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RECENSIONI

ZANOTTI

PAOLO ZANOTTI, L’ORIGINALE DI GIORGIA – PENDRAGON, BOLOGNA 2017

Paolo Zanotti (1971-2012) è stato scrittore, saggista, ricercatore, editor, docente universitario, insegnante di scrittura creativa. Giudicato dai critici una delle voci più significative e promettenti della sua generazione, ci ha lasciato due romanzi (Bambini bonzai e Il testamento Disney) e importanti contributi sulla narrativa d’avventura, sulla storia dell’omosessualità e sulla letteratura francese di fine Novecento.

L’originale di Giorgia riunisce tutta la produzione zanottiana di testi brevi, editi e inediti: undici racconti, un’intervista e un’auto-analisi del metodo di scrittura. Iniziando proprio dal commentare questi due ultimi contributi, possiamo rilevare quale fosse la consapevolezza dell’autore riguardo alla propria opera: «Quando scrivo provo a eliminare ogni picco, non solo in alto ma anche in basso», aspirando alla leggerezza di Calvino, all’ironia di Meneghello, alla visività colorata di Cortázar, suoi modelli dichiarati.Attraverso una scrittura pacata, quasi sorridente, lo sguardo del narratore inquadra la crudele realtà di un mondo disumanizzato, in cui gli esseri umani si trasformano arrendevolmente in “manichini”, in pupazzetti della Playmobil, in soldatini ossessivi che ubbidiscono alle leggi feroci del consumismo, allineati davanti alle casse dei supermercati, o spettatori inebetiti dalle televisioni e dai computer. Mentre la terra agonizza tra inquinamento e gas serra, invasa da masse migranti di affamati, Zanotti si affida alla fiaba e alla fantascienza, al sapere infantile e al folklore popolare, all’avventura picaresca e all’ecologismo, al fumetto e alla ghost-story, con un tocco di nostalgico romanticismo corretto da un gusto ironico del particolare macabro.

C’è in questo autore, purtroppo mancato prematuramente, il proposito di farsi empatico portavoce della memoria collettiva della generazione nata negli anni ’70, cresciuta con i cartoon di Candy Candy e di Eta Beta, pasciuta con «placido pane-burro-e-zucchero» in famiglie asfissianti e normalmente insoddisfatte, desiderosa di evadere con ribellioni eclatanti ma incapace di farlo: giovani disadattati nel presente e impauriti da un futuro minaccioso, rannicchiati nel rifiuto della postmodernità e proiettati verso un universo estraniante e alieno, da Star Wars e viaggi interplanetari. Nicola Barilli nell’introduzione parla di molteplicità di stili adottati e di pluralità di direzioni, anche se i nuclei tematici dei racconti si riducono sostanzialmente a tre, corrispondenti alle tre età dell’uomo: infanzia, giovinezza e maturità, con una dichiarata idiosincrasia per quest’ultima, colpevole di affondare sogni e illusioni, e di sottomettersi con eccessiva docilità ai riti del lavoro, del successo, del conformismo sociale.

Così, il «tempo-spugna dell’infanzia» viene recuperato nel suo alone magico di incanto, di paradiso perduto (la mamma insostituibile, il paesino, l’oratorio, gli animali, le nuvole, le bande scorrazzanti nel parco), ma anche di «inesorata still life», quando «non si capisce il mondo a cosa serva», in uno dei racconti più riusciti del volume, Ritorno. E l’adolescenza già si carica di turbamento e rabbia («Sì sì lo so che saremo sempre infelici comunque»), tra utopie ambientate in civiltà extraterrestri, cloni, astronavi e barriere di energia cosmica (Paesaggio con manichini) o realtà demoralizzanti di amori e amicizie tradite (L’originale di Giorgia, La cella geografica). Infine l’età adulta, menzognera e disperata, vissuta come un incubo (Going native, Io e Licia, Teologia da supermercato, Paese all’uscita dell’autostrada, Per costruire la casa dei miei sogni), da cui tentare continuamente di fuggire per poter ritrovare uno scampolo di autenticità. Riguardo allo stile adottato da Paolo Zanotti in queste prose brevi, è senz’altro da sottolineare la scelta incontestabile di una forma comunicativa lineare e fluida, vivacizzata da un lessico inventivo e da improvvise e inaspettate metafore (originali, eccentriche), a cui tuttavia l’autore non demanda il compito di disorientare il lettore con l’artificio della meraviglia, affidato invece al contenuto, sempre imprevedibilmente nuovo.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/L-originale-di-Giorgia-Paolo-Zanotti.html         13 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

ZAOUI

PIERRE ZAOUI, L’ARTE DI SCOMPARIRE – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

“Felicità per sottrazione” è l’obiettivo che secondo il filosofo francese Pierre Zaoui dovremmo cercare di conquistare e mantenere, individualmente e come collettività. Lo afferma nel saggio L’arte di scomparire, sottotitolato “Vivere con discrezione”: ed è proprio di questa particolare attitudine, oggi raramente riconosciuta come qualità, che l’autore tesse un convinto elogio.

Discrezione come scelta di vita, che in genere si accompagna a una disposizione caratteriale antitetica all’eccesso di esuberanza, di autopromozione, di visibilità, di autoreferenzialità: inclinazioni particolari che nel mondo contemporaneo vengono incoraggiate dai media e dai social come valori e meriti da esibire con orgoglio e sfrontatezza.

