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RECENSIONI

BENNETT

ALAN BENNETT, ARRESTI DOMICILIARI, ADELPHI MILANO 2023

Nato a Leeds nel 1934, il drammaturgo e sceneggiatore Alan Bennett è noto per lo humor tagliente
che caratterizza le sue pièce teatrali (le più famose rimangono La pazzia di Re Giorgio del 1991 e Gli
studenti di storia del 2004) e i suoi pamphlet, in cui vengono stigmatizzati ipocrisie e compromessi
della società occidentale contemporanea. L’ultimo lavoro di Bennett pubblicato nella collana
Microgrammi del suo unico editore italiano, Adelphi, consiste in un diario scritto durante la pandemia
del Covid 19. Diario polemico già dal titolo: Arresti domiciliari. All’effettiva tragedia che per quasi
tre anni ha tenuto il mondo sull’orlo della catastrofe sanitaria, minacciandone oltre che la salute fisica
quella mentale, si è infatti aggiunto il flagello di una comunicazione mediatica ossessiva, morbosa,
ansiogena, dai risvolti spesso ridicoli, che il sarcasmo dell’autore, acuito dall’acredine dei suoi quasi
novant’anni, non manca di sottolineare.
La proverbiale unghiata del vecchio leone in questo libretto si limita ad alcune riuscite battute: “14
marzo, Da buon over 70 sono ufficialmente esortato a starmene isolato e in casa. Il mio normale
trantran adesso ha l’endorsement del governo”, “10 aprile, Venerdì Santo, quest’anno Pilato non è il
solo a lavarsi le mani”, “15 maggio, Le mie mani non mi sono mai piaciute molto. Ora, ultralavate
come prescritto, sono quasi inguardabili: lucide, venose, trasparenti come un’illustrazione
anatomica”, “31 dicembre, Purtroppo la malattia e il rimedio iniziano ambedue con la «v» e, visto
che a ottantasei anni (chiedo scusa) li confondo, in testa alla coda per il vaccino dico che devo fare il
virus – comincia anch’esso con la «v».
È invece una malinconica tenerezza il sentimento che prevale nella narrazione: compassione verso di
sé e verso gli altri, indulgenza per i piccoli sotterfugi cui la comunità di amici e vicini di casa è
costretta per non sottostare ai diktat governativi, benevolenza nei riguardi di luoghi abbandonati nella
solitudine, rimpianto per il passato.
I ricordi si fanno pressanti, quando si è impediti ad affrontare le giornate con i ritmi e gli impegni di
prima della malattia. Memorie infantili improvvisamente tornate incalzanti: il timore materno per
l’unico contagio ritenuto pericoloso in passato, quello della tubercolosi; le insopportabili sedute dal
barbiere; il rito della pesca domenicale cui il padre obbligava tutta la famiglia. Un padre macellaio
amato e temuto dai figli, e ricordato con stima dai vicini, secondo l’impertinente affermazione che
uno di loro aveva rivolto al famoso scrittore: “Pazienza se è famoso, lei. Non varrà mai come suo
papà”.
Ma anche ricordi più recenti, come le prove teatrali, i bisticci con gli editori, le morti degli amici, un
deludente incontro con Graham Greene (“la sua mano fu la più molle che avessi mai stretto”), e le
caustiche considerazioni politiche sulla monarchia inglese e la Brexit, su Trump e Biden, sull’insulso
Boris Johnson: “È un pessimo oratore e parlatore in generale, fa quasi pena”.
E poi il deprimente momento attuale, con i problemi fisici che impongono “una vita sempre più
medicalizzata”: l’artrite, il bastone cui appoggiarsi, l’apparecchio acustico, la rinuncia alla bicicletta.

Il Covid permette solo qualche incontro sporadico nel parco vicino a casa, brevi colloqui da un marciapiedi all’altro, nessun girovagare tra i negozi dei rigattieri: Rupert, il compagno di Alan Bennett, non deve più uscire per recarsi all’ufficio, fa pilates collegandosi a Zoom, e quindi può dedicarsi a lui con tutta la dedizione possibile. Gli taglia i capelli, gli prepara il tè, lo accompagna nelle passeggiate, lo distrae con conversazioni spiritose. Leggono libri, commentano i programmi televisivi, sono rassegnatamente “agli arresti domiciliari”, reclusi insieme.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 giugno 2023

RECENSIONI

BENNI

STEFANO BENNI, DANCING PARADISO – FELTRINELLI, MILANO 20I9

«Ogni angelo è terribile», scriveva Rilke in apertura della Seconda Elegia. Ma l’Angelo Angelica protagonista e voce narrante dell’ultimo libro di Stefano Benni non è terribile affatto: piuttosto indulgente, comprensivo, empatico, capace di pietas cristiana: proprio come l’Angelo di Dio a cui i bambini prima di dormire chiedono «illumina, custodisci, reggi e governa me». Un angelo custode, appunto.

Quello volteggiante in Dancing Paradiso riecheggia immagini filmiche, pittoriche, musicali, di un passato prossimo e remoto, e di un presente terribilmente quotidiano. Ha respirato l’atmosfera berlinese di Wim Wenders e quella californiana di Brad Silberling, le creature alate e i saltimbanchi rilkiani, gli affreschi di Beato Angelico e i quadri di Klee, lo swing anni ’30, il rock anni ’50, le discoteche delle periferie italiane anni ’80. Si è ispirato alla cronaca e alla TV più trash, alla musica di Coltrane, Bach e Vecchioni, ma ha letto anche molta poesia contemporanea, per arrivare a modulare una lunga ballata dal carattere di recita teatrale, con attori e voci diverse: la baritonale di un Falstaff pateticamente comico, il falsetto di un castrato monteverdiano, il singhiozzo malato di una Mimì pucciniana. Ballata in simil-versi, perché l’andare a capo della scrittura di Benni non rispetta la metrica tradizionale, zoppica provocatoriamente, strizzando l’occhio al lettore per avvisarlo che qui si è più vicini alla parodia che all’ode, alla farsa giocosa e moraleggiante che al sonetto o all’elegia.

Angelo Angelica dunque scende dal cielo, nel prologo, inviato/a come messaggero alato ad accompagnare le vicende umane più desolate e problematiche, caparbiamente deciso/a a sporcare la sua tunica celestiale col fango terrestre, «in città malate»: apparizione improvvisa e salvifica, maternamente prodiga e vicina ai disperati cui porta conforto «nell’imperfetta passione e nella speranza». Fratello e sorella, padre e madre, amante e amica, «guerriero che non teme gli screzi», creatura demersale che ama i fondali. Incontra una serie di reietti e depressi, li chiama tutti per nome. Il primo è Stan pianista triste, fradicio di droga e alcol, ridotto «all’ultima nota dello spartito». Il secondo è l’obeso Elvis con «folte basette sul muso da maiale», ex cantante di successo che da anni vive barricato in camera ad ascoltare musica ingozzandosi di cibo spazzatura, praticando sesso virtuale in un delirio masochista autodistruttivo: hacker onnivoro e giustiziere, aspirante nazi-stragista, odia se stesso e l’universo intero. La terza e Lady, «una signora perbene», aspirante poetessa che vorrebbe emulare Sylvia Plath o Marina Cvetaeva suicidandosi, e si riempie di psicofarmaci e alcol per riuscire a sopravvivere. Poi c’è Amina, barista in un pub frequentato da vecchi lascivi e nuovi zombie, giovane profuga arrivata dall’Albania per raggiungere un falso eden popolato da lupi e sparvieri. Infine Bill il Bello, vecchio batterista ridotto a scheletro nel letto di un ospedale in cui i sanitari non vedono l’ora che crepi.

