conseguenti, poi rifacendosi ai contemporanei e agli affini; e tracciando, in tal modo, intorno ad essa, un cerchio che, passando attraverso la scuola e l’origine, potrà estendersi fino al cerchio più grande, quello del carattere dell’intero popolo nel quale è radicata».

Pertanto essa va inserita in un diagramma che ne stabilisca le coordinate diacroniche (predecessori e successori, storia dei vari stili) e sincroniche (in relazione con la generazione, il popolo, l’ambiente, la scuola dell’artista che l’ha prodotta). Ovviamente, il capolavoro è sempre firmato da una grande personalità, da un genio, ma dietro a esso è intessuta la storia di un’intera epoca, di un nazione, di una cultura che trascende e insieme determina l’artista eccelso: «Non tutto è possibile in tutti i tempi», ammonisce Wölfflin: «Sono proprio le personalità più forti quelle che mostrano, nel modo più evidente, come la storia dell’arte sia legata a leggi che vanno oltre la personalità».

Sembrano considerazioni scontate, al giorno d’oggi, ma quello che rende originali e addirittura provocatorie queste poche pagine è l’affermazione della irreversibilità dell’evoluzione artistica, secondo un processo deterministico modellato sulle scienze naturali, e scandito sempre in tre stadi (primitivo-maturo-tardo, oppure arcaico-classico-barocco), che si ripresenta in diverse fasi storiche, in un processo organico che «possiede un suo proprio sviluppo e una sua propria struttura». Ciò avviene secondo una progressione graduale, conformemente a leggi necessarie, che in genere passano da «forme di rappresentazione psicologicamente più semplici a quelle più complesse». «L’evolvere dell’arte non dovrebbe essere paragonato al crescere di un albero singolo, ma piuttosto a quello di un bosco…»

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Capire-l-opera-d-arte-Heinrich.html

28 novembre 2015

RECENSIONI

WOOLF

LEONARD WOOLF, LA MORTE DI VIRGINIA – LINDAU, TORINO 2015

Di questo interessante volume pubblicato dalle edizioni torinesi Lindau, ci impressiona e commuove già la copertina: una fotografia del 1939 raffigurante Virgina e Leonard Woolf, seduti su un divano accanto al cocker Pinka. I due si assomigliano nell’espressione rassegnata e mite dei volti, nello sguardo affettuoso che entrambi rivolgono al cane rannicchiato tra di loro, quasi a chiedergli pudicamente un sostegno complice. E Pinka guarda l’obiettivo come avesse compreso e perdonato tutto, a significare “li difendo io, da voi e da se stessi”. Leonard Woolf (1880-1969) scrisse in tarda età un corposa autobiografia, di cui il presente volume è un estratto, limitato agli anni 1939-1941, i più dolorosi della sua esistenza, straziati dalla guerra e dalla depressione di sua moglie, che sfociò nel suicidio di fine marzo 1941. Una sorta di diario, meditato e sofferto, puntellato da riflessioni politiche, considerazioni storiche, ritratti di amici e intellettuali, aneddoti curiosi. Divagazioni, anche, che Woolf giustifica con queste parole: «Per l’autore di un’autobiografia, forzare la propria vita e i propri ricordi secondo una linea retta rigidamente cronologica significa distorcere la prima e truccare e falsificare i secondi. Se si vuole provare a raccontare la propria vita in modo veritiero, si deve puntare a lasciare nel racconto qualcosa della disordinata discontinuità che la rende così assurda, imprevedibile e sopportabile».

Le pagine si aprono sulla descrizione degli avvenimenti che portarono al conflitto mondiale, con la ottusa crudeltà di chi lo pianificò e con la miopia di chi non seppe ribellarvisi, in una tragica e perenne ripetizione di violenza contro gli inermi, scandita nella storia da millenni: l’elenco delle vittime prende avvio dalla Genesi, toccando Socrate e Gesù, per arrivare a Dreyfus, al genocidio degli armeni, ai pogrom contro gli ebrei: «Il mondo era tornato a guardare gli esseri umani non come individui ma come semplici pedine, tessere o marionette, nel ripugnante processo che doveva far tacere la paura o soddisfare l’odio».