La discrezione viene definita dall’autore dote “rara, ambigua e infinitamente preziosa”, che trova nella moderazione e nel riserbo la propria misura espressiva, sottratta a riflettori e casse di risonanza, renitente di fronte a ogni forma di spettacolarità. Aderendovi, “usciamo da quel gioco di proiezioni e introiezioni continue che ci legano di solito agli altri”, rinunciamo a qualsiasi volontà di potenza e all’illusione di essere indispensabili, alla “dialettica mediocre del riconoscimento o della seduzione”. Sottraendosi all’obbligo dell’apparire e accettando una sorta di clandestinità, la discrezione assume i tratti della dissidenza, di una resistenza politica al dovere di divulgazione e protagonismo, secondo cui “essere è unicamente essere percepiti”. Si oppone, infatti, alla sorveglianza del panottico totalitario, praticata dalle nostre occhiute e orecchiute società contemporanee attraverso videocamere, intercettazioni, spionaggi informatici, droni e satelliti.

La delicatezza del porsi nel mondo dovrebbe insegnare a non stare troppo vicino alle persone e alle cose per non venirne divorati, né ad allontanarsene troppo rischiando l’isolamento. Tuttavia, la rinuncia volontaria all’esposizione potrebbe nascondere una debolezza originaria del carattere, una tattica dissimulatrice, una forma raffinata di narcisismo, un eccesso di timidezza-pigrizia-egocentrismo-vigliaccheria, o (in termini psicanalitici), l’angoscia di castrazione e la pulsione di morte.

Pierre Zaoui indaga sulle origini di questo orientamento comportamentale a partire da quanto ne pensavano gli antichi. I greci decantavano l’aidós (pudore, modestia, riservatezza) e la phrónesis (prudenza, saggezza, giusta misura): Epicuro consigliava di vivere nascosti, Marco Aurelio raccomandava di rifugiarsi nella propria “cittadella interiore”, rifiutando successi estemporanei, lusso e piaceri effimeri; Platone e Aristotele suggerivano di affidarsi sempre alla ragione e alla consapevolezza per migliorare politicamente la comunità.  In tal modo però non si privilegiava una disinteressata scomparsa dell’io, quanto invece una più elevata presenza a se stessi, e un’opportunità personale in termini politici.

Durante il rinascimento sembrò che la figura del cortigiano riassumesse esemplarmente i caratteri di equilibrio e tatto propri della discrezione, nel processo di civilizzazione dei costumi che andava imponendosi in tutta Europa. Cortesia, raffinatezza, educazione diventavano in realtà astuti strumenti di autoaffermazione all’interno dei palazzi, asserviti all’adulazione sottomessa ai propri signori.

Quindi, più che dalla filosofia o dalla politica, la discrezione è stata riconosciuta come valore primariamente in ambito religioso, in particolare dall’ebraismo e dal cristianesimo.

Tre sono le autorità morali che nei secoli hanno meglio illustrato le proprietà tipiche della discrezione: San Tommaso che la esaltava come umiltà del cuore e della mente, il rabbino Isaac Luria che la paragonava alla contrazione (tzimtzum) messa in atto dal Creatore per lasciare spazio di libertà alle creature, il mistico Meister Eckhart che invitava al distacco dai beni materiali e all’abbandono di ogni egoità.

C’è poi la discrezione proposta dagli atei e dagli agnostici, racchiusa in un orizzonte puramente umano. È quella che Levi Strauss trovava negli indigeni amerindi, animati “da un sentimento deferente verso il mondo”, e non concentrati sulla propria soggettività. O agli antipodi temporali, quella indicata da molti pensatori moderni (Kafka, Virginia Woolf, Hannah Arendt, Blanchot, Benjamin, Deleuze, Bataille, Debord), che narrano esperienze di distacco, nascondimento e sparizione spogliate da ogni fideismo, e abbandonate fiduciosamente all’idea dell’annullamento di sé e del lasciar-crescere ciò che è fuori di sé.

La discrezione è quindi un’arte recentemente riscoperta nella sua valenza micropolitica: di resistenza impercettibile all’ostentazione di sé, di rinuncia ad apparire e ad accumulare ogni tipo di esperienza, di rifiuto del soggettivismo esasperato di chi pretende di “essere percepito” senza riuscire a “percepire”.

Pierre Zaoui (1968) insegna attualmente Filosofia presso l’Università di Parigi VII, e si occupa di liberalismo, soprattutto nel pensiero di Spinoza, Hume e Deleuze,

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 27 luglio 2020

 

 

 

