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RECENSIONI

BETTI

RICORDANDO UGO BETTI

Per nostra fortuna, c’è stato chi ha avuto l’intelligente idea di riprodurre su YouTube alcune rappresentazioni teatrali (ormai pressoché introvabili nelle versioni a stampa) di Ugo Betti. Possiamo così fruire non solo di magistrali interpretazioni di attori del calibro di Buazzelli, Randone, Mauri, Salerno, Gassman, ma anche apprezzare testi di elevato spessore etico, e di intenso impegno civile. Nato a Camerino nel 1892, Ugo Betti si trasferì con la famiglia a Parma a nove anni, in seguito alla nomina del padre a direttore dell’ospedale municipale di quella città. Qui si laureò in legge, iniziando contemporaneamente a occuparsi di letteratura. La prima guerra mondiale lo vide arruolarsi come “volontario ciclista”, e in seguito come ufficiale di artiglieria. Venne fatto prigioniero dopo Caporetto e internato a Rastatt, insieme a Carlo Emilio Gadda e a Bonaventura Tecchi, con cui strinse un importante sodalizio affettivo e intellettuale. Tornato in Italia, intraprese la carriera di magistrato a Parma, mentre la passione per il calcio lo portò a giocare nella squadra cittadina, di cui divenne poi dirigente. Dopo il matrimonio, si trasferì a Roma ricoprendo il ruolo di giudice della Corte d’Appello, quindi di archivista al Palazzo di Giustizia e infine di consulente legale per la Siae. Nel 1945 fu cofondatore, insieme a Diego Fabbri, Sem Benelli e Massimo Bontempelli, del Sindacato Nazionale Autori Drammatici (SNAD), impegnandosi nella difesa dei diritti degli scrittori teatrali. Morì per un tumore a 61 anni, nel 1953.