Gli spettri umani raccontati da Benni sono accomunati dalle stesse ambizioni e fallimenti, da un’uguale rancorosa sete di vendetta nei riguardi del mondo che non li ha capiti e considerati nel loro preteso valore: «Nullità e mitomani, criminali e artisti / Tutti vogliamo essere visti / Vogliamo inciso sul marciapiede / Il nostro nome dentro una stella». L’arrivo provvidenziale di Angelo Angelica, planante sulla «città ragnatela di luce… trappola velenosa e atroce», agisce come un balsamo sulle ferite del popolo notturno, vizioso e disperato, che si raduna nel Dancing Paradiso. Invita i cinque infelici a esibirsi sul palcoscenico per un ultimo celebrativo riconoscimento pubblico, prima di venire inghiottiti nel buio della notte, in una morte definitiva o nella vaga speranza di un’alba di riscatto. Le performance di Stan, Elvis, Lady, Amina e Bill, livide e angoscianti, sono invocazioni destinate a perdersi nel nulla e nell’indifferenza cosmica. Mentre Angelo Angelica, conclusa la sua missione, riprende il volo, una voce fuori campo scandisce impietosa il suo verdetto: «Lo spettacolo è finito signori / E anche il mondo sta finendo / Fatevi un selfie speciale / Sullo sfondo del diluvio universale».

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Dancing-Paradiso-Benni.html             27 maggio 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENVENUTO

SERGIO BENVENUTO, SONO UNO SPETTRO MA NON LO SO – MIMESIS, MILANO 2013

“L’uomo dimentica che è un morto che conversa con i morti”: questa frase di Borges è stata scelta da Sergio Benvenuto come epigrafe a un suo interessante libriccino pubblicato da Mimesis, Sono uno spettro ma non lo so, in cui il filosofo e psicanalista napoletano indaga il rapporto che l’umanità ha sempre intrattenuto con il mondo dei trapassati, e con l’idea (attrattiva e repulsiva insieme) di un loro ritorno sulla terra.

Benvenuto nella sua carriera di studioso, saggista e pubblicista si è occupato di psicologia sociale, filosofia del linguaggio, teoria della politica, privilegiando l’analisi dei comportamenti  collettivi  relativamente alla diffusione di credenze popolari, leggende metropolitane, superstizioni e suggestioni mediatiche.

Partendo dall’analisi di film di successo (La notte dei morti viventi, La chambre verte, Il sesto senso, The Others, Sussurri e grida, Hereafter), di opere teatrali e letterarie (Il giro di vite, Amleto, Macbeth, Don Giovanni, Antigone, Fedone, il teatro Noh giapponese) l’autore del  testo indaga sull’effetto perturbante che tali produzioni creano nello spettatore-lettore, intimorito all’idea che i morti possano tornare a vivere per invidia dell’esistenza fisica, pretendendo dai vivi qualche riscatto da una sofferenza, la riparazione di un torto o semplicemente l’attivazione di un ricordo affettuoso.

In genere i defunti riappaiono nei posti in cui è avvenuto il loro decesso, a volte violento, comunque ingiusto: sul luogo dell’incidente, o nelle case in cui hanno sofferto, per vendicarsi o per tormentare i sopravvissuti. In alcune feste paganeggianti, ma sdoganate dalla cultura contemporanea come Halloween, i trapassati ritrovano una loro innocenza e innocuità nel rapporto con il mondo infantile, e si relazionano a noi nello scambio di doni che li disarma da ogni intenzione malvagia.

La tradizione occidentale cristiana ha ostracizzato queste credenze come superstizioni, denunciando qualsiasi pratica spiritica come illecita e peccaminosa, e santificando il culto dei morti con celebrazioni purificatorie, che di fatto li allontanano dai viventi in un oltre-mondo in attesa della loro resurrezione. Il pensiero moderno si confronta con la morte per lo più escludendola dal proprio orizzonte, rifiutandosi di pensare il non pensabile poiché non sperimentabile dall’io nel suo presente attuale e concreto. “Esiste solo la morte dell’altro in quanto questi ci viene a mancare, mai la mia”, che rimane sempre immaginata, proiettata nel futuro, non reale. Di questo paradosso si sono occupati filosofi, scrittori, psicanalisti: Freud, Nietzsche, Heidegger, Sartre, tra i tanti. Eppure la nostra inevitabile fine ci è sempre presente, nonostante tentiamo di rimuoverla. È presente nel nostro modo di elaborare il lutto e di rendere onore agli scomparsi, nell’accanimento terapeutico con cui speriamo di prolungare l’esistenza ai malati terminali, nel desiderio di assicurarci una sopravvivenza o addirittura l’immortalità attraverso i figli o le opere, nella fede illusoria nel sovrannaturale.

Se il pensiero filosofico novecentesco è in generale ateo, nichilista, razionale, bio-centrico, indirizzato all’esaltazione vitalistica della soggettività desiderante individuale, nei comportamenti sociali ci si abbandona invece a credenze, false dottrine, fantasie terrorizzanti. Aspiriamo a recuperare il rapporto con i defunti perché essi rappresentano il prima e il dopo di noi, ciò che non siamo, siamo stati o saremo, ciò che non possediamo più e che ci trascende. I morti simboleggiano “il diverso” per eccellenza, l’alterità a cui demandiamo le nostre paure e le nostre illusioni, proiettando in loro l’angoscia di non riuscire a soddisfare i nostri desideri, quasi fossimo anche noi spettri inconsapevoli e redivivi.

Secondo Sergio Benvenuto, siamo spinti a volere/temere che i sepolti risorgano (magari nelle sembianze di spirito, fantasma, zombie) per esaudire il loro e il nostro desiderio di continuare a esistere nella realtà, partecipando alla vita per poterne godere, senza essere costretti a rinunciare a gioie e gratificazioni che non si è mai rassegnati a perdere.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 2 agosto 2020

 

RECENSIONI

BENVENUTO

SERGIO BENVENUTO, LO JETTATORE  MIMESIS, MILANO 2011

Sergio Benvenuto (Napoli, 1948), docente universitario, filosofo e psicanalista, con Lo jettatore ha dedicato un pamphlet a una figura protagonista, nei secoli e in varie latitudini, non solo di leggende popolari e luoghi comuni, ma anche di una fiorente letteratura, di consumo e accademica.