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ZARRI

ADRIANA ZARRI, TUTTO E’ GRAZIA – ALIBERTI, FIRENZE 2011

L’ultima intervista concessa da Adriana Zarri, novantunenne, quando era già molto ammalata e costretta a letto da due anni, è un difficoltoso ribadire sue tesi rese note in molti anni di militanza pubblicistica e di fede, e nei suoi libri di successo. La donna monaco, come amava definirsi e essere definita, risponde in maniera scarna e tranquilla, senza più la vis polemica che la caratterizzava in passato, alle domande di Domenico Budaci. Domande incalzanti e articolate, ricche di citazioni, che senz’altro finiscono per illustrare più le tesi dell’intervistatore di quelle dell’intervistata, di cui tuttavia rimangono sulla pagine alcune illuminanti, quasi gnomiche sentenze. “Tutto ciò che ci succede ha un senso, un fondamento positivo, “Dio è più grande del nostro cuore”, “Quando chiediamo ci è sempre dato, anche se non ci è dato quello che a noi sembra la cosa giusta”, “Pregare è chiedere il regno”, “Poesia e preghiera vanno insieme. La poesia è il tentativo di cercare un senso ulteriore alle cose”, “La nosta cultura è del fare, non dell’accoglienza. Fare,fare,fare… e invece c’è un lasciar fare”. Improvvisamente Adriana Zarri si anima quando parla della bellezza della natura (“La bellezza è dappertutto”), dei suoi amici animali e dell’amatissima gatta, per cui spera in una resurrezione quale quella riservata agli esseri umani. E non crede nelle condanne ecclesiastiche: “Forse bisognerebbe chiedersi cos’è l’eresia… probabilmente è una verità impazzita, ma c’è più verità che errore nell’eresia”. Insomma, “tutto è grazia”, come scriveva Bernanos, di tutto bisogna avere consapevolezza e riconoscenza. Il libro si conclude con una breve intervista a Mons. Bettazzi, Vescovo di Ivrea e caro amico della Zarri, che si sofferma particolarmente sui concetti di laicità, di povertà e di dialogo, e mette in guardia la gerarchia cattolica dalle blandizie della politica.

IBS, 9 giugno 2011

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ZAZUBRIN

VLADIMIR ZAZUBRIN, LA SCHEGGIA – ADELPHI, MILANO 1990

Di Vladimir Zazubrin – autore del primo romanzo ufficiale del realismo sovietico, Dva Mira (Due mondi), lodato da Lenin e da Gorkij come «libro terribile e utile», l’editore Adelphi ha pubblicato nel 1990 un racconto lungo, La scheggia, apparso nella Russia di Gorbaciov solo nell’89, dopo sessantatré anni di censura e rimozione.
Zazubrin, in cui vero nome era Vladimir Zubcov, fu un rivoluzionario “doc”, di estrazione contadina, bolscevico dall’adolescenza: dapprima allievo ufficiale, quindi partigiano nell’Armata Rossa, poi scrittore e giornalista fedele ai canoni del realismo sovietico, infine funzionario del partito di Lenin fino al 1993, anno in cui scrisse la novella La scheggia, cadendo così in disgrazia presso l’apparato del partito. Accusato di «non aver compreso le strade e i metodi dell’edificazione socialista», non riuscì mai a pubblicare il suo racconto, che adesso leggiamo tanto più increduli e angosciati in quanto sappiamo provenire da fonte di indubbia fede e fedeltà comunista.
Dice un cinico proverbio russo che «le schegge saltano quando si abbatte il bosco», e appunto di queste schegge, delle migliaia (milioni, diremmo oggi) di vittime innocenti della rivoluzione sovietica ha scritto Zazubrin, cosciente e disperato del tradimento cui “Lei” (la Rivoluzione, appunto, come viene definita nel racconto) ha costretto i suoi adepti.
Andrej Srubov, protagonista della storia, porta nel suo nome una condanna: srubit’ significa in russo “tagliare, abbattere”, e Srubov è destinato infatti (come presidente della Ceka, la commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) a rivestire il ruolo di boia, di carnefice, che decide della vita e della morte di centinaia di persone. Il racconto si apre con una rivoltante carneficina, provocata da una serie di fucilazioni di nemici politici, uomini e donne, ufficiali e religiosi, nobili e delinquenti comuni: corpi che rotolano nei loro escrementi, viscere che si aprono diffondendo odori insopportabili, nudità umilianti e pietose insieme, in un crescendo vorticoso di urli, rantolii, preghiere. Srubov implacabile regola il tirassegno delle esecuzioni: «Un doloroso colpo nelle orecchie. Bianche carcasse di umida carne si afflosciarono sul pavimento. I cekisti corsero rapidamente indietro con i revolver fumanti in mano, e subito fecero schioccare di nuovo i grilletti. Le gambe dei giustiziati ebbero una contrazione. L’uomo grasso tirò l’ultimo respiro con un sibilo stridente. Srubov pensò: – Esiste l’anima, o no? E’ forse l’anima che esce sibilando? -».

I cinque soldati ai suoi ordini agiscono come automi, freddi e determinati nel fanatismo che li motiva: denudano i prigionieri, li mettono in fila, prendono la mira, sparano, si ripuliscono dagli schizzi di sangue e dai brandelli di carne che li raggiungono. Poi, in un parossismo di follia, tentano di ripulirsi anche anima e mente correndo all’aperto a tirarsi le palle di neve, tra un’esecuzione e l’altra, in una patetica immersione nell’innocenza e nella leggerezza infantile del bianco inverno russo. Srubov no. «Srubov sta saldo, la testa alta, nel rombo del terremoto, e fissa avidamente il lontano. Nella mente un unico pensiero – Lei.»