Si era affermato già dalla giovinezza come poeta (Il re pensieroso, Canzonette La morte, Uomodonna), e soprattutto come drammaturgo, tradotto e rappresentato con successo in tutto il mondo: La padrona (1926), La casa sull’acqua (1928) e L’isola meravigliosa (1929) furono tra le sue prime opere di rilievo, ma i drammi che lo resero famoso furono principalmente Frana allo scalo nord (1932), Corruzione al palazzo di giustizia (1944), e Delitto all’isola delle capre (1948). I suoi lavori sono pervasi dalla pessimistica convinzione dell’impossibilità di vincere il male attraverso il perseguimento del bene, ottenendo giustizia durante la vita terrena, e dalla speranza di un riscatto e di un compenso all’infelicità dopo la morte. La sua produzione è spesso stata sottovalutata in Italia, mentre all’estero (soprattutto in Inghilterra) ha trovato accoglienza entusiastica sia tra il pubblico sia da parte della critica, e viene ancora oggi studiata e discussa a livello accademico. Negli anni giovanili lo stile intimista di Betti lo aveva reso inadatto al teatro popolare a cui aspirava il fascismo e successivamente, dopo la liberazione, il suo pensiero e la sua estetica si scontrarono sia con la cultura filo-marxista, sia con il cattolicesimo più retrivo. “Quasi un dimenticato”, lo definì lo scrittore friulano Carlo Sgorlon nel 1984, dopo che il trentennale della sua morte era stato colpevolmente trascurato dalla sua città natale e da tutto il mondo letterario nazionale. E in effetti, oggi Ugo Betti non viene più letto né rappresentato, nemmeno nei drammi giudiziari che meriterebbero invece l’interesse dovuto a questioni vitali e ancora attualissime nel nostro paese. La produzione in versi di Ugo Betti risulta piuttosto datata, e poco accattivante per il lettore contemporaneo, situata com’è tra il fiabesco e il didascalico, risentendo di influssi crepuscolari nello stile, di una ridondanza di sentimentalismo e retorica nei contenuti: le poesie esplorano il paesaggio in toni idilliaci, gli affetti familiari e il mondo del lavoro con un manierismo che può risultare stucchevole, insistito inoltre in una resa musicale che richiama le filastrocche infantili e gli stornelli folkloristici. Tutt’altra corposità hanno i testi teatrali, a partire dal più famoso Corruzione al Palazzo di Giustizia (1944), da cui fu tratto uno sceneggiato Rai nel 1966 e un film con Franco Nero nel 1975. “Il Palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido, del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi… È come una cancrena che si allarga”, dice uno dei giudici protagonisti all’inizio del dramma. La scoperta del cadavere di un potente faccendiere all’interno del Palazzo di Giustizia di una innominata “città straniera” scatena una guerra di sospetti e accuse, insinuazioni e colpevoli silenzi che coprono enormi interessi economici, in un’atmosfera che si fa via via nel corso dello spettacolo sempre più angosciosa e allucinata. Alla base del diabolico gioco al massacro sembra esserci la successione al ruolo di Presidente, occupato dal debole e stanco giudice Vanan, stretto tra le ipocrite ambizioni dei colleghi e la consapevolezza di non aver sempre agito con specchiata correttezza. All’interno del Palazzo si consumano tradimenti e suicidi, viscidi asservimenti al potere e al denaro, complicità e ribellioni. Il rapporto esistente tra legalità e arbitrio, tra diritto e umanità, che oscilla tra la descrizione cronachistica e la riflessione metafisica, domina anche in un altro famoso dramma di Betti, risalente addirittura al 1932, al primo decennio fascista, con le sue censure e le persecuzioni, i fanatismi ideologici e l’idealizzazione di un collettivismo rivoluzionario, in realtà intriso di oscurantismo e repressione. In Frana allo Scalo Nord l’autore si rifà ad un’esperienza autobiografica, quando ‒ agli albori della sua professione di magistrato ‒, si era occupato in un saggio giuridico delle responsabilità individuali e collettive negli incidenti ferroviari. Le sequenze teatrali dell’opera, giocate tra interni ed esterni, silenzi improvvisi e urla di dolore e protesta, luce accecante e buio, ricalcano le fasi di un’istruttoria giudiziaria, con interrogatori di testimoni, perizie tecniche, sopralluoghi nei cantieri e dibattiti nelle aule del tribunale: colpe e omissioni, responsabilità personali e politiche, assurgono a metafora dell’intera esistenza umana, nella concatenazione di eventi più o meno prevedibili ma comunque tragici. Nel testo si intrecciano considerazioni sociologiche e analisi psicologica, con un’attenzione molto moderna ai conflitti tra proletariato e classe dominante, e una premonitrice sensibilità verso le istanze ecologiche. La condanna etica del profitto economico privo di scrupoli si esplicita nella coscienza tormentata del giudice Parsc, costretto a emettere un verdetto che alla fine risulterà di assoluzione: la ricerca di colpe individuali nel corso delle indagini e del processo si trasforma in una severa analisi del sistema capitalistico, ciecamente finalizzato al guadagno, e in un sentimento di pietà e comprensione per il destino di tutti gli esseri umani, ugualmente vittime di ingranaggi crudeli di sfruttamento e morte, nella lotta eterna e ineliminabile tra bene e male.

 

© Riproduzione riservata                            «Il Pickwick», 28 agosto 2018

 

RECENSIONI

BETTIN

GIANFRANCO BETTIN, CRACKING – MONDADORI, MILANO 2019

In questi giorni in cui Venezia e il suo hinterland sono saliti drammaticamente alla ribalta, il nuovo romanzo di Gianfranco Bettin (Marghera 1955) ci introduce nei sulfurei meandri di un sistema produttivo e culturale veneto rischiosamente alterato, tra fabbriche dismesse, acque inquinate, effluvi di gas cancerosi, giovani allo sbando e un sottoproletariato rabbioso, nella tradizione di narrativa industriale che la letteratura nostrana ha colpevolmente abbandonato. Bettin nel 1989 aveva ottenuto un lusinghiero successo con Qualcosa che brucia – pubblicato da Garzanti e ripreso da Baldini Castoldi nel 2003 -, romanzo in cui descriveva la degradazione della Venezia mercantile, tra l’abbrutimento del lavoro nei capannoni, consumo e spaccio di droghe, rapporti interpersonali ridotti a violenza, sopraffazione, sfruttamento.

In Cracking, uscito quest’anno da Mondadori, persiste nel suo determinato e riconosciuto impegno civile e politico, già attestato da una lunga militanza nel Partito dei Verdi e nella sinistra radicale, e da un’attività di scrittore transitante dal reportage alle collaborazioni giornalistiche e ai romanzi di invenzione.

