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RECENSIONI

BENJAMIN

WALTER BENJAMIN, LIBERAMI DAL TEMPO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2011

Questa selezione di 25 sonetti di Walter Benjamin fa parte dell’unica opera poetica del filosofo tedesco, composta tra il 1915 e il 1925, e rimasta manoscritta fino al 1981, per essere pubblicata poi in Italia da Einaudi. L’editrice pistoiese Via del Vento la propone nella nuova traduzione e cura di Claudia Ciardi, che così la commenta nella postfazione: “La forza lirica di Benjamin, lettore di Hoelderlin e Rilke, vi si esprime in maniera originale, pur nell’ambito della tradizione del sonetto europeo”. Si tratta di liriche composte in ricordo dell’amico poeta Christoph Friedrich Heinle, morto suicida nel 1914: una sorta di viaggio sensuale e romantico, rigorosamente inscritto nei canoni della classicità, teso al recupero di una figura amata, e immerso nelle ombre di una natura lussureggiante e partecipe, palpitante dello struggimento che deriva da qualsiasi separazione, e dal vuoto doloroso di un’assenza. Benjamin supplica l’amico in un dialogo sospeso nell’attesa di una risposta che non può più arrivare, rivolgendosi a lui con un tu implorante: “Se avessi divinato il tempo del tuo morire al mondo / la natura avanti a te nella fine sarebbe precipitata”, “se in me soltanto il tuo nome consacrato / innalzi come amen sconfinato senza icona”, “sul bordo del cammino siede/ la morte al posto tuo e io nel bosco sono / più smarrito di un cespuglio e di un albero nella notte”, “Amico mio, fu tolto a me il tuo esserci, / ti bramo come il dormiente la corona/ tra i capelli, cercandoti nelle ore scure”. L’ombra, la notte, l’angoscia della solitudine invadono l’atmosfera onirica di questi versi, sulle orme di Novalis, di Baudelaire, di Trakl: rari i raggi di sole, le radure chiare, l’aria mattutina a cui chiedere conforto e refrigerio: “Come può rallegrarmi l’irradiarsi di questo giorno / se con me non entri nei boschi…”. Ma proprio e solo nell’immersione nella natura Benjamin cerca di trovare, nella più pura delle tradizioni letterarie, conforto e rispondenza al suo dolore.

IBS, 7 settembre 2014

RECENSIONI

BENJAMIN

WALTER BENJAMIN, UN ANGELO DI NATALE – IL MELANGOLO, GENOVA 2018

Questo breve racconto di Walter Benjamin (1892-1940) è tratto dalla sua raccolta Infanzia berlinese. Le edizioni genovesi de “Il melangolo” lo ripropongono con testo tedesco a fronte, nella traduzione di Selena Pastorino. In Un angelo di Natale i temi più tipici del filosofo tedesco (la povertà, la memoria, l’evento prodigioso, l’angelo come messaggero di una realtà più nobile di quella umana) vengono rielaborati nel tono fiabesco e incantatore scaturito dall’attesa ingenua di un bambino durante la magica notte di Natale.

Cinque paginette scarse ricreano l’atmosfera sospesa e inquieta in cui la sensibilità infantile si interroga e interroga il mondo intorno a sé riguardo a un futuro aspettato e invocato, eppure anche temuto nel suo mistero. Il ricordo prende spunto dalle impressioni nate nei giorni precedenti la festività, con gli abeti decorati agli angoli delle strade, i mercatini che offrono giochi, decorazioni e leccornie ai clienti, il suono malinconico degli organetti che si diffonde in città, il profumo delle mele e del marzapane, le noci in vista sulle tavole agghindate. Insieme a questa sentimentalità imposta ed esibita per la Berlino più ricca, la fila dei poveri questuanti a cui porgere un’elemosina colpevole. Poi si affaccia nella mente l’immagine dell’albero acquistato in segreto dalla mamma e lasciato in veranda, prima di essere spostato nel salotto la sera della vigilia.

Il bambino Walter attende nell’oscurità del crepuscolo spiando le finestre delle abitazioni vicine, alcune illuminate dalle candele e dalle luci degli alberi, altre racchiudenti nel buio “la solitudine, la vecchiaia e lo stento – tutto ciò di cui le povere genti tacevano”. L’emotività di un’attesa gioiosa si fonde nell’animo infantile con la vaga tristezza di chi sta imparando a condividere, a compatire: “Aspettavo nella mia stanza che volessero farsi le sei. Nessuna festività in più tarda età conosce quest’ora che vibra come una freccia nel cuore della giornata”. Quando improvvisa si manifesta una presenza strana accanto a lui, impalpabile come un alito di vento: “Mi ero appena voltato dalla finestra, con il cuore così gravido come solo la vicinanza di una gioia sicura può renderlo, che percepii una presenza estranea nella stanza”. Un angelo, forse?

Al bambino tornano sulle labbra le parole di una filastrocca natalizia, che in tedesco mantengono le rime: “Alle Jahre wieder, kommt das Christuskind, auf die Erde nieder, wo wir Menschen sind”. È un attimo fugace, la presenza silenziosa si dissolve, e il piccolo Walter viene chiamato dai genitori nella sala dove l’albero addobbato si erge in una gloria che glielo rende estraneo e ormai indifferente, privo di incantesimo e di qualsiasi spiritualità.