Ma sarà proprio questa cieca ostinazione, questa pronuba ossessione rivoluzionaria a fare anche di lui una vittima predestinata. Abbandonato dalla moglie, segnato a dito dalla popolazione, disprezzato dal padre che finirà vittima del terrore leninista, Srubov vacilla: comincia a bere, usa metodi sempre meno ortodossi negli interrogatori, non riesce più a nascondere il suo disprezzo per i delatori che gli offrono i loro immondi servizi.
Guardandosi allo specchio non si riconosce, allucinato dall’immagine di un se stesso di cui è prigioniero: solo, nel suo ufficio, farnetica di moralità e politica con un indifferente ritratto di Marx, tremando ogni volta che i suoi soldati caricano su camion rombanti i cadaveri dei giustiziati. Lui, il carnefice impietoso, l’assassino in divisa, pretende dalla madre che lo aspetti con la luce accesa, perché ha paura del buio. La tentazione che avverte, firmando l’ennesimo ordine di fucilazione, di scrivere la sua firma qualche centimetro più in alto per finire anche lui tra i condannati, è un chiaro indizio della sua vocazione all’annullamento, all’ autocondanna.
La macchina inarrestabile della rivoluzione, cui tutto è permesso, tutto è dovuto, maciullerà anche Srubov, riducendolo a una delle tante schegge già saltate nel taglio del bosco. «Ma a Lei forse interessa tutto questo? A Lei serve solo costringere gli uni a uccidere, gli altri a morire. Solo questo. E i cekisti, e Srubov, e i condannati, erano tutti allo stesso modo insignificanti pedine, piccole viti nella furiosa corsa del meccanismo della fabbrica… Qui la padrona è Lei, crudele e bellissima».

Si può forse rimproverare al racconto un certo gusto truculento per le immagini forti, una certa roboante retorica nelle metafo tuttavia il merito innegabile di averci dato (autore e traduttrice) un documento terribile, una denuncia pari come gravità e violenza agli scritti usciti dai lager nazisti, su una fase storica di cui sappiamo ancora troppo poco.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/La-scheggia-Vladimir-Zazubrin.html

17 dicembre 2015

RECENSIONI

ZEI – LECCO

ALKI ZEI, LA TIGRE IN VETRINA – EINAUDI, TORINO 1978
ALBERTO LECCO, L’INCONTRO DI WIENER NEUSTADT – MONDADORI, MILANO 1978

Uno dei romanzi per l’estate proposto da Einaudi è La tigre in vetrina, di una scrittrice greca vivente ora a Parigi, Alki Zei. Si tratta di un romanzo che ha circa una quindicina d’anni, ma ha potuto essere pubblicato in Grecia solamente ora, per i troppi richiami alla dittature dei colonnelli. La storia infatti si svolge nei mesi che precedettero e seguirono la dittatura fascista di Metaxas, nell’estate del ’36, quando tutto l’orizzonte europeo era già scuro per la guerra di Spagna e le prime avvisaglie della follia hitleriana. Due bambine vivono con i genitori su un’isola che mantiene ancora qualcosa della selvaticità e della libertà naturali; con loro stanno il nonno (bella figura di antifascista, chiuso in camera a leggersi i classici e a trarne insegnamenti di democrazia), una zia e una vecchia cameriera. Con loro vive in qualche modo anche una tigre impagliata, che le bambine fanno protagonista di nuove avventure e simbolo di ribellione al mondo incomprensibile degli adulti. Melia e Myrto diventano presto vittime inconsapevoli, e perciò più indifese, dell’improvviso mutamento dell’atmosfera politica: attraverso di loro, dietro i loro giochi e il loro linguaggio infantile, si intuisce il dramma di una paese e di un periodo intero di storia greca. La dittatura cambia il corso della vita familiare, sembra dividere gli stessi componenti della famiglia, obbliga a comportamenti inautentici e, agli occhi delle bambine, ridicoli. La storia è narrata con garbo e ingenuità, e la poesia di questo libro sta appunto in questa discrepanza tra la drammaticità degli avvenimenti e la leggerezza malinconica con cui le due sorelline li vivono.
Un altro romanzo che vive in una dimensione di simile oppressione è L‘incontro di Wiener Neustadt, di Alberto Lecco, ambientato in una stazione austriaca durante l’ultima guerra. Vicenda scarna, che si svolge nell’arco di poche ore, con tre soli personaggi sullo sfondo misero di rassegnazione (da una parte) e crudele lucidità (dall’altra) che segnava i rapporti interpersonali all’epoca della persecuzione razziale. Una giovane coppia di ebrei stabilisce una comunicazione intellettuale con un altrettanto giovane ufficiale nazista: il racconto è imperniato appunto su questo dialogo impossibile. Una solidarietà culturale, che gli ebrei sottolineano e continuamente incoraggiano nella speranza che si trasformi in solidarietà politica, o più semplicemente, umana; un fascino subito reciprocamente, una specie di complicità che si instaura tra queste persone che (per caso e per necessità) oscillano tra l’essere vicine e l’essere lontane. Un rapporto ambiguo, tutto teso su un filo di colloquio condotto dal narratore in maniera sapiente. Ma un romanzo, per farsi perdonare di essere intelligente, sembra debba pagare uno scotto: e in questo caso lo scotto è il gusto della citazione, l’aristocraticità culturale sbandierata, un linguaggio fastidiosamente raffinato (troppi e troppo classici gli “epperò” al posto dei più semplici “però”): ma tutto ciò serve forse a suggerire la risposta, che la cultura non basta a salvare, che la vera comunicazione avviene non tramite determinate “affinità elettive”, ma in altro modo, più responsabile e cosciente.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 agosto 1978