Leonard Woolf si oppone alla cecità distruttiva del nazismo con tutta la dignità e il coraggio che la sua vastissima cultura, la sua sensibilità di scrittore e il suo impegno di editore gli concedono, stringendosi con solidarietà ai vicini, ai collaboratori, e soprattutto alla moglie Virginia, di cui conosce e teme la fragilità emotiva, che già l’aveva indotta a tentare due volte il suicidio. Con lei è costretto ad assistere alla distruzione sistematica di Londra, ai bombardamenti a tappeto, ai conoscenti uccisi al fronte o in città, al loro appartamento sventrato, alla tipografia rasa a terra. Si trasferiscono da Mecklenburgh Square al paesino di Rodmell, nel Sussex, rinunciando ad agi e servitù, in un’atmosfera irreale, «di quiete triste e rassegnata». Lui entra nel servizio anti-incendi, costretto (ormai quasi sessantenne) a turni di pattugliamento notturno; ma soprattutto partecipa attivamente alla via sociale del paese, con uno spirito generosamente altruista. Insieme a Virginia legge, cura il giardino, cucina, gioca a bocce, fa lunghe passeggiate. Lei, in questi suoi ultimi due anni di vita, è impegnata nella scrittura della Biografia di Roger Fry e del romanzo Tra un atto e l’altro, sempre alla ricerca della perfezione stilistica, e perpetuamente terrorizzata dal giudizio dei critici letterari. Virginia annota nel suo diario, di cui il marito trascrive alcune righe, la «strana atmosfera di quieto fatalismo, nell’imminenza dell’inevitabile», rivelando la loro condivisa decisione di sopprimersi nel caso di un’invasione tedesca, e di una probabile deportazione. («Continuammo a parlare del suicidio mentre la luce elettrica cominciava a sbiadire fino a che restammo completamente al buio»). Nei primi mesi del ’41, la situazione precipita, Virginia ripiomba in un delirio ossessivo, perde lucidità, soffre di «spasmi di esasperazione improvvisa ed acuta». Leonard le rimane vicino con dedizione, ma scisso tra timore di doverla internare e volontà di salvarla: quindi esita, depistato dai cambiamenti d’umore di lei, senza comprendere fino in fondo in quale baratro di disperazione e follia sua moglie stesse precipitando. La mattina del 28 marzo non la trova in casa, si precipita al fiume Ouse e trova «il suo bastone da passeggio posato sull’argine». Il corpo di Virginia fu recuperato tre settimane più tardi, cremato con l’accompagnamento musicale di un quartetto di Beethoven, e le sue ceneri seppellite ai piedi di due grandi olmi a cui marito e moglie avevano dato i loro nomi. Il biglietto che Virginia aveva lasciato sulla mensola del camino era insieme una dichiarazione di resa, di amore assoluto, e una richiesta di perdono: «Tu mi hai offerto la massima felicità possibile. Tu sei stato in tutto e per tutto quello che nessuno poteva essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di noi, fino a quando non è arrivata questa terribile malattia…Ho perso tutto tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015