La novella di Benjamin appare nella collana “Nugae”, che significa “cose minime”, e ha il respiro breve e luminoso di una poesia.

 

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https://www.sololibri.net/Un-angelo-di-Natale-Benjamin.html     28 agosto 2019

 

 

 

RECENSIONI

BENNATO

EDOARDO BENNATO, GIROGIROTONDO CODEX LATITUDINIS – BALDINI&CASTOLDI, MILANO 2020

Non c’è bisogno di presentare Edoardo Bennato, uno dei più grandi rocker italiani, autore di brani famosissimi, caratterizzati sempre da una forte dose di ironia e da dissacranti parodie del potere che seduce e ammorba.

Quest’anno ha pubblicato il singolo La realtà non può essere questa, ispirato alla pandemia del Covid 19 (con “chitarre che suonano da sole, nel silenzio di nessuna festa”…), e si è confrontato per la prima volta con la pagina scritta, esordendo con il volume Girogirotondo Codex Latitudinis, in cui si fa interprete di una lettura critica e insieme propositiva della contemporaneità.

Definendosi modestamente “cantautorucolo”, Bennato si propone “di raccogliere una serie di appunti, spunti, elementi, riflessioni e analisi «geopolitiche e non»” in un libro composto di tre parti e diciotto capitoli, illustrato con fotografie, mappe e disegni. Destinataria privilegiata del suo messaggio è la figlia adolescente Gaia, e insieme a lei i lettori più giovani, a cui è fatto compito di salvare il futuro del mondo. Tuttavia la prima sezione si rivolge anche a un pubblico più maturo, cioè a chi ha potuto condividere gli stessi anni di formazione culturale dell’autore.

La rivisitazione autobiografica prende lo spunto dalle origini partenopee di Bennato, dalla Bagnoli sede dell’acciaieria Italsider in cui lavorava il padre, barattando la propria salute con uno striminzito stipendio. Comunque (che bell’avverbio! Trascurato oggi, ma rivalutato da chi ha scritto queste pagine…), le ristrettezze economiche non hanno scalfito la serenità della famiglia, che ha assecondato con ogni mezzo il talento artistico e gli interessi intellettuali dei tre figli. Il doveroso omaggio alla madre – che non solo ha cresciuto con amore e intelligenza i ragazzi, ma si è industriata nel contribuire alle finanze domestiche -, è in realtà soprattutto un sincero riconoscimento al ruolo che le donne rivestono nella cura dell’ambiente privato e collettivo. Bennato rievoca gli studi universitari di architettura a Milano, i primi passi nel mondo della musica, la lunga gavetta fatta di estenuanti attese e di fallimentari audizioni, e poi gli incontri fondamentali con Mogol e Battisti, Mara Maionchi, Herbert Pagani, Roberto De Simone, Renzo Arbore, fino all’incisione del primo LP, Non farti cadere le braccia, che riuscì ad avere come acquirenti solo la mamma e una zia. Poi i viaggi in Venezuela, Cile, Cuba, Londra e finalmente la popolarità, i sospirati guadagni, i tour in giro per l’Italia, gli album di successo negli anni’70.

“Mi invitavano dappertutto. Giravo da solo. Viaggiavo in treno, prendendo le coincidenze al volo, con la chitarra e sulle spalle uno zaino tipo globetrotter con dentro il tamburello. Ero perfettamente autosufficiente: non avevo musicisti al seguito né manager né impresari”. Edoardo si creò da subito la fama di cantautore ribelle e alternativo: “La rabbia e l’insofferenza che avevo dentro si scagliavano contro il potere, il malaffare, i luoghi comuni, le frasi fatte, la retorica a buon mercato, i discografici. E forse, per paradosso, persino contro coloro che mi acclamavano, eleggendomi a loro idolo, ma che, se non mi fossi allineato ai loro diktat, ai loro schemi «socio-politico-mentali», insomma al «vestito» che cercavano di cucirmi addosso, erano pronti a darmi addosso e a farmela pagare! Suonavo per me, solamente per me”.

L’evoluzione professionale si accompagnò pari passo a una crescita della consapevolezza civile, a un affinamento della sensibilità nei riguardi di rilevanti temi etici: la disuguaglianza sociale, lo sfruttamento economico, il razzismo, l’inquinamento, la corruzione politica. Tale impegno ideologico viene apertamente dichiarato nella seconda e terza parte del libro, in cui sono riportati i testi delle canzoni più decisamente schierate in favore degli emarginati e degli immigrati, con un pressante invito al mondo occidentale a superare egoismi e interessi particolaristici in una visione più attivamente solidale e altruista, capace di contrastare gli squilibri economici planetari. Lo slancio utopistico di Edoardo Bennato, che si dichiara particolarmente interessato all’analisi geopolitica della situazione mondiale, si è misurato nel corso del tempo anche con altre modalità espressive (disegno, pittura, fotografia), nel generoso proposito di contribuire a rimuovere tutti i condizionamenti e i pregiudizi ideologici che zavorrano i comportamenti umani.

Il libro si conclude con un excursus storico-geografico, illustrato da un pupazzetto extraterrestre di nome Koso, che nell’indicare attraverso quali percorsi l’umanità ha raggiunto in migliaia di anni l’attuale livello di progresso, invita tutti a stringersi in un girotondo che abbracci ogni latitudine,  fisica e mentale.