Sospeso tra ironia e scetticismo, tra sconforto e sarcasmo, l’autore ripercorre storia e diffusione della più drammatica tra le costruzioni della superstizione, forse quella più pericolosa e distruttiva per chi ne è vittima, la più screditante per chi ne è l’autore e diffusore. “Non è vero ma ci credo”, si dice, evidenziando quanto sia diffusa la propensione a cedere all’irrazionalità, a timori infondati, a suggestioni manipolatrici che si trasmettono capillarmente, come la convinzione che esistano persone (…e oggetti, numeri, colori, opere letterarie o musicali) che con il loro solo esistere portano male.

Ci hanno fermamente creduto artisti, politici e intellettuali (da Mussolini a Togliatti, da Bellini a Rossini), che spesso hanno preso a bersaglio della loro superstizione colleghi di cui temevano la concorrenza o una superiore competenza professionale. Allo jettatore si attribuiscono tratti diabolici o mortiferi per il suo atteggiamento serioso e compito, o per il titolo di qualche sua produzione artistica: non va confuso con chi getta il malocchio, o manda maledizioni, o pratica la magia nera. Non patisce, infatti, il rancore astioso di chi desidera ciò che appartiene ad altri, né compie malvagità. Secondo l’antropologo Ernesto De Martino “la jettatura è dominata da personaggi prevalentemente maschili, e molto spesso da rappresentanti del ceto colto e da pubblici ufficiali, da professori, letterati, medici, avvocati e magistrati”. Costoro, essendo in genere grigi nel vestire, noiosi e troppo critici nei discorsi, segnati da una “rottura” nell’animo o nel corpo, dalla “marca” di una malinconica riflessività, infastidiscono o preoccupano le persone più gioiose e superficiali semplicemente con la loro apparizione.

Nella sua indagine storica sulla jettatura, l’autore ci ragguaglia su questa credenza nata e propagatasi a macchia d’olio nel ’700 soprattutto a Napoli (’o schiattamuorto, – il becchino – viene definito chi gode di questa funerea nomea) ad opera del giurista Nicola Valletta, illuminista colto e razionale, che nel 1787 pubblicò il saggio Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, dando avvio a una serie di studi pro e contro tale fenomeno. Valletta dava addirittura una descrizione fisica dello jettatore: “magro e pallido, il naso ricurvo, occhi grandi che hanno qualcosa di quelli del rospo, e ch’egli di solito copre, per dissimularli, con un paio di occhiali”, singolarmente molto somigliante al proprio ritratto, per cui il suo lavoro e la sua persona divennero immediatamente sinonimo di menagramo (cosa che speriamo non succeda anche a Sergio Benvenuto, che dalle foto rinvenibili su internet non risulta particolarmente solare…).

Benvenuto sottolinea che la sua città natale, culla della tradizione noir, possiede tuttora due caratteri divergenti: “Queste due antitetiche vocazioni dei napoletani, una al rigore logico e l’altra a una sontuosa irrazionalità, invece di entrare in tensione come incompatibili, spesso si amalgamano: il napoletano è a un tempo campione di disincanto talvolta anche cinico, e preda facile di tutto ciò che brilla con la fatua seduzione dell’esoterico e del magico”.

Realtà e immaginazione, bene e male si confondono nelle azioni e nella persona stessa dello jettatore, caricato della funzione di capro espiatorio su cui si concentra la pressione invidiosa della collettività, che lo configura come il reo da evitare per salvare se stessa da sentimenti negativi.

I riti messi in campo per allontanare scalogna e disgrazie sono per lo più gestuali: dalle corna a vari intrecci di dita, dalla palpazione dei genitali allo strofinamento di oggetti portafortuna. Nella nostra modernissima e iper-tecnica epoca, sopravvivono ampie zone di oscurantismo, ignoranza, rifiuto della scienza, che tendono a moltiplicare ideologie oscurantiste, fideistiche e misticheggianti: dalla New Age all’astrologia e alla parapsicologia, nel cui terreno possono facilmente attecchire fake news, psicosi generalizzate, condotte scaramantiche.

“Superstizione e occultismo sono trasgressioni cognitive” che attraggono gli insofferenti nei confronti di chi ha potere, cultura, autorevolezza: esse contestano la razionalità dominante, sia religiosa che scientifica, rafforzando credenze arcaiche e biasimevoli, e sbeffeggiando ragione, scienza, tecnologia come presuntuosi prodotti e arroganti creazioni di infelicità e malasorte.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 3 agosto 2020

 

RECENSIONI

BENZONI

FERRUCCIO BENZONI, CON LA MIA SETE INTATTA. TUTTE LE POESIE – Marcos y Marcos, Milano 2020

Marcos y Marcos ha da poco pubblicato in un unico volume organico tutte le poesie di Ferruccio Benzoni (Cesenatico, 1947-1997). Benzoni è stato una figura marginale, benché rilevante, nella storia della nostra letteratura novecentesca: non tanto per la qualità o quantità della sua produzione in versi, quanto invece per la sua irriducibilità caratteriale alle mode prevalenti in ambito letterario. Nato e vissuto nella provincia romagnola, da essa non riuscì mai ad affrancarsi completamente, nonostante gli anni universitari vissuti a Bologna, e animati da un attivo e fervente impegno politico nella FGCI. In uno dei primi componimenti, aveva definito profeticamente la propria stanzialità esistenziale: “Qui ho vissuto e un male d’ombre ha attecchito / qui devo finire con la mia sete intatta”.

Nella sua Cesenatico, con un gruppo di amici appassionati di poesia (“i fratellini”, come si definivano tra loro), aveva fondato una rivista semi-clandestina, “volutamente alla macchia”, Sul Porto, che a dispetto delle previsioni si rivelò presto nucleo di aggregazione e di discussione, proponendo a un pubblico sempre più ampio poeti di calibro nazionale come Pasolini, Fortini, Raboni, Giudici, Sereni. “La provincia può ancora essere una frontiera dove farsi pionieri di idee e contributi autentici e originali”, orgogliosamente dichiaravano questi giovani, che avevano fatto della poesia una ragione di vita, di incontro e scontro culturale, allargando i loro confini di intervento anche alle arti e al cinema. L’esperienza vitalizzante della rivista si concluse dopo un decennio, nel 1983, e per Benzoni iniziarono anni di delusione e prostrazione, che lo spinsero nel tunnel della dipendenza alcolica, di cui diede testimonianza nella raccolta Sguardo dalla finestra d’inverno, uscita nel 1998: “Furono il mio lager / tanto che venutone fuori (dimesso) / d’ogni cosa ebbi paura: / tornare tra la folla che si urta, le ombre surrogare nella mia. // … Notti e giorni al riparo dall’esistere”.