RECENSIONI

WOOLF

VIRGINIA WOOLF, TUTTO CIO’ CHE VI DEVO – L’ORMA, ROMA 2014

«Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto… Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione». Non solamente nei romanzi, nei saggi, nei diari Virginia Woolf esibì la sua viscerale passione per l’osservazione delle persone, e dei rapporti che si instaurano tra di loro (amore, odio, amicizia, invidia). Ma anche nel suo ricco epistolario, di cui l’editore romano L’Orma offre qui una scelta di brani indirizzati, tra il 1903 e il 1941, a una decina di amiche. Lettere in cui la scrittrice inglese svela tutta la sua acutezza introspettiva e critica, insieme all’ironia, al gusto sottile del pettegolezzo, ai magoni familiari, all’ansia di condividere letture, o di sollecitare giudizi sulla sua produzione letteraria. Le destinatarie di questa corrispondenza sono parenti (l’amata sorella Vanessa, la cugina Madge, la nipote Judith), amiche d’infanzia (l’esplosiva Violet Dickinson), o felici scoperte dell’età più matura (Ethel Smyth); talvolta amanti (Vita Sackville-West). A tutte loro Virginia scrive senza remore o finzioni, spesso abbozzando qualche polemica o spiritosa derisione, sempre però con un affetto limpido che si rivela anche nei vezzeggiativi e nei nomignoli usati. Conoscendo i suoi difetti, li sottolinea impietosamente («Come mi piace essere adulata!…Il mio vero piacere dello scrivere recensioni consiste nel dire cattiverie… Non mi piacciono gli istinti profondi, non negli esseri umani…»). Ma con altrettanta spietatezza sferza i difetti altrui: l’ipocrisia, la boria sociale, l’intolleranza. E soprattutto la rigidità, la pesantezza, la noiosità. La sua essenziale richiesta alle amiche si esprime infine nella parola conclusiva dell’ultima lettera: «Amami».

IBS, 3 dicembre 2014

RECENSIONI

WOOLF

VIRGINIA WOOLF, SE TI IMMAGINO QUI SONO FELICE – GARZANTI, MILANO 2022

ùIl primo incontro tra Virginia Woolf (1882-1941) e Vita Sackville-West avvenne alla fine del 1922, segnando l’inizio di una passione amorosa e di un sodalizio culturale testimoniato da un fitto epistolario sparso nell’arco di un ventennio. Vita aveva trent’anni, Virginia dieci in più. La prima godeva già di vasta notorietà, la seconda aveva appena iniziato a pubblicare. Entrambe sposate, non facevano mistero del loro rapporto con i mariti, che non se ne scandalizzavano, esattamente come la società aristocratica, mondana e intellettuale che le accoglieva con stima e cordialità, lontana da condanne e pregiudizi a cui comunque le due scrittrici erano del tutto indifferenti. Il piccolo volume pubblicato da Garzanti, Se ti immagino qui sono felice, raccoglie una selezione delle lettere e dei biglietti di Virginia, insieme ai suoi appunti di diario riportati in corsivo: decisamente più limitata rispetto ad altre ampie proposte editoriali del carteggio uscite recentemente.

La rassegna si apre su una nota della scrittrice londinese (mai stata tenera nei suoi giudizi sul prossimo) che riferisce la prima impressione poco positiva tratta nel corso della cena del 15 dicembre 1922 in cui ebbe a conoscere Vita: “Non corrisponde granché ai miei gusti più severi: florida, baffuta, colorata come un pappagallo, con tutta l’agile disinvoltura dell’aristocratica, ma senza l’arguzia dell’artista… è un granatiere: dura, piacente, mascolina, tendente al doppio mento”. E ancora, in una nota del 15 settembre 1924: “è una perfetta signora, con tutto lo slancio e il coraggio dell’aristocrazia, e meno puerilità di quanta ne aspettassi. È come un chicco d’uva troppo maturo nei lineamenti, baffuta, imbronciata, destinata a diventare un po’ pesante; nel frattempo, cammina su belle gambe, in una gonna ben tagliata, e anche se è imbarazzante a colazione, ha in sé un buon senso e una semplicità … Oh sì, mi piace, potrei includerla per sempre nel mio equipaggio, e se per ipotesi la vita lo permettesse, potrebbe essere una specie di amicizia”. Di nuovo, nel 1926: “Non è intelligente, ma generosa e feconda; e anche sincera”.

L’intimità tra le due donne crebbe nel corso degli anni successivi, in un altalenarsi di emozioni e sentimenti contrastanti, dall’esaltazione alla malinconia, dalla reciproca stima alla rivalità letteraria, dalla gelosia all’esibita e provocatoria indifferenza. Impulsi istintivi alleggeriti comunque da ricche dosi di ironia e spontanea ilarità (“A maggio mi arrufferai i capelli, Tesoro: sono corti come il sedere di una pernice”). Leggono e commentano vicendevolmente i loro scritti, sia nel carteggio privato sia attraverso recensioni, interviste, interventi radiofonici: la casa editrice dei Woolf pubblica i libri della Sackville-West, incoraggiandone la diffusione presso il pubblico britannico. Le prime versioni di Gita al Faro e di Orlando, insieme a bozze di articoli, vengono sottoposti con ansia da Virginia al giudizio critico dell’aristocratica e puntuta corrispondente.