 

© Riproduzione riservata                    21 luglio 2020

https://www.sololibri.net/Girogirotondo-codex-latitudinis-Bennato.html

 

 

 

 

 

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BENNETT

ALAN BENNETT, LA PAZZIA DI RE GIORGIO – ADELPHI, 1996

Nelle trenta pagine di introduzione a questa celebre commedia, rappresentata con successo a Londra nel 1991, l’autore afferma che “ogni descrizione di fatti politici, qualunque sia il periodo, fa affiorare analogie con fatti contemporanei”, contemporaneamente negando qualsiasi intenzione polemica nei confronti della politica britannica contemporanea. Insomma, come nei titoli di coda dei film, “ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale”. Così nella pazzia di Re Giorgio III (che forse era soltanto l’esito di una malattia organica, la porfiria) non dovremmo leggere allusioni alla monarchia Windsor o a eventuali fatti di corruzione di corte, ma solo una rappresentazione tragica e insieme ironica dell’eterno balletto che danza intorno all’esercizio del potere, ovunque e sempre. Quindi, “Siamo tutti Whigs, finché non arriviamo al governo. Poi si diventa tutti Tories”; “Qualche dannato imbecille deve aver chiacchierato. Tutti chiacchierano”; “Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune”; “Corrono tutti a mettersi al riparo”… sembrano osservazioni generiche che si possono riferire a qualsiasi periodo storico e a qualsiasi governo. Non sono tanto la corruzione, la cortigianeria, l’asservimento della scienza al potere, l’arrivismo, il formalismo asfissiante, il tradimento di amici e parenti a costituire il bersaglio della rappresentazione indulgente e fatalistica di Alan Bennett. Che sembra invece più interessato alla descrizione bozzettistica delle farneticazioni del re, comicamente balbuziente, improvvisamente scurrile, umiliato nella sua degradazione fisica, ma anche assolutamente umano e ingenuamente indifeso nella malattia (“Non matto però io. Non matto-matto-matto-matto. Mattestà maestà. Ma solo nervi nervi nervi sì-sss”), con poche persone fedeli intorno: per cui alla fine si parteggia per lui, e per la sua salute recuperata. “Il Re è di nuovo se stesso”.

IBS, 10 febbraio 2015

RECENSIONI

BENNETT

ALAN BENNETT, L’IMBARAZZO DELLA SCELTA – ADELPHI, MILANO 2009

I due saggi presenti in questo libriccino Adelphi ben evidenziano non solo l’indubbia e profonda conoscenza della storia dell’arte mondiale da parte dell’autore, ma anche la sua arguzia argomentativa e la dissacrante ironia con cui è stato in grado di commentare sia i quadri descritti, sia l’intera visione ideologica che ad essi soggiace. Il primo intervento fu redatto da Alan Bennett in seguito all’invito rivoltogli da una catena di supermercati a indicare quattro quadri da distribuire riprodotti nelle scuole. La scelta dello scrittore si focalizzò su quattro dipinti di diverse epoche, che per la ricchezza della composizione e dei dettagli e per il tema trattato potessero meglio catturare l’attenzione di giovani studenti. Nello stesso tempo, però, le quattro tele erano care a Bennett perché in qualche modo collegate alla sua infanzia, allo stupore provato durante le sue prime visite ai musei, e alla capacità di suscitare in lui ricordi ed emozioni profonde. “Ciò che si può dire di un’opera d’arte non deve mai andare oltre quello che l’opera d’arte dice di sé”: è un concetto fondamentale a cui Bennett si attiene nei suoi interventi, anche quando ammicca maliziosamente al lettore nel commentare il ruolo figurativo secondario di San Giuseppe, o “i bambinelli dipinti nelle Natività, alcuni striminziti, altri sovrappeso: se fossero portati in un reparto di pediatria desterebbero viva preoccupazione…”.  Il secondo saggio si propone di descrivere, nella City Art Gallery di Leeds, una quindicina tra le tele più significative. Ma anche qui lo scrittore brillante ha la prevalenza sul critico di professione, e ci divertiamo a rivivere con lui bambino dapprima il turbamento e poi la risata liberatoria della sua classe elementare davanti all’enorme seno nudo allattante di una eroina biblica, o a condividere l’ipotesi che molti tra i visitatori dei musei cerchino nelle sale, più che l’arte, comodi divani e un temporaneo riparo dagli assilli atmosferici dell’esterno.