RECENSIONI

ZIPPILLI

ERIKA ZIPPILLI, COME CHIAMANDO – FUORIDALCORO, MENDRISIO 2011

La scrittrice e traduttrice ticinese Erika Zippilli-Ceppi ha vinto nel 2007 il Premio Schiller con un volume di racconti (“Regine di confine”) ambientati nelle comunità paesane della Svizzera Italiana, prestando voce e parola nuova (antica di antichi dialetti), attraverso coniazioni linguistiche sperimentali, a dieci donne portatrici di una cultura e di una storia che sa farsi, da privata e familiare, patrimonio collettivo da preservare con amorevole cura.
Nel 2011 ha pubblicato con le eleganti edizioni Fuoridalcoro “Come chiamando”, una silloge di poesie in sessanta copie numerate, impreziosite ciascuna da originali acquerelli di Michela Pozzi. Non è un libro da sfogliare tradizionalmente: si apre a fisarmonica, con i testi stampati sulle due facciate, chiuso tra due copertine nere di cartone pressato.

Otto poesie in cui “compaiono voci e destini di alberi, case e abitanti del suo territorio reale e emozionale”. Versi che raccontano un passato ripescato da trascurate pieghe della memoria “Il ricordo sceglie da sé / il come e l’ora / in cui venire al mondo” per narrare esistenze minime di donne comuni, di abitazioni cariche di vita e affetti, di vegetazione silenziosa ma partecipe all’esistenza degli esseri umani.
Gli alberi (gelsi, castagni, ulivi) sono descritti nel loro pervicace aggrapparsi alle radici, “gravati da silenzi offesi /… ieratico rifugio di notturni voli” nel loro solido resistere alla forza dei venti, svettare verso il cielo con l’intrico dei rami, offrire riparo (“muschiati anfratti”) alle bestiole del bosco.
Ma sono soprattutto le case che abitano questi versi, case vecchie di un Ticino dimenticato, frequentate da donne che si facevano visita a vicenda (chiacchierando, consolandosi dei reciproci magoni), e appartamenti nuovi, impersonali, freddi (“in fondo alla fila di porte pittate tutte uguali”). Ci sono, nelle case descritte, corpi di malati “come chi aspetta la scure, / testa insaccata di fianco al letto, / senza domande”, laboriose sartine “in attesa di non si sa quale attesa”, in ansia “al su nanca mì parché…”, vedove che fanno visita al cimitero “tré volte al dì, sum pròpi chì da còmud!”, mogli abbandonate dai mariti emigrati “in Merica”, bambine spaurite nella “vestina scarlatta”. Personaggi lontani da una contemporaneità frenetica e disillusa, che sembrano quasi straniati nei loro “gesti impalliditi”. A loro l’autrice vorrebbe regalare, “un cielo azzurrorosa”, “glicine spavaldo”, “veloci stelle”, “bozzoli dorati”: poesia, dunque, che funga da lasciapassare verso un oltre più clemente, Come chiamando – in una lingua densa di meditato spessore – l’orizzonte di un desiderio futuro.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Come-chiamando-Zippilli-Ceppi.html     19 ottobre 2016

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ZUCCO

RODOLFO ZUCCO, GLI OSPITI DISCRETI – ARAGNO, TORINO 2013

Rodolfo Zucco (Feltre, 1966), Professore di Linguistica all’Università di Udine, studioso della nostra letteratura settecentesca e novecentesca, e curatore dei due fondamentali Meridiani  Mondadori dedicati a Giovanni Giudici e Giovanni Raboni, ha pubblicato con l’editore Aragno nove saggi scritti tra il 1991 e il 2007, riguardanti la produzione in versi di altrettanti importanti poeti italiani del secondo 900. Nella nota di apertura, Andrea Cortellessa attribuisce la discrezione cui fa cenno il titolo del volume non solo «al carattere di chi firma i nove saggi qui raccolti», ma alla stessa «acribia» critica evidenziata dalla loro struttura, che partendo dall’esame di aspetti talvolta marginali, discreti, del testo poetico, «rinvia a un’ interpretazione complessiva» dell’opera e dell’autore preso in esame. E Zucco precisa ulteriormente, nella sua premessa, il senso da attribuire al titolo scelto (dopo sofferta gestazione!): «Si può ben parlare di ‘ospiti’ in ragione della mia lunga ‘convivenza’ con loro in un ventennio di studi e di scrittura. Ma è altrettanto importante per me l’accezione di ‘ospite’. Sono ospiti, i miei autori, nel senso che mi ospitano o mi hanno ospitato: giacché la loro opera veicola infine gusti miei, determinate zone della mia sensibilità».