Cracking narra la vicenda umana di Celeste Vanni, operaio in pensione del Petrolchimico di Porto Marghera, ossessionato nella quotidianità e nell’inconscio dall’incubo degli effetti venefici provocati dall’inquinamento dell’ambiente naturale e sociale. In una gelida notte d’inverno del 2014, il protagonista, protetto da un pesante abbigliamento da scalatore, si arrampica sulla ciminiera più elevata della zona portuale della laguna di Venezia. Dall’alto osserva lo spettrale panorama che gli si apre davanti: i pochi impianti rimasti in funzione, e poi tralicci, gru, torri di raffreddamento, la centrale elettrica. Più in là, nel porto, le luci dei cantieri navali, i transatlantici in attesa, i carriponte con i nastri trasportatori; la ferrovia con i treni in transito e i binari morti coperti dalla vegetazione. Una visione spettrale che, avendo fatto da sfondo alla sua vita intera, adesso riconsidera con affettuosa malinconia mista a rancore, abbandonandosi ai ricordi della giovinezza e del suo passato lavorativo.

Cosa ci fa un robusto pensionato sessantenne, appollaiato nel buio stellato e ventoso di gennaio, a 150 metri dal suolo, in un temerario atteggiamento da cospiratore, avvolto dalle “sapide esalazioni che salgono dalla terra incarbonita: arsenico, furani, diossine, metalli pesanti”? E soprattutto, chi è Celeste Vanni? Bettin ne ripercorre la vicenda esistenziale, comune a molti operai nati nel dopoguerra e cresciuti sul litorale veneto all’epoca dell’industrializzazione incontrollata: vita scissa tra un’occupazione ripetitiva e sfibrante, l’impegno politico e sindacale, il volontariato, con poche pause ricreative offerte dallo sport, dalle scarpinate in montagna, dalle cene con gli amici. Accanto a lui, a sostenerlo con fedele dedizione, la moglie Rosi, sua compagna dall’adolescenza. Entrambi orfani presto, figli dello stesso retroterra povero e rivoltoso, lei lo aveva aspettato quando era finito in carcere per rapina, convertendolo a una realtà più laboriosa e tranquilla. Celeste faceva i turni al Petrolchimico, Rosi la cameriera nella locanda dello zio. Alla morte della moglie per cancro, lui si ritrova solo e spaesato, ma deciso ad agire per salvare quello che resta della dignità di un territorio calpestato.

La storia privata del protagonista si intreccia, nella narrazione secca e puntuale di Bettin, con la storia sociale e politica della nostra nazione, nelle sue pieghe più drammatiche e scandalose, con la strage dei morti sul lavoro, la contaminazione dell’ecosistema a lungo negata, le malattie professionali derivate dagli effetti tossici del cloruro di vinile e di altri agenti chimici. L’indignazione dell’autore, militante ecologista, si fa tangibile nella descrizione documentata dell’avvelenamento metodico e programmato dell’intera laguna, in un lungo elenco di acidi, solventi e fosfati dai nomi impronunciabili. Poi il suo punto di vista si allarga su diversi fatti tragici che dagli anni di piombo fino al nuovo millennio hanno colpito Marghera e il basso Veneto: le attività criminali della banda del Brenta, l’uccisione di due dirigenti e di un commissario di polizia da parte delle Brigate Rosse, l’infiltrazione capillare di mafia e ’ndrangheta nella regione. La malavita nei decenni si era evoluta: dalle rapine e dallo spaccio di droga aveva allargato i suoi tentacoli sullo smaltimento dei rifiuti, sulle operazioni di bonifica e il riuso dei terreni inquinati, sulle gare di appalto, sulla conversione di fabbriche decotte. Nemmeno gli ingenti flussi di turismo verso Venezia erano rimasti indenni da corruzione e delinquenza organizzata.

L’industria chimica lentamente e inesorabilmente era stata smantellata secondo un preciso piano politico-finanziario-industriale, falcidiando vittime tra gli operai e le loro famiglie. Celeste Vanni pensa a loro, alla fabbrica cui ha regalato decenni di vita, all’unico reparto di cracking rimasto in funzione per spezzare le molecole pesanti del petrolio trasformandole in composti organici più leggeri, di idrogeno e carbonio. Pensa ad altri “cracking”, a fallimenti personali e collettivi che gli hanno sconvolto l’esistenza. Ha in mente una “cosa semplice ed estrema”, un atto dimostrativo di solidarietà verso i compagni che hanno perso il lavoro. Indossa l’imbracatura da montagna e con una lunga fune si cala fuori dalla ringhiera di protezione, lasciandosi penzolare nel vuoto.