IBS, 31 gennaio 2015

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BENNETT

ALAN BENNETT, ARRESTI DOMICILIARI, ADELPHI MILANO 2023

Nato a Leeds nel 1934, il drammaturgo e sceneggiatore Alan Bennett è noto per lo humor tagliente
che caratterizza le sue pièce teatrali (le più famose rimangono La pazzia di Re Giorgio del 1991 e Gli
studenti di storia del 2004) e i suoi pamphlet, in cui vengono stigmatizzati ipocrisie e compromessi
della società occidentale contemporanea. L’ultimo lavoro di Bennett pubblicato nella collana
Microgrammi del suo unico editore italiano, Adelphi, consiste in un diario scritto durante la pandemia
del Covid 19. Diario polemico già dal titolo: Arresti domiciliari. All’effettiva tragedia che per quasi
tre anni ha tenuto il mondo sull’orlo della catastrofe sanitaria, minacciandone oltre che la salute fisica
quella mentale, si è infatti aggiunto il flagello di una comunicazione mediatica ossessiva, morbosa,
ansiogena, dai risvolti spesso ridicoli, che il sarcasmo dell’autore, acuito dall’acredine dei suoi quasi
novant’anni, non manca di sottolineare.
La proverbiale unghiata del vecchio leone in questo libretto si limita ad alcune riuscite battute: “14
marzo, Da buon over 70 sono ufficialmente esortato a starmene isolato e in casa. Il mio normale
trantran adesso ha l’endorsement del governo”, “10 aprile, Venerdì Santo, quest’anno Pilato non è il
solo a lavarsi le mani”, “15 maggio, Le mie mani non mi sono mai piaciute molto. Ora, ultralavate
come prescritto, sono quasi inguardabili: lucide, venose, trasparenti come un’illustrazione
anatomica”, “31 dicembre, Purtroppo la malattia e il rimedio iniziano ambedue con la «v» e, visto
che a ottantasei anni (chiedo scusa) li confondo, in testa alla coda per il vaccino dico che devo fare il
virus – comincia anch’esso con la «v».
È invece una malinconica tenerezza il sentimento che prevale nella narrazione: compassione verso di
sé e verso gli altri, indulgenza per i piccoli sotterfugi cui la comunità di amici e vicini di casa è
costretta per non sottostare ai diktat governativi, benevolenza nei riguardi di luoghi abbandonati nella
solitudine, rimpianto per il passato.
I ricordi si fanno pressanti, quando si è impediti ad affrontare le giornate con i ritmi e gli impegni di
prima della malattia. Memorie infantili improvvisamente tornate incalzanti: il timore materno per
l’unico contagio ritenuto pericoloso in passato, quello della tubercolosi; le insopportabili sedute dal
barbiere; il rito della pesca domenicale cui il padre obbligava tutta la famiglia. Un padre macellaio
amato e temuto dai figli, e ricordato con stima dai vicini, secondo l’impertinente affermazione che
uno di loro aveva rivolto al famoso scrittore: “Pazienza se è famoso, lei. Non varrà mai come suo
papà”.
Ma anche ricordi più recenti, come le prove teatrali, i bisticci con gli editori, le morti degli amici, un
deludente incontro con Graham Greene (“la sua mano fu la più molle che avessi mai stretto”), e le
caustiche considerazioni politiche sulla monarchia inglese e la Brexit, su Trump e Biden, sull’insulso
Boris Johnson: “È un pessimo oratore e parlatore in generale, fa quasi pena”.
E poi il deprimente momento attuale, con i problemi fisici che impongono “una vita sempre più
medicalizzata”: l’artrite, il bastone cui appoggiarsi, l’apparecchio acustico, la rinuncia alla bicicletta.

Il Covid permette solo qualche incontro sporadico nel parco vicino a casa, brevi colloqui da un marciapiedi all’altro, nessun girovagare tra i negozi dei rigattieri: Rupert, il compagno di Alan Bennett, non deve più uscire per recarsi all’ufficio, fa pilates collegandosi a Zoom, e quindi può dedicarsi a lui con tutta la dedizione possibile. Gli taglia i capelli, gli prepara il tè, lo accompagna nelle passeggiate, lo distrae con conversazioni spiritose. Leggono libri, commentano i programmi televisivi, sono rassegnatamente “agli arresti domiciliari”, reclusi insieme.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 giugno 2023

RECENSIONI

BENNI

STEFANO BENNI, DANCING PARADISO – FELTRINELLI, MILANO 20I9

«Ogni angelo è terribile», scriveva Rilke in apertura della Seconda Elegia. Ma l’Angelo Angelica protagonista e voce narrante dell’ultimo libro di Stefano Benni non è terribile affatto: piuttosto indulgente, comprensivo, empatico, capace di pietas cristiana: proprio come l’Angelo di Dio a cui i bambini prima di dormire chiedono «illumina, custodisci, reggi e governa me». Un angelo custode, appunto.

Quello volteggiante in Dancing Paradiso riecheggia immagini filmiche, pittoriche, musicali, di un passato prossimo e remoto, e di un presente terribilmente quotidiano. Ha respirato l’atmosfera berlinese di Wim Wenders e quella californiana di Brad Silberling, le creature alate e i saltimbanchi rilkiani, gli affreschi di Beato Angelico e i quadri di Klee, lo swing anni ’30, il rock anni ’50, le discoteche delle periferie italiane anni ’80. Si è ispirato alla cronaca e alla TV più trash, alla musica di Coltrane, Bach e Vecchioni, ma ha letto anche molta poesia contemporanea, per arrivare a modulare una lunga ballata dal carattere di recita teatrale, con attori e voci diverse: la baritonale di un Falstaff pateticamente comico, il falsetto di un castrato monteverdiano, il singhiozzo malato di una Mimì pucciniana. Ballata in simil-versi, perché l’andare a capo della scrittura di Benni non rispetta la metrica tradizionale, zoppica provocatoriamente, strizzando l’occhio al lettore per avvisarlo che qui si è più vicini alla parodia che all’ode, alla farsa giocosa e moraleggiante che al sonetto o all’elegia.