Il libro si apre infatti con uno studio su Vittorio Sereni, che si rivela un affettuosissimo omaggio, più che al poeta, alla persona: nella rievocazione di particolari biografici (talvolta commoventi, talaltra spiritosi) che offrivano spunti alle dediche delle sue poesie, spesso poi cassate nella pubblicazione a stampa, a causa «della riservatezza dei sentimenti che doveva essere un tratto dell’uomo».
Altri saggi «procedono essenzialmente come accertamenti di fatti linguistici e metrici (il verso, la rima e la strofa)». Ad esempio l’indagine su rima, rima interna, enjambement intesi come segnali specifici dell’oralità nella produzione di Giudici. O il rilievo dato all’uso della citazione e dell’allusione in Raboni. O ancora, nel confronto tra due libri di Valerio Magrelli (Ora serrata retinae  e  Nature e venature), la sottolineatura del mutamento dell’ autocoscienza critica – attraverso lo studio di analogie, metafore, deissi, metrica- nella severa tensione autoriflessiva che da sempre caratterizza la produzione del poeta romano. Di particolare interesse, pur presentando qualche difficoltà per il lettore non specialistico, è il saggio sui «versi a gradino» di Giorgio Caproni, ereditati dalla divisione in battute della lirica teatrale, attraverso differenti epoche e generi poetici, da Leopardi a Gozzano.
A Fernando Bandini, suo maestro negli anni universitari a Padova, Rodolfo Zucco dedica un lungo studio che del poeta vicentino esplora la cospicua attività di traduttore, in particolare da Baudelaire. La produzione in versi di Iolanda Insana e di Eugenio De Signoribus viene minuziosamente analizzata negli esiti formali sintatticamente contorti e febbrili dell’una, attenti con virtuosistica perizia all’uso delle rime nell’altro.
Infine, l’ultimo saggio del volume è dedicato a un poeta sottovalutato e quasi dimenticato, Ferruccio Benzoni, di cui si considera il libro del 1998  Sguardo dalla finestra d’inverno, con le sue derivazioni da Fortini e Sereni, e la particolare «strategia della negazione», sempre comunque all’insegna di un dettato elegante e discreto. E se Zucco conclude le sue letture, di autorevolissima competenza critica, ricordando che nella poesia è quanto mai implicita una «vocazione alla felicità», sono le parole di Raboni che meglio offrono la chiave di interpretazione di questi studi, approfonditi e comparativi: «nella vita di una poesia…ci sono tante altre vite, le vite di tante altre poesie».

«L’Immaginazione»  n. 279, febbraio 2014

RECENSIONI

ZUCCO

GIUSEPPE ZUCCO, IL CUORE È UN CANE SENZA NOME – MINIMUM FAX, ROMA 2017

Capovolgendo la trasformazione del cane di Bulgakov, e senza sfiorare nemmeno lontanamente la satira politica dello scrittore russo, Giuseppe Zucco (1981) ci racconta una storia delicata e fantastica, scritta con proprietà ed eleganza, narrando di un giovane uomo che di guaito in guaito, in uno straziante percorso di fedeltà e di amore non più corrisposto, si trasforma in cane. «Lei lo aveva lasciato, e lui aveva continuato come nulla fosse. La mattina andava a lavorare, la sera tornando a casa comprava il pane, la notte dava due giri di chiave alla porta prima di spegnere le luci. Era tutto sotto controllo, diceva… Ma una mattina, mentre lavava i denti, tirando su la testa davanti allo specchio, scoprì che guaiva».

Il protagonista (senza nome, designato da un generico “lui”, così come gli altri personaggi rimangono nel limbo di classificazioni universali: la bambina, il padre, il ragazzo, e soprattutto “lei”) guaisce perché non riesce a trattenere il dolore della perdita e dell’abbandono: dapprima di nascosto e camuffando il suono disdicevole con altri rumori, poi manifestatamente, con latrati e ululati strazianti. Fino alla sua completa trasmutazione, con una metamorfosi kafkiana, in un quadrupede non di razza, piuttosto ordinario, «muso pronunciato, le orecchie flosce e appuntite, il manto bianco ma pezzato da alcune macchie di un nocciola chiaro, la coda come una virgola per aria». Un cane che si comporta come tutti i canidi del mondo: si azzuffa col branco, ruba il cibo, si accoppia con le randagie che trova per strada, ringhia e morde, si sporca e puzza. Viene adottato e abbandonato, accudito e torturato più volte, prima da una bambina viziatissima, poi da una volubile studentessa, infine da una macabra vegliarda. Nelle presenze femminili che incontra, nelle tre età di uno stesso mito muliebre, il cane (ex-giovane uomo innamorato) riscopre le sembianze allucinanti della donna che lo ha lasciato: le sue labbra stupende, l’incisivo scheggiato, le gambe affusolate, il seno, i fianchi, la voce. Gli episodi del loro incontro e della loro convivenza, la fisicità degli amplessi, i litigi e le incomprensioni si sovrappongono ai tormentosi avvenimenti della sua vita di animale, alle sue umiliazioni e alle sue rabbie: «… il cane pensò a lei. Lei era la sua patria ubiqua. In lei affondavano le sue radici. Non c’era altra ragione oltre lei». Il cuore è un cane senza nome, quindi, in un’allegoria della sofferenza amorosa che può arrivare al delirio e alla scomposizione di sé, al travestimento e alle mortificazioni più scottanti. Cosa rende simili esseri umani e non-umani nel dolore? «Una stessa storia? Una storia finita male? Questo eccesso di amore non più riposto nelle mani della persona amata? Questa incessante proliferazione di cellule ed energie?».