La sua biografia giovanile fu segnata profondamente nel 1967 dalla morte della madre, cui dedicò versi struggenti, che nella prima sezione del volume, Canzoniere infimo, vengono marchiati dal reiterato proporsi del termine “figlio”, legittimato pure all’interno di relazioni sentimentali diverse (“È insistente il mio chiedere, terribile: arte di figlio”, “nient’altro che vaghezza o / un’ossessione di figlio”, “Dunque sono solo un figlio, enfatica radice”, “per te anche / fui figlio: m’hai dato amore in cambio / di stranezza”, “a puntar spilli alle veglie io solo fui figlio”). Il richiamo alla pasoliniana Supplica a mia madre riecheggia evidente nella struttura formale di alcuni versi (“Devo dire che non l’acqua mi manca / o il pane o il letto dove sfinirsi. // … Ho voglia di cose disamorate e vive // … È dentro il tuo viso che nasce la devozione / della mia solitudine”). E a Pasolini viene riservato l’omaggio di altre citazioni poetiche e filmiche. I debiti che il primo Benzoni riconosce alla poesia italiana del secondo ’900 sono riscontrabili nella preziosità lessicale e in numerosi incipit montaliani, nei versi a gradino e nelle titubanti interrogazioni di Caproni, nella oggettiva discorsività sereniana (Vittorio Sereni fu per lui faro intellettuale e guida paterna), nell’esibita intenzionalità comunicativa di un “tu” a cui appellarsi (un tu con “valore individuale e insieme universale”, come giustamente sottolinea Massimo Raffaeli nella prefazione).

All’interno della produzione più matura, si emancipa invece dalle eredità letterarie del nostro dopoguerra, trovando una voce più decisamente sua, meno affabilmente espansiva e talvolta addirittura criptica, in uno stile più asciutto e nervoso, in una sintassi franta e complessa, in scelte formali innovative che introducono frequenti neologismi, anastrofi, paronomasie, allitterazioni (“affettata (ammetto) sfiatata / se spiove”, “Precipitando allucciolava”, “Libecciate petulanti lune”, “una luce una lucina latitava // … mi disfaceva in uno sfacelo”, “le stanghette / di similoro spettrali / per stornarti”, “in una gibigianna di / chiatte chete, bacilli, balsami”, “T’avviluppi, t’accartocci”, “e slogato snodato”, “aggallare all’alba”, ecc.). E poi l’uso frequentissimo di parentetiche e di gerundi che rimandano a un discorso sempre sospeso, volutamente aperto a soluzioni parimenti temute o sperate.

Tuttavia, ciò che più caratterizza la poetica benzoniana non sono tanto i requisiti stilistici, quanto il tono di assoluta e pudica discrezione, di rassegnata malinconia, di pacata umiltà con cui si rapporta all’esistere: cifre di un consapevole e desiderato appartarsi dal brusio confuso del mondo. Francesco Scarabicchi ne intuisce con sensibile acutezza il tratto distintivo nel risvolto di copertina: “La sua poesia era ed è il passo notturno delle ‘musiche’ di attesa e stupore, d’una arresa triste dolcezza che guarda e ascolta il quotidiano andarsene del giorno”. Poesia domestica, comunque, perché proprio nella tenerezza dei rapporti familiari e quotidiani riesce a recuperare un legame con il brulicante tepore dei rapporti umani. La mamma (“mia madre, esile filo di vita sfiorente. Ischeletrita, / arresi e grigi i capelli senza tintura, le dita / agitava ai saluti”). La zia (“Non sono per lei / un ragazzo per bene: sto fuori la notte, non rincaserei mai. //… Io la amo e fossi buono a pregare / per lei pregherei, per la poca vita di scricciolo”). La bambina che appare imprevedibile, improvviso miraggio, rimpianto di una paternità negata (“Mia figlia potrebbe essere avessi avuto cuore / allora”, “selvaggia figurina”, “una bambina cui aggiustare berretto e sciarpa”). La cagnetta Orazio (“Abituata al canile / randagia / sgranavi gli occhi ai rimbrotti / o li strizzavi / sciagurati e dolenti / timidissimamente / più che potevi / da farmi male”). Gli amori giovanili (“Ah, i tuoi capelli e come viziata li trascuri / ridendo degli specchi piccola strega e ridendo / come sai bene che a sfiorarli morirei”). La moglie Ilse, musa protettrice (“Nel verde dei suoi occhi aguzzi / riarde un mio futuro / di metrica e di vita”). Un universo tutto femminile cui aggrapparsi per continuare a sopravvivere nel confortante e banale dipanarsi dei giorni.

Nonostante il bene e il bello intravisto e riconosciuto, lo smarrirsi nel proprio inarrestabile dolore, la volontaria clausura entro confini avvertiti come invalicabili, in un continuo “deragliamento dalla vita”, è in questo poeta un lento, progressivo e inarrestabile avvicinarsi alla morte: “Ma resto solo / e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo: / fossero viole le voci, sarei di primavera! / M’allontano invece, deraglio dalla vita”, “Verrà un crepacuore d’inverno”, “Cosa c’è tra questo paese e me / (tra questo involucro) / che tacitato infine non sia / confinato dentro un cortile. / Immagine io stesso di una camera / (piccola morgue di febbricole) / chiusa dal di dentro. / Invece d’un vetro una crepa – stucco / sui ragnateli dell’intonaco. / Ma l’anima costipata tossisce, / specie di notte, non so se d’amore”, “Riconosco – è mio – il dolore: gli faccio festa / neanche fosse un cane battuto”, “Ne morivo mia anima che accorrevi / ai brani di una giovanezza a pezzi”. Con l’angosciante certezza che “non esiste grazia senza l’orrore”, Ferruccio Benzoni ci ha lasciato una delicata e sofferta testimonianza poetica, timorosa di qualsiasi stentorea e invadente sonorità: “Torna alto il silenzio. S’invola”.

Al suo silenzio, raggiunto a soli cinquant’anni, rende omaggio questo volume curato con filologica perizia da Dario Bertini.

 

© Riproduzione riservata                «Nazione Indiana», 20 aprile 2020

RECENSIONI

BERARDI

FRANCO BERARDI (Bifo), RESPIRARE. CAOS E POESIA – LUCA SOSSELLA EDITORE – BOLOGNA 2019

Franco Berardi, più conosciuto come Bifo (Bologna, 1949), saggistafilosofo e agitatore culturale, è stato protagonista della rivoluzione studentesca, operaia e alternativa che dal  ’68  si è protratta fino al movimento del ’77. Militante di Potere Operaio, fondatore dell’emittente libera Radio Alice e di numerose riviste di opposizione, ha vissuto per molti anni all’estero (soprattutto a Parigi e in California), e oggi, tornato a Bologna, si occupa prevalentemente di didattica e del rapporto tra movimenti sociali e nuove tecnologie di comunicazione.

Contro il lavoro è stato il suo primo libro, uscito nel 1970 da Feltrinelli: da allora ha continuato a impegnarsi culturalmente per la riduzione al minimo del lavoro salariato, per il pieno sviluppo dell’automazione, per un ampio incremento del tempo libero, della cura solidale, dell’arte.  La pubblicazione più recente, Respirare. Caos e poesia, edita da Luca Sossella, risulta piuttosto anomala nella sua produzione. In essa infatti si demanda alla creazione poetica la funzione di riscatto e liberazione una volta affidata alla lotta di classe.