Angelo Angelica dunque scende dal cielo, nel prologo, inviato/a come messaggero alato ad accompagnare le vicende umane più desolate e problematiche, caparbiamente deciso/a a sporcare la sua tunica celestiale col fango terrestre, «in città malate»: apparizione improvvisa e salvifica, maternamente prodiga e vicina ai disperati cui porta conforto «nell’imperfetta passione e nella speranza». Fratello e sorella, padre e madre, amante e amica, «guerriero che non teme gli screzi», creatura demersale che ama i fondali. Incontra una serie di reietti e depressi, li chiama tutti per nome. Il primo è Stan pianista triste, fradicio di droga e alcol, ridotto «all’ultima nota dello spartito». Il secondo è l’obeso Elvis con «folte basette sul muso da maiale», ex cantante di successo che da anni vive barricato in camera ad ascoltare musica ingozzandosi di cibo spazzatura, praticando sesso virtuale in un delirio masochista autodistruttivo: hacker onnivoro e giustiziere, aspirante nazi-stragista, odia se stesso e l’universo intero. La terza e Lady, «una signora perbene», aspirante poetessa che vorrebbe emulare Sylvia Plath o Marina Cvetaeva suicidandosi, e si riempie di psicofarmaci e alcol per riuscire a sopravvivere. Poi c’è Amina, barista in un pub frequentato da vecchi lascivi e nuovi zombie, giovane profuga arrivata dall’Albania per raggiungere un falso eden popolato da lupi e sparvieri. Infine Bill il Bello, vecchio batterista ridotto a scheletro nel letto di un ospedale in cui i sanitari non vedono l’ora che crepi.

Gli spettri umani raccontati da Benni sono accomunati dalle stesse ambizioni e fallimenti, da un’uguale rancorosa sete di vendetta nei riguardi del mondo che non li ha capiti e considerati nel loro preteso valore: «Nullità e mitomani, criminali e artisti / Tutti vogliamo essere visti / Vogliamo inciso sul marciapiede / Il nostro nome dentro una stella». L’arrivo provvidenziale di Angelo Angelica, planante sulla «città ragnatela di luce… trappola velenosa e atroce», agisce come un balsamo sulle ferite del popolo notturno, vizioso e disperato, che si raduna nel Dancing Paradiso. Invita i cinque infelici a esibirsi sul palcoscenico per un ultimo celebrativo riconoscimento pubblico, prima di venire inghiottiti nel buio della notte, in una morte definitiva o nella vaga speranza di un’alba di riscatto. Le performance di Stan, Elvis, Lady, Amina e Bill, livide e angoscianti, sono invocazioni destinate a perdersi nel nulla e nell’indifferenza cosmica. Mentre Angelo Angelica, conclusa la sua missione, riprende il volo, una voce fuori campo scandisce impietosa il suo verdetto: «Lo spettacolo è finito signori / E anche il mondo sta finendo / Fatevi un selfie speciale / Sullo sfondo del diluvio universale».

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Dancing-Paradiso-Benni.html             27 maggio 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENVENUTO

SERGIO BENVENUTO, SONO UNO SPETTRO MA NON LO SO – MIMESIS, MILANO 2013

“L’uomo dimentica che è un morto che conversa con i morti”: questa frase di Borges è stata scelta da Sergio Benvenuto come epigrafe a un suo interessante libriccino pubblicato da Mimesis, Sono uno spettro ma non lo so, in cui il filosofo e psicanalista napoletano indaga il rapporto che l’umanità ha sempre intrattenuto con il mondo dei trapassati, e con l’idea (attrattiva e repulsiva insieme) di un loro ritorno sulla terra.

Benvenuto nella sua carriera di studioso, saggista e pubblicista si è occupato di psicologia sociale, filosofia del linguaggio, teoria della politica, privilegiando l’analisi dei comportamenti  collettivi  relativamente alla diffusione di credenze popolari, leggende metropolitane, superstizioni e suggestioni mediatiche.

Partendo dall’analisi di film di successo (La notte dei morti viventi, La chambre verte, Il sesto senso, The Others, Sussurri e grida, Hereafter), di opere teatrali e letterarie (Il giro di vite, Amleto, Macbeth, Don Giovanni, Antigone, Fedone, il teatro Noh giapponese) l’autore del  testo indaga sull’effetto perturbante che tali produzioni creano nello spettatore-lettore, intimorito all’idea che i morti possano tornare a vivere per invidia dell’esistenza fisica, pretendendo dai vivi qualche riscatto da una sofferenza, la riparazione di un torto o semplicemente l’attivazione di un ricordo affettuoso.

In genere i defunti riappaiono nei posti in cui è avvenuto il loro decesso, a volte violento, comunque ingiusto: sul luogo dell’incidente, o nelle case in cui hanno sofferto, per vendicarsi o per tormentare i sopravvissuti. In alcune feste paganeggianti, ma sdoganate dalla cultura contemporanea come Halloween, i trapassati ritrovano una loro innocenza e innocuità nel rapporto con il mondo infantile, e si relazionano a noi nello scambio di doni che li disarma da ogni intenzione malvagia.