Accomunati non solo dal bene e da sentimenti positivi, ma anche dall’odio, dalla gelosia, dal terrore, dal desiderio di vendetta, persone e animali sono simili, vittime delle stesse passioni. Il cane di Giuseppe Zucco non ha nome, perché forse ha i nomi di tutti, patisce gli spasimi e le gioie di tutti. Nella sua storia, sospesa tra verità e fantasia, tra fiaba e realtà, si cela come unica morale la volontà di riconoscersi vivi, in un passato da recuperare e in un futuro da reinventare.

© Riproduzione riservata           www.sololibri.net/cuore-cane-senza-nome-Zucco.html

12 ottobre 2017

 

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RECENSIONI

ZULIANI

LUCA ZULIANI, L’ITALIANO DELLA CANZONE – CAROCCI, ROMA 2018

Molto interessante questo libro di Luca Zuliani, professore di Linguistica all’Università di Padova, studioso di metrica e poesia contemporanea. L’italiano della canzone esplora la relazione esistente tra la musica leggera e la lingua letteraria, esaminando il repertorio canoro nostrano degli ultimi cinquant’anni, con numerosissimi e calzanti esempi, tesi ad illustrare i rapporti di filiazione, opposizione o estraneità esistenti tra i versi delle canzoni e quelli poetici.

Lingua armoniosa per eccellenza (dolce, sonora, priva di asperità, ricca di vocali), la nostra è tuttavia poco adatta ad essere musicata, a causa della scarsa presenza di parole tronche (cioè accentate sull’ultima sillaba), frequentissime invece in molte altre lingue, e soprattutto in inglese. Da noi esse si limitano ai monosillabi, a qualche forma verbale, a pochi vocaboli astratti e ad alcuni avverbi. Come hanno ovviato a questo pesante handicap i parolieri di musica leggera? In passato, e fino al secondo dopoguerra, troncando parole piane (fior, amor, ben, muor) o utilizzando termini desueti (dì, mercé, beltà); oggi usando l’escamotage di accentare sull’ultima vocale anche le parole sdrucciole (gli 883: “sei una libìdiné”; Arisa: “storia màgicà”; Battiato: “la vecchia brétoné”), o invertendo il loro ordine usuale (Vecchioni: “la guerra paura non fa”), oppure concludendo con congiunzioni, pronomi, avverbi, verbi o esclamazioni accentate (Vasco Rossi: “che se ne frega di tutto, sì!”; “sei in forma, ué!”), o ancora ricorrendo direttamente al dialetto e a lingue straniere (Adriano Celentano: “che ti fulmina sul ring”; Domenico Modugno: “un uomo in frak”).

Zuliani si sofferma con puntualità sugli aspetti tecnici della composizione dei testi, chiarendo in che modo funzionino versi, rime e strofe nelle canzoni e nella poesia, sottolineando giustamente come quest’ultima sia divenuta oggi del tutto marginale nella cultura di massa, ridotta a un’arte di nicchia poco praticata e poco letta dal pubblico, a tutto vantaggio delle canzoni, i cui testi si sono evoluti formalmente e contenutisticamente rispetto al passato, al punto che un recente premio Nobel è stato attribuito a Bob Dylan. Oltre a queste ed altre spiegazioni specialistiche (sapevate cos’è la “mascherina”? è una sorta di tavola numerica che i musicisti apprestano per i parolieri che non conoscono le note…), l’autore analizza altri elementi comuni ai testi delle canzoni e a quelli poetici: la strofa, il ritornello, la quartina, sempre sottolineando che metrica e ritmo (lingua e musica) convivono su basi differenti: la prima contando il tempo con le sillabe, la seconda con le battute. Si addentra poi in commenti più ampi riguardanti la scrittura dei testi considerati artisticamente più ambiziosi, quelli che tendono a far prevalere l’importanza della scrittura sulla musica. Per intenderci, quelli di De André, De Gregori, Luigi Tenco, Carmen Consoli, Bluevertigo, Marlene Kuntz, che riprendono forme letterarie utilizzando addirittura versi canonici come l’endecasillabo, o frasi lunghe e complesse, con frequenti subordinazioni e asimmetrie.

Tuttavia, se oggi nella produzione di musica leggera, prima si compone la melodia e ad essa si adattano le parole, è evidente che la lingua italiana risulta spesso mortificata dalle esigenze della musica, degli arrangiamenti e delle interpretazioni. In fondo, “sono solo canzonette”, come suggeriva Bennato: pretendere da esse che si innalzino ad arte è forse eccessivo. Stimolante e curioso rimane, comunque, poter indagare su regole e tecnicismi che riescono a farle funzionare, regalandoci momenti belli: in questo ci aiuta il libro di Luca Zuliani.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 7 novembre 2018

 

 

 

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG
VENTIQUATTR’ORE NELLA VITA DI UNA DONNA – SUGARCO, MILANO 1991
NOVELLA DEGLI SCACCHI – GARZANTI, MILANO 1991