Partendo dall’emozione suscitatagli dalle ultime parole pronunciate dall’afro-americano Eric Garner (“I can’t breathe”, non riesco a respirare), mentre un poliziotto nel 2014 gli stringeva la gola fino a strozzarlo ‒ parole ripetute poi per mesi da migliaia di dimostranti americani ‒, l’autore attribuisce a quel grido di protesta una indubbia pregnanza contestativa contro il soffocamento esercitato dal potere economico, politico e ideologico a livello mondiale. Uomini e donne che non riescono più a respirare (a causa dell’inquinamento globale, dello sfruttamento lavorativo, della precarietà occupazionale, della ferocia delle guerre, della persecuzione razziale, delle troppe ingiustizie sociali) in che modo possono riprendere coraggio e speranza, dirigendo autonomamente la propria esistenza verso l’indipendenza e la felicità, individuale e collettiva? Quale può essere, oggi, il soffio vitale che ridia fiato a un’umanità sull’orlo dell’apocalisse, invasa da “flussi di infelicità e di violenza”, in cui “la scena sociale si oscura progressivamente, declinando verso il buio della demenza”?

Se nel 1977 si urlava “la fantasia al potere”, anche oggi per Bifo deve rimanere intatto il desiderio utopico di una creatività redimente, sprigionante energia e gioia. L’unica terapia salvifica non è politica, né va cercata nel progresso tecnologico o economico: soltanto la poesia può creare frizione nella regolarità meccanica della storia, ribellione contro il tecnicismo e la funzionalità produttiva.

Il ritmo poetico “è la vibrazione più intima del cosmo, e la poesia è un tentativo di sintonizzarsi con la vibrazione cosmica, con la vibrazione del tempo che viene e ritorna”: un mantra capace di suscitare immagini, colori, suoni, caos, e ‒ appunto ‒ respiro. “La poesia è l’eccezione che rompe il limite e che sfugge alla misura… è la rivelazione di una sfera di esperienza possibile ma non ancora esperita”: lavorando con l’inconscio e l’indicibile, è per sua natura eccessiva e irriducibile al senso comune. Essa sa farsi grimaldello scardinante l’ordine delle convenzioni sociali, del linguaggio scontato e prevedibile dei rapporti di interesse, poiché promette gratuità, amicizia, invenzione, ricerca, libertà.

Secondo Berardi, è stato Friedrich Hölderlin (poeta quanto mai raffinato ed elitario, chiuso in una torre che lo escludeva dal mondo, prigioniero della sua stessa follia) colui che ha saputo opporre la logica della poesia alla logica del concetto. Lo stesso Hölderlin che scriveva “Bisogna abitare poeticamente la terra…”, nelle sue liriche era così allusivamente criptico che nemmeno Heidegger, in lunghi anni di esegesi critica, riuscì a sviscerarne completamente la molteplicità riverberante dei significati (mi pare arduo però attribuirgli la valenza destabilizzante di un Rimbaud o di Baudelaire…),

Comunque, la poesia apre varchi, sempre. Schiude un “orizzonte di possibilità”, indicando una luminosa linea di fuga cui si oppongono (sempre!) gli ancoraggi brutali e asfissianti del reale. Franco Berardi ripercorre, con intelligenza e ironia, la storia culturale dell’umanità, nelle sue varie ramificazioni disciplinari – letteratura, lingua, musica, religione, scienza, filosofia ‒ sottolineando come tutte siano fondate sulla istituzione di limiti performanti e produttivi, di codici da rispettare. Solo l’immaginazione poetica può riuscire ad abbattere i muri costruiti da ogni ideologia di potere, permettendoci di tornare a respirare. Un compito gravoso, quello affidato alla più negletta delle arti: poco riconosciuta, per nulla ricompensata, pragmaticamente inutile. Ma generatrice di domande e desideri non appiattiti su un presente da amministrare, aperti invece al sogno e alla creatività.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Respirare-Caos-e-poesia-Berardi.html        28 novembre 2019

 

RECENSIONI

BERARDINELLI

ALFONSO BERARDINELLI, IL CRITICO SENZA MESTIERE – MONDADORI, MILANO 1983

I saggi di letteratura che Alfonso Berardinelli pubblica da una decina d’anni (preferibilmente su Quaderni Piacentini) e che ora ha raccolto in volume, sembrano riconducibili a una unico denominatore nello stile e nella sostanza. Lo stile, secco e netto fino alla lapidarietà, nasce da un’impazienza che invano cerca di attutire con l’ironia e il sarcasmo l’indignazione in cui spesso si condensa. La tesi che viene ribadita anche violentemente in tutto il volume fa del suo autore un isolato e lo esporrà probabilmente alle reazioni di chi da questa tesi si sentirà offeso: la critica accademica e un certo snobismo intellettuale del pubblico di sinistra. Berardinelli afferma che letteratura e critica sono state suicidate (per dirla con un’espressione in voga 15 anni fa) da chi le pratica professionalmente, e che possono essere resuscitate – loro malgrado – solo da chi ne fruisce non professionalmente: dall’ «attenzione disinteressata» del lettore «anarchico» di cui parla Enzensberger, o dal critico senza mestiere, quello che non concede nulla né all’ipercriticismo degli accademici, né alla chiacchiera gergale del giornalismo. Il critico-nuovo, auspicato da Berardinelli, deve recuperare una solidarietà con il lettore-nuovo che, oggi, è schiacciato tra l’efficientismo illuministico degli scienziati del testo (semiologi, psicanalisti, ecc.) e il fagocitante misticismo degli autori titanici, esoterici, edonisti. A incarnare questi due aspetti totalizzanti e totalitari della letteratura odierna, si ergono due simboli molto amati dalla sinistra del nostro paese: Umberto Eco e David Cooper, «l’esperto e il santone», che «dandoci troppo e troppo poco, dimostrano di funzionare entrambi come agenti della consolazione e gestori della frustrazione…celebrano l’ennesima metamorfosi dell’ideologia tardoborghese in cui anneghiamo».