La tradizione occidentale cristiana ha ostracizzato queste credenze come superstizioni, denunciando qualsiasi pratica spiritica come illecita e peccaminosa, e santificando il culto dei morti con celebrazioni purificatorie, che di fatto li allontanano dai viventi in un oltre-mondo in attesa della loro resurrezione. Il pensiero moderno si confronta con la morte per lo più escludendola dal proprio orizzonte, rifiutandosi di pensare il non pensabile poiché non sperimentabile dall’io nel suo presente attuale e concreto. “Esiste solo la morte dell’altro in quanto questi ci viene a mancare, mai la mia”, che rimane sempre immaginata, proiettata nel futuro, non reale. Di questo paradosso si sono occupati filosofi, scrittori, psicanalisti: Freud, Nietzsche, Heidegger, Sartre, tra i tanti. Eppure la nostra inevitabile fine ci è sempre presente, nonostante tentiamo di rimuoverla. È presente nel nostro modo di elaborare il lutto e di rendere onore agli scomparsi, nell’accanimento terapeutico con cui speriamo di prolungare l’esistenza ai malati terminali, nel desiderio di assicurarci una sopravvivenza o addirittura l’immortalità attraverso i figli o le opere, nella fede illusoria nel sovrannaturale.

Se il pensiero filosofico novecentesco è in generale ateo, nichilista, razionale, bio-centrico, indirizzato all’esaltazione vitalistica della soggettività desiderante individuale, nei comportamenti sociali ci si abbandona invece a credenze, false dottrine, fantasie terrorizzanti. Aspiriamo a recuperare il rapporto con i defunti perché essi rappresentano il prima e il dopo di noi, ciò che non siamo, siamo stati o saremo, ciò che non possediamo più e che ci trascende. I morti simboleggiano “il diverso” per eccellenza, l’alterità a cui demandiamo le nostre paure e le nostre illusioni, proiettando in loro l’angoscia di non riuscire a soddisfare i nostri desideri, quasi fossimo anche noi spettri inconsapevoli e redivivi.

Secondo Sergio Benvenuto, siamo spinti a volere/temere che i sepolti risorgano (magari nelle sembianze di spirito, fantasma, zombie) per esaudire il loro e il nostro desiderio di continuare a esistere nella realtà, partecipando alla vita per poterne godere, senza essere costretti a rinunciare a gioie e gratificazioni che non si è mai rassegnati a perdere.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 2 agosto 2020

 

RECENSIONI

BENVENUTO

SERGIO BENVENUTO, LO JETTATORE  MIMESIS, MILANO 2011

Sergio Benvenuto (Napoli, 1948), docente universitario, filosofo e psicanalista, con Lo jettatore ha dedicato un pamphlet a una figura protagonista, nei secoli e in varie latitudini, non solo di leggende popolari e luoghi comuni, ma anche di una fiorente letteratura, di consumo e accademica.

Sospeso tra ironia e scetticismo, tra sconforto e sarcasmo, l’autore ripercorre storia e diffusione della più drammatica tra le costruzioni della superstizione, forse quella più pericolosa e distruttiva per chi ne è vittima, la più screditante per chi ne è l’autore e diffusore. “Non è vero ma ci credo”, si dice, evidenziando quanto sia diffusa la propensione a cedere all’irrazionalità, a timori infondati, a suggestioni manipolatrici che si trasmettono capillarmente, come la convinzione che esistano persone (…e oggetti, numeri, colori, opere letterarie o musicali) che con il loro solo esistere portano male.

Ci hanno fermamente creduto artisti, politici e intellettuali (da Mussolini a Togliatti, da Bellini a Rossini), che spesso hanno preso a bersaglio della loro superstizione colleghi di cui temevano la concorrenza o una superiore competenza professionale. Allo jettatore si attribuiscono tratti diabolici o mortiferi per il suo atteggiamento serioso e compito, o per il titolo di qualche sua produzione artistica: non va confuso con chi getta il malocchio, o manda maledizioni, o pratica la magia nera. Non patisce, infatti, il rancore astioso di chi desidera ciò che appartiene ad altri, né compie malvagità. Secondo l’antropologo Ernesto De Martino “la jettatura è dominata da personaggi prevalentemente maschili, e molto spesso da rappresentanti del ceto colto e da pubblici ufficiali, da professori, letterati, medici, avvocati e magistrati”. Costoro, essendo in genere grigi nel vestire, noiosi e troppo critici nei discorsi, segnati da una “rottura” nell’animo o nel corpo, dalla “marca” di una malinconica riflessività, infastidiscono o preoccupano le persone più gioiose e superficiali semplicemente con la loro apparizione.

Nella sua indagine storica sulla jettatura, l’autore ci ragguaglia su questa credenza nata e propagatasi a macchia d’olio nel ’700 soprattutto a Napoli (’o schiattamuorto, – il becchino – viene definito chi gode di questa funerea nomea) ad opera del giurista Nicola Valletta, illuminista colto e razionale, che nel 1787 pubblicò il saggio Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, dando avvio a una serie di studi pro e contro tale fenomeno. Valletta dava addirittura una descrizione fisica dello jettatore: “magro e pallido, il naso ricurvo, occhi grandi che hanno qualcosa di quelli del rospo, e ch’egli di solito copre, per dissimularli, con un paio di occhiali”, singolarmente molto somigliante al proprio ritratto, per cui il suo lavoro e la sua persona divennero immediatamente sinonimo di menagramo (cosa che speriamo non succeda anche a Sergio Benvenuto, che dalle foto rinvenibili su internet non risulta particolarmente solare…).