Due romanzi brevi, o racconti lunghi che dir si voglia, di Stefan Zweig, sono stati recentemente pubblicati da SugarCo e Garzanti: 24 ore nella vita di una donna  e  Novella degli scacchi. Argomento centrale di entrambi è la passione divorante per il gioco che può attanagliare la mente umana: gioco come azzardo, cioè sfida al destino e a se stessi, e gioco come affinamento della spiritualità. La prima novella è la storia, narrata dalla protagonista a un occasionale confidente trent’anni dopo la sua conclusione, di un incontro tra una intelligente e ricca vedova, che cerca di distrarre viaggiando la sua «irreversibile tristezza», e un uomo divorato dal tarlo febbrile del gioco al casinò. A Montecarlo la signora viene attratta dalla vita di un giovane che sembra giocarsi alla roulette non solo gli ultimi risparmi, ma la sua stessa esistenza. Ipnotizzata dall’eccitazione di lui, ma soprattutto dall’irrequietezza e dal tremito disperato delle sue mani, lo segue fuori dal casinò e in albergo, nell’ansia di salvarlo dal suicidio e di redimerlo dalla follia del gioco; superando ogni pudore e remora dovuta alla sua educazione gli si concede, vivendo con lui l’esaltazione furiosa di una notte d’amore. «Non avrei mai immaginato, senza quell’incontro terribile, con quale ardore, con quale accanimento e irrefrenabile avidità un uomo spacciato, perduto, beva ogni goccia rossa di vita».

La notte passata insieme trasforma profondamente la donna, inducendola a rischiare tutto per seguire la sorte del suo nuovo amico: gli consegna dei soldi perché paghi i suoi debiti, lo costringe quasi a partire per porre fine alla sua inclinazione malata, decide essa stessa di seguirlo, giocandosi la sua reputazione e un tranquillo e grigio destino di vedova benestante. Ma il ragazzo la inganna, e col denaro avuto in dono torna al casinò e riprende a giocare: all’intervento stupito ma deciso di lei, la caccia umiliandola e sbeffeggiandola davanti a tutti. Tuttavia, «si sopravvive anche a ore così dolorose: il sangue continua a pulsare, non si muore, non si cade come un albero colpito da un fulmine»: la donna recupera la sua dignità schernita, ritorna nei binari consolidati di una routine disprezzata ma comoda, perché  «alla fine, chi vince è il tempo, e la vecchiaia esercita sui sentimenti il singolare potere di invalidarli». Rinnegate le 24 ore che stavano per cambiare (in meglio? in peggio?) il corso della sua vita, lei che per amore avrebbe avuto il coraggio di rovinarsi, accetta l’umiliazione di una sconfitta, continuando a coltivare il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.
Il secondo racconto  Novella degli scacchi può essere considerato un po’ il testamento spirituale di Zweig: fu infatti steso nel ’41, pochi mesi prima che lo scrittore austriaco si suicidasse in Brasile insieme alla moglie. E’ la storia di una serie di partite a scacchi giocate durante una traversata marittima nell’Oceano tra Mirko Czentovic, scacchista di fama mondiale, e il dottor B., avvocato austriaco perseguitato dalla Gestapo. E’ chiaro fin da principio da che parte stia lo scrittore Zweig (esteta, pacifista, innamorato della cultura e della spiritualità europea al punto di autoesiliarsi per protesta in Sudamerica allo scoppio della seconda guerra mondiale). Bersaglio della sua polemica è il campione russo Czentovic, ma si tratta di un bersaglio alquanto sproporzionato, di un mulino a vento contro cui non varrebbe nemmeno la pena di combattere: Czentovic è infatti «un contadinotto ventunenne del Banato… un taciturno, ottuso ragazzo dalla fronte quadra… incapace di scrivere una frase in nessuna lingua senza errori di ortografia… di una ignoranza parimenti universale in tutti i campi».

A questo avversario, presuntuoso perché indifeso, goffo perché poco intelligente, fornito di un’unica mostruosa abilità – quella di giocare, vincendo, a scacchi – Zweig oppone la cultura e la sensibilità del dottor B., già amministratore dei fondi della famiglia imperiale austriaca.
Arrestato dai nazionalisti, torturato in un isolamento feroce e totale, era riuscito a salvarsi dalla pazzia grazie alla lettura di un manuale sugli scacchi, e alla simulazione mentale di centinaia di partite: «Appena il mio Io bianco aveva fatto una mossa, il mio Io nero si gettava febbrilmente all’attacco; appena una partita era terminata, subito sfidavo me stesso alla prossima, perché ogni volta uno dei due Io-giocatori era vinto dall’altro e chiedeva la rivincita…Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torre e re…Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica…appena il gioco incominciava, una forza selvaggia m’invadeva: correvo su e giù coi pugni stretti, e come attraverso una rossa nebbia sentivo ogni tanto la mia voce, che gridava a se stessa, rauca e cattiva, “scacco” o “matto!”».

La partita che Czentovic conduce contro il dottor B. è in realtà una partita tra due culture, tra due modi di concepire la vita e di affrontare il mondo: quella, rozza ma vincente, ottusa ma di successo, del campione Czentovic, e quella raffinata ma sconfitta del dottor B.. La prima simboleggia la cultura nazista, violenta e arrogante, la seconda quella austriaca, o più in generale Mitteleuropea. Questa  Novella degli scacchi è, quindi una «fiaba fortemente metaforica», come ben arguisce nella sua originale prefazione Daniele Del Giudice, in cui gli scacchi sono puro pretesto, e il delirio finale del dottor B., in grado di condurre simultaneamente nel pensiero diverse partite, ma incapace di portarne a termine una, quella decisiva, è il simbolo della resa di un continente alla brutalità pianificata di Hitler, della resa di Zweig di fronte al crollo dei suoi ideali.

«L’Arena», 1 agosto 1991