Ma soprattutto nello scambio epistolare diretto si esprime la reciproca dipendenza affettiva e sessuale. Virginia lusinga l’amante con un profluvio di lodi e complimenti: “Come diavolo hai imparato l’arte di essere sottile, profonda, umoristica, arcigna, schiva, satirica, calorosa, intima, profana, colloquiale, solenne, sensibile, poetica e un caro vecchio sciatto cane da pastore…” Pretende da lei dichiarazioni d’amore: “Aggiungi una frase concisa ma esaustiva in cui dici che Virginia è la persona che ami di più dopo tuo marito e i tuoi figli”, “Non sono niente per te, fisicamente, moralmente o intellettualmente?” Ammette i propri dubbi riguardo alla fedeltà dell’amica, che vanta apertamente le proprie conquiste maschili e femminili: “Non c’è più spazio, altrimenti ti proporrei una storia molto malinconica sulla mia gelosia per tutti i tuoi nuovi amori. E quando ti vedrò? Perché sai, adesso ami diversa gente, donne intendo, fisicamente intendo, meglio, più spesso, più carnalmente di quanto ami me”, “Ma tu non mi vuoi. Stai ammaliando, soprattutto con il fascino del tuo titolo e il bagliore delle tue perle, tutti i procioni del Canada”, “La percentuale di lesbiche è in aumento negli Stati Uniti, tutto grazie a te”. Si vendica delle lunghe assenze e dei continui viaggi di Vita (“Tesoro caro, non andare in Egitto per favore. Resta in Inghilterra. Ama Virginia. Prendila tra le tue braccia”), millantando incontri e avventure durante una breve vacanza in Grecia. E confessa candidamente di provare per lei un “affetto infantile e cieco: “Sì sì sì mi piaci. Usare una parola più forte mi fa paura”, “Sono piena di invidia e disperazione”, “Sono la tua interamente devota ma indifesa e inutile creatura”, “Per tutti questi mesi ho vissuto dentro di te – e ora che ne esco, come sei veramente? Esisti? Ti ho inventata?”, “Mi ami davvero? Tanto? Appassionatamente e irrazionalmente?”

Da questa pubblicazione garzantiana non conosciamo come Vera rispondesse all’esibito trasporto della Woolf. Possiamo immaginarla meno coinvolta di lei nella relazione, senz’altro più disponibile ad altre piacevoli esperienze, se diamo credito a una famosa e spesso citata metafora di Virginia: “Be’, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù nello spruzzo di una fontana: la fontana sei tu, io la pallina. È una sensazione che mi scateni solo tu. È fisicamente stimolante e al tempo stesso riposante”. Un’inquietudine sofferta che alla conclusione dell’amicizia la porterà a scegliere di abbandonarsi all’abbraccio acquietante dell’acqua.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 maggio 2022

RECENSIONI

XUN

JIANWEI XUN, IPNOCRAZIA – TLON, ROMA 2025

Un nuovo modo per abitare, disertare, sabotare il territorio confuso, minaccioso ma anche seducente della contemporaneità, mantenendo un margine di coscienza critica nella colonizzazione delle coscienze imposta dal potere mondiale: è quello suggerito da Jianwei Xun nel suo libro d’esordio Ipnocrazia, edito da Tlon.

Jianwei Xun, nato a Hong Kong e laureato in filosofia politica all’Università di Dublino, è un teorico dei media che studia l’impatto delle tecnologie digitali sulla coscienza collettiva e sulla formazione della soggettività contemporanea. Con uno stile accattivante e veloce, e seguendo le indicazioni della retorica classica, oggi riportate in auge da ChatGPT, che suggeriscono di ripetere  e ribadire i concetti per meglio imprimerli nei lettori, Xun afferma un teoria ormai ben nota e condivisa, quando sostiene che il controllo dell’opinione pubblica non viene più attuato con tecniche coercitive, bensì incoraggiando il consumo smodato e acritico di immagini, suggestioni, informazioni, notizie non sempre verificabili, a cui le persone aderiscono abbandonandosi a uno stato di “sogno guidato” incapace di resistenza.  “L’ipnocrazia è il primo regime che opera direttamente sulla coscienza. Non controlla i corpi. Non reprime i pensieri. Induce piuttosto uno stato alterato di coscienza permanente. Un sonno lucido. Una trance funzionale”.