Benvenuto sottolinea che la sua città natale, culla della tradizione noir, possiede tuttora due caratteri divergenti: “Queste due antitetiche vocazioni dei napoletani, una al rigore logico e l’altra a una sontuosa irrazionalità, invece di entrare in tensione come incompatibili, spesso si amalgamano: il napoletano è a un tempo campione di disincanto talvolta anche cinico, e preda facile di tutto ciò che brilla con la fatua seduzione dell’esoterico e del magico”.

Realtà e immaginazione, bene e male si confondono nelle azioni e nella persona stessa dello jettatore, caricato della funzione di capro espiatorio su cui si concentra la pressione invidiosa della collettività, che lo configura come il reo da evitare per salvare se stessa da sentimenti negativi.

I riti messi in campo per allontanare scalogna e disgrazie sono per lo più gestuali: dalle corna a vari intrecci di dita, dalla palpazione dei genitali allo strofinamento di oggetti portafortuna. Nella nostra modernissima e iper-tecnica epoca, sopravvivono ampie zone di oscurantismo, ignoranza, rifiuto della scienza, che tendono a moltiplicare ideologie oscurantiste, fideistiche e misticheggianti: dalla New Age all’astrologia e alla parapsicologia, nel cui terreno possono facilmente attecchire fake news, psicosi generalizzate, condotte scaramantiche.

“Superstizione e occultismo sono trasgressioni cognitive” che attraggono gli insofferenti nei confronti di chi ha potere, cultura, autorevolezza: esse contestano la razionalità dominante, sia religiosa che scientifica, rafforzando credenze arcaiche e biasimevoli, e sbeffeggiando ragione, scienza, tecnologia come presuntuosi prodotti e arroganti creazioni di infelicità e malasorte.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 3 agosto 2020

 

RECENSIONI

BENZONI

FERRUCCIO BENZONI, CON LA MIA SETE INTATTA. TUTTE LE POESIE – Marcos y Marcos, Milano 2020

Marcos y Marcos ha da poco pubblicato in un unico volume organico tutte le poesie di Ferruccio Benzoni (Cesenatico, 1947-1997). Benzoni è stato una figura marginale, benché rilevante, nella storia della nostra letteratura novecentesca: non tanto per la qualità o quantità della sua produzione in versi, quanto invece per la sua irriducibilità caratteriale alle mode prevalenti in ambito letterario. Nato e vissuto nella provincia romagnola, da essa non riuscì mai ad affrancarsi completamente, nonostante gli anni universitari vissuti a Bologna, e animati da un attivo e fervente impegno politico nella FGCI. In uno dei primi componimenti, aveva definito profeticamente la propria stanzialità esistenziale: “Qui ho vissuto e un male d’ombre ha attecchito / qui devo finire con la mia sete intatta”.

Nella sua Cesenatico, con un gruppo di amici appassionati di poesia (“i fratellini”, come si definivano tra loro), aveva fondato una rivista semi-clandestina, “volutamente alla macchia”, Sul Porto, che a dispetto delle previsioni si rivelò presto nucleo di aggregazione e di discussione, proponendo a un pubblico sempre più ampio poeti di calibro nazionale come Pasolini, Fortini, Raboni, Giudici, Sereni. “La provincia può ancora essere una frontiera dove farsi pionieri di idee e contributi autentici e originali”, orgogliosamente dichiaravano questi giovani, che avevano fatto della poesia una ragione di vita, di incontro e scontro culturale, allargando i loro confini di intervento anche alle arti e al cinema. L’esperienza vitalizzante della rivista si concluse dopo un decennio, nel 1983, e per Benzoni iniziarono anni di delusione e prostrazione, che lo spinsero nel tunnel della dipendenza alcolica, di cui diede testimonianza nella raccolta Sguardo dalla finestra d’inverno, uscita nel 1998: “Furono il mio lager / tanto che venutone fuori (dimesso) / d’ogni cosa ebbi paura: / tornare tra la folla che si urta, le ombre surrogare nella mia. // … Notti e giorni al riparo dall’esistere”.

La sua biografia giovanile fu segnata profondamente nel 1967 dalla morte della madre, cui dedicò versi struggenti, che nella prima sezione del volume, Canzoniere infimo, vengono marchiati dal reiterato proporsi del termine “figlio”, legittimato pure all’interno di relazioni sentimentali diverse (“È insistente il mio chiedere, terribile: arte di figlio”, “nient’altro che vaghezza o / un’ossessione di figlio”, “Dunque sono solo un figlio, enfatica radice”, “per te anche / fui figlio: m’hai dato amore in cambio / di stranezza”, “a puntar spilli alle veglie io solo fui figlio”). Il richiamo alla pasoliniana Supplica a mia madre riecheggia evidente nella struttura formale di alcuni versi (“Devo dire che non l’acqua mi manca / o il pane o il letto dove sfinirsi. // … Ho voglia di cose disamorate e vive // … È dentro il tuo viso che nasce la devozione / della mia solitudine”). E a Pasolini viene riservato l’omaggio di altre citazioni poetiche e filmiche. I debiti che il primo Benzoni riconosce alla poesia italiana del secondo ’900 sono riscontrabili nella preziosità lessicale e in numerosi incipit montaliani, nei versi a gradino e nelle titubanti interrogazioni di Caproni, nella oggettiva discorsività sereniana (Vittorio Sereni fu per lui faro intellettuale e guida paterna), nell’esibita intenzionalità comunicativa di un “tu” a cui appellarsi (un tu con “valore individuale e insieme universale”, come giustamente sottolinea Massimo Raffaeli nella prefazione).