Esperti e santoni, che sembrano vincere sia nelle università sia nei mass-media, in realtà soffocano il piacere della «lettura come esperienza», «azzerano la letteratura in quanto insieme di opere complesse con le quali autenticamente misurarsi», disorientano il pubblico. A un esemplare di questo pubblico disorientato e deluso, pieno di entusiasmi ma castrato nelle aspirazioni, Berardinelli presta la sua voce: AZ, «estremista moderato», lettore onnivoro e critico non ortodosso, è il protagonista del saggio più originale del volume (Vie d’uscita. Ovvero: le disavventure di un lettore). Rimasto legato a una visione sessantottesca del prodotto culturale, AZ non ama troppo indagare nelle pieghe del testo (altri lo fanno con maggiore sapienza, guastandogli alla fine il piacere di leggere), ma tende a recuperare in esso il valore (o disvalore) politico. Sentendo il bisogno di un «punto di vista, di una serie di affermazioni credibili e coerenti», AZ si immerge nella lettura di alcuni best-seller, di autori molto stimati dalla intellighenzia nostrana, e ne ricava un’impressione insieme tragicamente e comicamente negativa: assumendo i panni dell’ingenuo che si fida soprattutto del suo buon senso, AZ fa crollare il palco su cui erano stati issati a forza i campioni della nuova scrittura: Handke «aggraziata benché lugubre silhouette»; gli specialisti della crisi (Cacciari e Rella); asburgici che hanno fatto di Vienna «l’ombelico estetico-filosofico del mondo»; il teologo di sinistra Baget Bozzo, che «annuncia con un paio di ambigue formule l’avvento di una mistica post-moderna, non molto impegnativa e faticosa»; Arbasino, scrittore itinerante, in cui «c’è una monotonia dell’iperbole, un muoversi sempre allo stesso ritmo, alla stessa velocità, senza mai cambiare marcia alla sintassi, senza mai una pausa, un momento di meraviglia o di dubbio, una tentazione di sedersi». La riduzione di questi autori alla loro effettiva rilevanza, ha il grosso merito di far sentire meno solo chi, leggendoli, aveva dubitato del loro spessore, senza avere tuttavia il coraggio di prendere le distanze dal coro degli osanna della critica che fa opinione (L’Espresso, Alfabeta, Il Manifesto), pena l’essere segnato a dito come qualunquista, o peggio, come reazionario. Berardinelli, che da quel coro è uscito, cita altri nomi cui s’è dato troppo credito: Beckett, Borges, Barthes, Blanchot: «La sopravvalutazione ormai canonica di tali scrittori appartiene alla recente istituzionalizzazione di un estremismo letterario di superficie che esalta sterilità e tautologia: il contenuto storico ed empirico evapora, risolvendosi in labirinto metafisico e in autofagocitazione del soggetto nell’atto della scrittura».

Due sono gli esempi di buona letteratura che Berardinelli scorge nel panorama delle patrie lettere, e di questi esempi fa due bandiere: Volponi e Giudici, non abbastanza considerati e apprezzati dal pubblico e dalla critica. Giudici, soprattutto, che costituisce «l’episodio più imponente di realismo poetico dell’intero dopoguerra», si ritrova stretto tra le due tendenze già individuate nella critica e ben consolidate anche nella poetica degli ultimi anni: da una parte i mistici del verbo, gli innamorati della parola, dall’altra i tecnici della dissoluzione del senso e i soloni del materialismo in versi. Giudici viene letto con condiscendenza da chi non gli sopravviverà nemmeno collettivamente. Berardinelli giustamente ne fa un simbolo, ridimensionando al suo cospetto quei nuovi poeti che, in un saggio del ’75, aveva considerato con eccessiva attenzione.
Anche gli altri saggi del volume, del tutto alieni dall’imperturbabile diplomazia che veste l’omogeneizzata critica contemporanea, sembrano vantare la loro evidente umoralità, le loro espresse idiosincrasie: la polemica contro la teoria letteraria è il leit motiv di tutti. Ed è una guerra senza risparmio di colpi, ricca di provocazioni, di scherno, di rabbia: le argomentazioni più incisive sono condensate in  Chirurgia estetica, ove si accenna pure a un’ipotesi che andrebbe sviluppata: la necessità di una critica didattica e di un uso anche pedagogico della letteratura (Berardinelli ha pubblicato, ed è bene ricordarlo, un libro di versi dal titolo emblematico Lezione all’aperto). Proprio lo stile, più che i contenuti, risulta irrispettoso dei miti e irriverente ai riti della cultura odierna, a come a AZ veniva imputato «il modo in cui le cose sono dette», a Berardinelli verrà rinfacciata la forma più della sostanza, e i suoi più evidenti pregi potranno essere ribaltati in difetti. In primi luogo, la leggibilità, in un momento in cui fumosità, sentenziosità oracolare, allusività, sono segni riconoscibilissimi di appartenenza a una casta: da quanto non leggevamo critica letteraria divertendoci (addirittura!), e senza dover analizzare periodo per periodo più volte, nel timore di aver frainteso? Inoltre, la violenza dei j’accuse, la trasparenza degli obiettivi, l’assolutezza utopistica dei fini da raggiungere potranno calamitarsi addosso l’accusa di moralismo, mentre questo loro sguardo vasto e non mortificato da settorialismi scientifici, iroso e non condiscendente, dovrebbe riportare alla mente altri critici “totali”, che non limitavano la loro indagine alla letteratura, ma spaziavano su cultura, società, politica: Pasolini e Fortini. Con una differenza fondamentale, però: che la severità luterana, tutta nordica di quelli assume una qualche presunzione da primi della classe, là dove il feroce sarcasmo romano di Berardinelli, portandosi dietro «il suo mondo, le sue esperienze» tende a farsi portavoce di un pubblico più vasto, di una generazione che è stata sconfitta politicamente, sì, ma rimane tuttora irriducibile a schemi.

«abiti-lavoro» n. 7/8, 1984

RECENSIONI

BERARDINELLI

ALFONSO BERARDINELLI, CHE INTELLETTUALE SEI? – NOTTETEMPO, ROMA 2011

Alfonso Berardinelli raccoglie in questo libriccino sei brevi saggi pubblicati negli ultimi anni su riviste e quotidiani diversi: tutti accomunati da uno stile vivace e coinvolgente, e dalla stessa, vibrante vis polemica che da sempre caratterizza gli scritti di questo autore. Vis polemica e risentita, orgogliosa di una propria sottolineata originalità rispetto ai più diffusi e ammorbiditi canoni di critica letteraria attualmente imperanti nell’editoria e nel mondo accademico.
Chi sono, quindi, gli intellettuali, oggi, secondo Berardinelli? «Sono un’ampia e varia categoria di professionisti o di artisti del pensare e del sapere…Una categoria di individualisti…Un gruppo a se stante, non molto simpatico perché presume di avere il monopolio del sapere, del pensare, del capire…» che può farsi perdonare solo «se contribuisce al miglioramento della vita sociale, solo se mette in comune almeno una parte del privilegio che ha».

Ma rispetto a queste definizioni, generose forse perché abbastanza generiche, ecco che l’aculeus dell’autore si fa subito più pungente quando arriva a distinguere tre tipi di intellettuali: il Metafisico, il Tecnico, il Critico. Le due prime categorie escono malconce, e giustamente, da questa analisi, che invece si fa più indulgente verso la terza: «I Critici sono e si riconoscono individui a disagio, senza potere…Inclassificabili singoli, e la loro vulnerabile forza è in questo».