L’autore insiste su questo concetto, variandolo secondo diverse direzioni, negli undici capitoletti della prima parte, intitolata Diagnosi presente, che analizza lo stato di dipendenza attuale degli individui da stimoli che manipolano i loro stati emotivi, rimodellano le percezioni, ne addormentano le coscienze, mentre “gli schermi brillano incessanti nella notte della ragione”. I sistemi di intelligenza artificiale sono diventati generatori di realtà, co-creatori di culture e di narrative multiple in cui il confine tra verità e illusione, autenticità e menzogna non è più rilevabile, poiché si incarna in un’infinita proliferazione di possibilità. In quest’era digitale i poteri politici, economici e tecnologici convergono nella capacità di stimolare, mantenere e modulare stati alterati di coscienza su scala globale, creando un regime di induzione ipnotica, in cui “l’invasione dell’intimo” diventa pratica quotidiana di controllo e di profitto economico. Sacerdoti e nuovi guru di tali paradigmi esistenziali sono le figure emblematiche di Trump e Musk, che svuotando il linguaggio di significato attraverso la ripetizione di formule vuote, e inondando l’immaginazione collettiva di promesse utopiche, riscrivono le aspettative generali, indirizzano i desideri, colonizzano l’inconscio, dirigono i comportamenti, in un contagio che assorbe e neutralizza ogni critica e dissenso. L’Ipnocrazia non ci rende vittime, ma complici e alleati dialoganti con le intelligenze non umane che coabitano i nostri spazi di vita. Sessualità, cultura del cibo, shopping, godimento artistico sono indirizzati non tanto al possesso quanto a un piacere potenziale e a un desiderio continuamente insoddisfatto, che va alimentato attraverso un ideale mai raggiunto di ottimizzazione.

Dopo pochi capitoli introduttivi, l’autore chiede all’AI un parere su quanto ha scritto, ricevendone un esaustivo commento, che in poche righe riassume il contenuto delle venti pagine iniziali. Tutto è riproducibile, quindi, e riformulabile, in un mondo diventato liminale e gassoso, privo di concretezza e di oggettività.

Jianwei Xun (che il curatore del volume Andrea Colamedici definisce, forse con eccessivo entusiasmo, erede di Jan Baudrillard e di Byung-Chul Han) intramezza le sue considerazioni con brani esploranti la genealogia dell’Ipnocrazia e le sue più recenti applicazioni sperimentali, storicizzando così la nebulosità del concetto. Tecniche ipnotiche si ritrovano negli antichi culti mesopotamici come nei misteri eleusini greci, nella verticalità delle architetture gotiche come negli esperimenti ottocenteschi di magnetismo, nella creazione novecentesca dei mass media, della pubblicità e dei diktat psicanalitici, per arrivare al dominio attuale dei social media in grado di monitorare e influenzare la condotta, l’emotività e l’umore di miliardi di individui, intensificando la pervasività e la permanenza di tali metodi di suggestione, illimitati nel tempo e nello spazio.

Se la prima parte del libro di Xun si occupa dell’homo social e delle sue vulnerabilità, nella seconda parte vengono suggerite le tecniche di resistenza da opporre all’assoggettamento universale. Per sottrarci ad esso va sviluppata “una forma di lucidità nella trance, di follia controllata” che permetta di navigare consapevolmente gli stati alterati mantenendo un nucleo di presenza critica. “Sospesi tra consapevolezza e immersione, dobbiamo applicare una forma di resistenza all’Ipnocrazia: non il rifiuto della simulazione ma la sua abitazione consapevole, rendendoci capaci di muoverci fluidamente tra realtà multiple, generandole e abitandole come si abita un sogno, con piena consapevolezza della loro natura costruita…L’Ipnocrazia non può essere sconfitta. Non perché sia invincibile, ma perché è un flusso. La sua forza risiede nella capacità di mutare, di adattarsi, di incorporare tutto ciò che cerca di resisterle”. Qualsiasi ribellione o ipotesi di rivoluzione viene riassorbita, edulcorata, monetizzata, trasformata in performance: dall’attivismo climatico al femminismo, dalle proteste pacifiste a quelle contro il razzismo.