All’interno della produzione più matura, si emancipa invece dalle eredità letterarie del nostro dopoguerra, trovando una voce più decisamente sua, meno affabilmente espansiva e talvolta addirittura criptica, in uno stile più asciutto e nervoso, in una sintassi franta e complessa, in scelte formali innovative che introducono frequenti neologismi, anastrofi, paronomasie, allitterazioni (“affettata (ammetto) sfiatata / se spiove”, “Precipitando allucciolava”, “Libecciate petulanti lune”, “una luce una lucina latitava // … mi disfaceva in uno sfacelo”, “le stanghette / di similoro spettrali / per stornarti”, “in una gibigianna di / chiatte chete, bacilli, balsami”, “T’avviluppi, t’accartocci”, “e slogato snodato”, “aggallare all’alba”, ecc.). E poi l’uso frequentissimo di parentetiche e di gerundi che rimandano a un discorso sempre sospeso, volutamente aperto a soluzioni parimenti temute o sperate.

Tuttavia, ciò che più caratterizza la poetica benzoniana non sono tanto i requisiti stilistici, quanto il tono di assoluta e pudica discrezione, di rassegnata malinconia, di pacata umiltà con cui si rapporta all’esistere: cifre di un consapevole e desiderato appartarsi dal brusio confuso del mondo. Francesco Scarabicchi ne intuisce con sensibile acutezza il tratto distintivo nel risvolto di copertina: “La sua poesia era ed è il passo notturno delle ‘musiche’ di attesa e stupore, d’una arresa triste dolcezza che guarda e ascolta il quotidiano andarsene del giorno”. Poesia domestica, comunque, perché proprio nella tenerezza dei rapporti familiari e quotidiani riesce a recuperare un legame con il brulicante tepore dei rapporti umani. La mamma (“mia madre, esile filo di vita sfiorente. Ischeletrita, / arresi e grigi i capelli senza tintura, le dita / agitava ai saluti”). La zia (“Non sono per lei / un ragazzo per bene: sto fuori la notte, non rincaserei mai. //… Io la amo e fossi buono a pregare / per lei pregherei, per la poca vita di scricciolo”). La bambina che appare imprevedibile, improvviso miraggio, rimpianto di una paternità negata (“Mia figlia potrebbe essere avessi avuto cuore / allora”, “selvaggia figurina”, “una bambina cui aggiustare berretto e sciarpa”). La cagnetta Orazio (“Abituata al canile / randagia / sgranavi gli occhi ai rimbrotti / o li strizzavi / sciagurati e dolenti / timidissimamente / più che potevi / da farmi male”). Gli amori giovanili (“Ah, i tuoi capelli e come viziata li trascuri / ridendo degli specchi piccola strega e ridendo / come sai bene che a sfiorarli morirei”). La moglie Ilse, musa protettrice (“Nel verde dei suoi occhi aguzzi / riarde un mio futuro / di metrica e di vita”). Un universo tutto femminile cui aggrapparsi per continuare a sopravvivere nel confortante e banale dipanarsi dei giorni.

Nonostante il bene e il bello intravisto e riconosciuto, lo smarrirsi nel proprio inarrestabile dolore, la volontaria clausura entro confini avvertiti come invalicabili, in un continuo “deragliamento dalla vita”, è in questo poeta un lento, progressivo e inarrestabile avvicinarsi alla morte: “Ma resto solo / e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo: / fossero viole le voci, sarei di primavera! / M’allontano invece, deraglio dalla vita”, “Verrà un crepacuore d’inverno”, “Cosa c’è tra questo paese e me / (tra questo involucro) / che tacitato infine non sia / confinato dentro un cortile. / Immagine io stesso di una camera / (piccola morgue di febbricole) / chiusa dal di dentro. / Invece d’un vetro una crepa – stucco / sui ragnateli dell’intonaco. / Ma l’anima costipata tossisce, / specie di notte, non so se d’amore”, “Riconosco – è mio – il dolore: gli faccio festa / neanche fosse un cane battuto”, “Ne morivo mia anima che accorrevi / ai brani di una giovanezza a pezzi”. Con l’angosciante certezza che “non esiste grazia senza l’orrore”, Ferruccio Benzoni ci ha lasciato una delicata e sofferta testimonianza poetica, timorosa di qualsiasi stentorea e invadente sonorità: “Torna alto il silenzio. S’invola”.

Al suo silenzio, raggiunto a soli cinquant’anni, rende omaggio questo volume curato con filologica perizia da Dario Bertini.

 

© Riproduzione riservata                «Nazione Indiana», 20 aprile 2020

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