Servono, al mondo, gli intellettuali, i filosofi, gli artisti? «Non diversamente dalla poesia, la critica non fa succedere niente. Non cambia il mondo. Ne fa parte». Eppure, i nomi eccellenti, che salvano l’esistenza e la cultura, ci sono, e vengono a più riprese sottolineati: Kierkegaard, Baudelaire, Kraus, Canetti, Montale, Weil, Pasolini…Solitari ed eccelsi, indispensabili. Di cui nel saggio più importante di questo importante piccolo libro, Misantropia e critica sociale, si esalta e difende l’insostituibile funzione morale.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Che-intellettuale-sei-Alfonso.html     11 gennaio 2016

 

RECENSIONI

BERARDINELLI

ALFONSO BERARDINELLI, AFORISMI ANACRONISMI – NOTTETEMPO, ROMA 2015

Recentemente, Il Saggiatore ha pubblicato due corposi volumi (Giornalismo culturale e Un secolo dentro l’altro) in cui sono raccolti gli articoli, le recensioni e i commenti politici che Alfonso Berardinelli (Roma, 1943) ha pubblicato su varie testate giornalistiche negli ultimi vent’anni. Un omaggio a uno dei più lucidi e combattivi intellettuali italiani, che oltre a collaborare con Avvenire, Il Foglio, Il Sole 24 Ore, ha firmato importanti volumi di critica letteraria e pamphlet pungenti e provocatori, come Che intellettuale sei?, Leggere è un rischio e questo Aforismi Anacronismi, nella collana Sassi nello stagno (nomen omen!) della casa editrice romana Nottetempo.

Il volumetto si divide in due sezioni, ciascuna delle quali è dedicata alla definizione dei termini riportati nel titolo. Nella nota iniziale dell’editore leggiamo un encomio dell’aforisma, che sa “dire qualcosa di vero e di complicato con il minor numero di parole”, garantendo “il massimo di densità, e a volte di crudeltà necessaria a rendere più respirabile un clima culturale”.

Berardinelli celebra l’ubiquità, versatilità e maneggevolezza dell’aforisma, atomo di pensiero presente già nella letteratura mondiale più antica: dalle Upanishad ai sutra buddisti e yoghici, dai libri sapienziali della Bibbia al Corpus Hippocraticum, fino alle raccolte di massime, appunti e riflessioni di epoca moderna e contemporanea (La Rochefoucauld, Montaigne, Goethe, Pascal, Novalis, Leopardi, Baudelaire, Kierkegaard, Valéry, Kafka, Scott Fitzgerald, Brecht, Weil, Camus, Adorno, Wittgenstein, Benjamin, Auden…).

L’aforisma erompe nella mente di chi scrive come un’intuizione improvvisa, una vera e propria illuminazione, che non necessita di essere rielaborata, non richiede pazienza di lettura, né particolari capacità di concentrazione o penetrazione, alterna divagazione e concisione, discorso pubblico, formulazione conclusiva o definizione provocatoria, mostrandosi nella sua economica icasticità instancabilmente vario, arguto, intenso. Si presta ad essere accolto in antologie e collezioni di detti memorabili, poiché privilegia argomenti di facile richiamo: l’introspezione personale, la vita sociale, gli accadimenti naturali, l’insegnamento moraleggiante. “Ha un’elementare utilità pedagogica, didattica, mnemotecnica. Il suo scopo oscilla tra il far conoscere, il far agire e il far ridere”.

Berardinelli elenca sentenze, proverbi, incipit di romanzi e versi citati universalmente (da Carpe diem a Panta rhei a To be or not to be), che hanno una funzione rassicurante, esplicativa e compartecipe verso chi li pronuncia e chi li ascolta. Il più famoso aforista del ‘900? Ovviamente lo spietato Karl Kraus, che anche oggi continua a divertire e scandalizzare. I più importanti libri introduttivi alla forma aforistica? Due antologie Garzanti uscite all’inizio degli anni sessanta, I moralisti moderni (a cura di Alberto Moravia ed Elémire Zolla) e I moralisti classici (a cura di Giovanni Macchia).

Berardinelli sottolinea la propria dedizione all’aforisma, sia nella produzione saggistica sia negli interventi sull’attualità, al punto da aver fondato negli anni ’80 con Piergiorgio Bellocchio la “rivista personale” Diario, scritta con uno stile che appunto alla satira, all’autobiografica, all’essenzialità di questo genere letterario faceva riferimento.

Nella seconda parte del pamphlet è l’anacronismo a essere indagato nel suo rapporto con il tempo stabilito – in funzione della società e degli altri -, e con il tempo necessario – dovuto a noi stessi e alle cose che facciamo. Va contemplato il diritto a essere anacronistici, ad andare fuori tempo e contro tempo, come sfida alla contemporaneità e ai dispotismi del presente. Quante realtà culturali, scientifiche, artistiche, letterarie, considerate eterne e imprescindibili in passato, oggi risultano obsolete, risibili, sbugiardabili, e quante ritornano improvvisamente di moda, spiazzando ideologie, gusti e previsioni, ricreando correnti di pensiero e fazioni contrapposte! È davvero necessario sincronizzarsi con il proprio tempo, “être absolument moderne”, come scriveva Rimbaud, vivere aderendo al presente per comprendere il mondo, e il proprio rapporto con la collettività? Bisogna necessariamente adeguarsi a ciò che l’epoca vuole? Il presente non è mai univoco, è fatto di eredità passate e di proiezioni nel futuro, e che il futuro sia migliore del momento attuale rimane un’opinabile utopia, nonostante il predominio assoluto della tecnologia in ogni campo del sapere.

“La tendenza all’anacronismo aumenta in chiunque non si adatti o non voglia adattarsi” alla tirannia della contemporaneità, ai suoi miti e alle sue pretese di efficienza, razionalità, progresso. L’illusione di essere liberi diventa spesso constatazione del proprio asservimento a un destino prestabilito da altri, non necessariamente generosi e disinteressati nei nostri confronti. Quindi, un brindisi all’aforisma e all’anacronismo, che mantengono qualche originalità rispetto alle convenzioni generali.

 

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SoloLibri.net › Aforismi anacronismi di Alfonso Berardinelli       8 maggio 2023

RECENSIONI

BERBEROVA

NINA BERBEROVA, ALLEVIARE LA SORTE ‒ FELTRINELLI, MILANO 2019

«I piedi elastici fanno presa sul selciato. Cammina nel buio delle strade, nell’oscurità della città, verso il sonno pesante degli Astašev, per andare fresco e riposato, il mattino dopo dall’aviatore, in banlieu, nel sole, nel vento, con la bombetta pulita, più avanti, sempre più avanti, col suo passo fermo, agile, cittadino, contribuente, consumatore (ma non soldato!), oltre la gente, oltre le frontiere, con un povero passaporto in una tasca, la penna stilografica nell’altra, cammina nella nebbia, nell’afa, sotto la pioggerella grigia, unò-dué, sinist, sinist, scivolando come un’ombra su tutto quello che incontra, offrendo sigarette, alludendo, rammentando, inchinandosi fino a terra, lasciando la sua traccia, più avanti, sempre più avanti, all’infinito, ormai un poco fiacco, un poco stempiato, con un dente d’oro nel largo sorriso, il respiro più pesante, facendo tremolare le pallide guance grassocce da bambino, per le scale, per i vicoli, per le strade dove sfreccia un’automobile, per i binari dove passa il treno, ancora, ancora, oltre il cimitero, le donne, i monumenti, i tramonti».

«Mia sorella si chiamava Ariadna. Avevo nove anni quell’anno indimenticabile, di neve, di fame, in cui lei finì la scuola e divenne adulta e, da che quello stesso anno in una clinica fredda e vuota di Pietroburgo morì mia madre, in soli due mesi tutta la nostra vita cambiò e cambiammo noi stesse».