Come attuare allora una resistenza efficace? Non basta opporsi alla disinformazione, smascherandola e cercando verifiche e correzioni (attraverso il fact-checking), perché l’Ipnocrazia continuerà a creare verità contrapposte e molteplici, ugualmente plausibili. Né servirà disconnettersi, ma bisognerà inventare forme di realtà condivise e alternative, anche se temporanee, attraverso la manipolazione mediatica coordinata, che il sistema non possa rilevare e mercificare: Xun cita con ammirazione le beffe mediatiche di Luther Blisset degli anni novanta. Inventare storie, introdurre inciampi nei processi ingannevoli, rivalutare positivamente l’incertezza, l’inefficienza, il disordine, la contraddizione, la gratuità dei sentimenti, la non produttività, la non competizione, il sogno e la fantasia: insomma tutto ciò che evita la tracciabilità e la definizione da parte del potere, e si rivela elemento finalmente liberatorio in un mondo preordinato, come risorsa e strumento di sovversione. Sapendo che alcuni aspetti dell’esistenza umana – il dolore, il silenzio, la gioia – non saranno mai riducibili e quantificabili algoritmicamente, e sperando che attraverso il digitale si possa manifestare un piano alternativo per condurci a nuove forme ontologiche di coscienza, più evolute, e oggi non ancora chiaramente definibili.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 3 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

YATES

RICHARD YATES, PROPRIETA’ PRIVATA – MINIMUM FAX, ROMA 2012

La casa editrice Minimum Fax prosegue nella sua meritoria opera di diffusione degli scritti di Richard Yates, proponendo questi nove racconti introdotti da un’acuta ed esauriente prefazione di Nicola Lagioia. Lo scrittore americano, nato nel 1926 e morto nel 92, “sfortunato irascibile semialcolizzato”, viene accostato ad altri mitici cantori statunitensi del 900 (Fitzgerald, Salinger, Carver) per la sua capacità di rappresentare con asciutta obiettività “l’abisso dietro l’edificante quadretto” di una società che nasconde a se stessa il suo disagio, i suoi fallimenti, spesso il vizio o la disperazione. Richard Yates parla della piccola e media borghesia americana reduce dal secondo conflitto mondiale, che tenta di nascondere nella superficialità dei riti collettivi (il lavoro, le feste, i viaggi, l’alcol, i divorzi) il sentimento che sembra dominare qualsiasi rapporto sociale e familiare: la delusione. I protagonisti di questi racconti appaiono infatti sempre più delusi che tormentati. Delusi da se stessi, dai parenti, dai superiori, da Dio. Che si tratti della bambina accusata ingiustamente di un furto dalla zia intransigente e miope, o dell’impiegata che si regala un futile viaggio in Europa in cerca di facili avventure prima del matrimonio, o dei due soldati che scambiano lo scampanio pasquale di una chiesa tedesca per l’annuncio della fine della guerra, o di reduci millantatori di prodezze belliche, o di un marito abbandonato che cerca vanamente approcci di revanche al bar con la cameriera, questi personaggi risultano tutti dei perdenti. E non arrabbiati, non vendicativi, non decisi a riscattarsi. Semplicemente rassegnati alle loro piccole esistenze prive di sogni. Yates li segue nelle farneticazioni mentali, nelle esitazioni comportamentali, nelle sconfitte accettate con fatalità: e la sua scrittura è puntuale, scabra, oggettiva. “Un’ineffabile sensazioni da orchestrina sul Titanic”, come scrive giustamente Lagioia.

IBS, 19 febbraio 2012

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