Quelli qui riportati sono rispettivamente le frasi finali e iniziali di due splendidi racconti di Nina Berberova, Alleviare la sorte e Pianto, pubblicati nella collana Universale Economica Feltrinelli nel 2004. I protagonisti delle due novelle sono accomunati dallo stesso implacabile e avverso destino, anche se affrontato con indole ed esiti differenti.

Alësa Astašev è un giovane pietroburghese che il padre avvocato ha abbandonato quando aveva dieci anni, lasciando lui e la madre nella più assoluta indigenza per unirsi a una sedicente artista, animatrice di salotti cittadini in cui imbastire affari economici e sfruttare conoscenze importanti. Il ragazzo vive l’adolescenza scisso tra le due donne, la mamen’ka povera e sdentata e la matrigna futile seduttrice che lo ospita nel suo elegante appartamento per il fine settimana: «Il sabato, dalla mammina numero due era giorno di ricevimento, in salotto gli ospiti bevevano il tè, scherzavano e spettegolavano». Occhi azzurri slavati in un viso rotondo e fanciullesco, Alësa cresce vuoto di carattere e di ideali, badando solo a sfruttare qualsiasi occasione gli sembri propizia a una riuscita professionale, o a un godimento sessuale senza scrupoli e responsabilità, odiando il comunismo livellatore del suo paese «privo di strade e abitato da un popolo che sgusciava semi di girasole e si soffiava il naso nella mano». Quando entrambe le sue madri si trasferiscono a Parigi per sfuggire allo stalinismo, Alësa Astašev ha venticinque anni, nessun lavoro ma molta ambizione e voglia di riscatto sociale. Confina la mamen’ka vera in uno squallido bilocale periferico, e frequenta il circolo di amici e amanti della matrigna, cercando appoggi per la propria affermazione personale. Progredisce economicamente procacciando alla sua società assicuratrice clienti a cui con abile e persuasiva loquacità propone polizze sulla vita: rimane tuttavia un omuncolo servile e mediocre, che nemmeno la dedizione innamorata di una ingenua ragazza, da lui sedotta e spinta al suicidio, riesce a convertire in un individuo migliore.

La sfavillante Parigi vagheggiata nei suoi sogni di esule non lo cambia e non lo salva, come non riesce a salvare la protagonista del secondo commovente racconto, la piccola Saša. La bambina vive con la sorella maggiore e il padre, impazzito dopo la morte della moglie, in un appartamento invaso da altri coinquilini in seguito alle sommosse popolari. «Quel lungo inverno del venti ci vide tutti e tre riuniti in una stessa camera, nel nostro tinello di un tempo, in mezzo al quale c’era una stufa di ferro». Improvvisamente catapultata in una vita da adulta, Saša si fa carico della sopravvivenza materiale e morale di quella «parvenza di famiglia», soprattutto dopo che l’adorata sorella Ariadna decide di lasciare la casa per andare a convivere con un attore, che la introduce nel mondo precario e velleitariamente rivoluzionario dei teatrini di provincia. «Cominciavo la mia giornata instancabile come un topo, tenace come una formica. Lavavo il pavimento, facevo la coda nei negozi, andavo a ritirare le razioni, preparavo da mangiare e lavavo la biancheria… Unico scopo della mia vita di bambina era racimolare da qualche parte qualcosa di mangiabile e portarlo a casa». Derubata dell’infanzia e di ogni suo legittimo desiderio o fantasia, non sa immaginare un’esistenza diversa dalla sua e da quella che vivono le persone intorno a lei, per cui ripone nell’idea di un trasferimento all’estero ogni speranza di sopravvivenza, di «tepore e quiete». Parigi, tuttavia, non corrisponde alle attese. Il quartiere operaio che accoglie lei e il padre malato non si differenzia granché da quello lasciato a Pietroburgo: strade sporche e buie, abitazioni fredde, bambini impauriti e vecchi lasciati soli. Saša vive anni anonimi, lavorando come stiratrice, risparmiando su tutto, rassegnata a un’esistenza priva di amori e amicizie, ma fedele all’idea che in qualche parte del mondo e del tempo possano aprirsi spiragli di bellezza e poesia, se non per lei, per altre persone con cui ha condiviso pochi attimi di felicità. «Prima avevo tredici anni, ora andavo per i trenta, ma a volte mi sembrava di essere sempre la stessa, di non avere imparato nulla, non avere studiato nulla, di non avere scoperto nulla qua, che tutto quello che avevo in me c’era già là: la conoscenza della vita, la disperazione della solitudine, i miei sentimenti segreti ed elevati, le lacrime, le idee, il coraggio tenuto di nascosto a tutti: tutto ciò lo avevo portato con me, tutto ciò mi era stato donato in Russia, ed ero rimasta così per sempre».

Nelle vicende dei protagonisti dei due racconti, Alësa e Saša, come in quelle della maggior parte dei personaggi dei suoi romanzi, emigrati russi in Francia o in America, Nina Berberova rispecchia la sua particolare vicenda umana. Figlia unica di un funzionario del Ministero delle Finanze, (San Pietroburgo, 1901 – Filadelfia, 1993), fu costretta a lasciare il paese con la sua famiglia nel 1922, in seguito alle persecuzioni sovietiche contro gli intellettuali e i quadri dell’antico regime. Dopo tribolate peregrinazioni, si stabilì a Parigi fino al 1950, quando si trasferì negli Stati Uniti, avviandosi a una carriera accademica a Yale e a Princeton. La sua storia di emigrée, comune a molti scrittori e poeti suoi compatrioti, incapaci di integrarsi nelle società occidentali e nostalgici di un passato irrecuperabile, venne da lei descritta nell’autobiografia Il corsivo è mio, pubblicata nel 1957. L’ambientazione della maggior parte dei suoi romanzi ruota principalmente intorno ai destini di cittadini russi costretti dalla violenza del potere politico a rinunciare al proprio futuro, alla famiglia e alla casa rifugiandosi in altri paesi, e vivendo perpetuamente scissi tra nostalgia e rancore, desiderio di rivalsa e rassegnazione.

Recentemente, Guanda ha ripubblicato Il caso Kravcenko, cronaca del processo per diffamazione intentato nel 1949 dall’omonimo funzionario (transfuga negli Usa e violentemente critico nei riguardi del regime sovietico) contro le accuse rivoltegli da un settimanale francese. Nina Berberova aveva seguito e raccontato l’evento come cronista, commentandone le testimonianze guidate, vessanti e persecutorie, di comunisti russi e francesi in un’atmosfera giudiziaria di bieca intolleranza, e schierandosi apertamente dalla parte dei perseguitati dallo stalinismo. Una sorte non facile, la sua, affrontata tuttavia con coraggio e spirito di indipendenza, e alleviata da una costante e felice dedizione alla scrittura, che a noi lettori di oggi risulta ancora dopo tanti anni (e grazie anche alla sensibile traduzione di Bruno Osimo), concretamente definita e nello stesso tempo armoniosamente poetica.

 

© Riproduzione riservata                             «Il Pickwick», 19 febbraio 2019