Centocinquanta metri più sotto si radunano poliziotti, giornalisti, lavoratori. I video e le foto che lo ritraggono “appeso là in alto, messo a fuoco in primo piano, che sembri un Cristo in cielo…”, vengono trasmesse sui media internazionali. L’anziano operaio Celeste Vanni, oscillante nel buio della notte come un’ultima e coraggiosa bandiera di libertà e ribellione, diventa simbolo di lotta, resistenza e denuncia, contro un’economia corrotta, pronta a sacrificare uomini in favore del profitto economico.

 

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20 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BETTINI

MAURIZIO BETTINI, A CHE SERVONO I GRECI E I ROMANI? – EINAUDI, TORINO 2017

Leggendo questo interessante volume di Maurizio Bettini, professore di Filologia Classica   all’Università di Siena, scrittore e strenuo difensore (e diffusore) della cultura umanistica, mi è tornata alla mente la domanda che mi rivolse mio padre, tecnico cartario con una propria azienda meccanica, quando gli comunicai l’intenzione di iscrivermi alla facoltà di Lettere Antiche: “A cosa ti serve studiare il passato? Almeno imparassi il greco moderno…” Se adesso mi fa sorridere ricordare il suo ingenuo pragmatismo, allora – finito il liceo – mi ero sentita incompresa e umiliata.

Quindi, A che servono i greci e romani? Forse è il caso di mettere in discussione proprio il concetto di “servire”, di scopo e utilità, come giustamente fa Bettini ad apertura di volume. Pare che agli occhi di economisti e politici le creazioni culturali “non servano” a nulla: tuttalpiù vengono prese in considerazione solo nel caso producano beni da consumare e da cui trarre profitto. Infatti abbondano metafore tratte dal mondo finanziario e commerciale per indicare “i prodotti” della cultura: beni, patrimonio, offerta, crediti, risultati, valorizzazioni ecc. Mentre già Gaetano Salvemini aveva affermato negli anni ’50 che «la coltura è la somma di tutte quelle cognizioni che non rispondono a nessuno scopo pratico, ma che si debbono possedere se si vuole essere degli esseri umani e non delle macchine specializzate. La coltura è il superfluo indispensabile».

Una necessità, dunque, un lusso che dobbiamo poterci permettere e meritare. E all’interno della produzione culturale, che ruolo occupano gli studi classici, quali bisogni soddisfano, quanta attenzione devono pretendere da noi? Il nostro paese gode di un incredibile privilegio: è naturalmente, felicemente, gratuitamente erede di un’eccezionale tradizione culturale, che gli deriva da più di due millenni di storia, di arte, di letteratura depositata in monumenti, affreschi, poesie, opere teatrali, testi filosofici. Tracce che racchiudono come in uno scrigno prezioso la memoria di una civiltà, che per secoli ha saputo tramandarsi nelle generazioni, arricchendole, ispirando ogni nuova produzione artistica. Se non ci fosse stato Virgilio, forse non avremmo avuto Dante, senza Ovidio Ariosto avrebbe scritto qualcosa di diverso; quanto devono Machiavelli a Livio, Galileo a Lucrezio, Leopardi a Catullo? I classici sono la nostra memoria collettiva, un’enciclopedia condivisa da tutti gli italiani, che si esprime in primo luogo attraverso una lingua ricalcata sul latino, in un meccanismo di continuità culturale individuabile non solo nel lessico e nella sintassi, ma anche in un patrimonio comune di immagini, di leggende, di miti. Un classico, secondo Italo Calvino, «è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire». Per Maurizio Bettini, è un’opera letta e studiata da molte generazioni di individui, tanto che la sua sostanza si è fusa con quella della cultura successiva.

Perché questa prestigiosa memoria culturale non vada persa (e già si sta privilegiando una trasmissione orizzontale del sapere, trascurando invece la sua dimensione verticale, diacronica) dobbiamo rivitalizzarla, nutrirla, riaccenderla attraverso nuove strategie didattiche.  Nella scuola, in primis, ma anche nell’editoria, nelle produzioni musicali, televisive, cinematografiche. L’insegnamento delle lingue classiche è oggi cristallizzato in formule stantie e inadeguate. Bettini propone una drastica rivoluzione nei programmi scolastici, con l’inserimento di attività in grado di suscitare più interesse e entusiasmo negli alunni. Rielaborazione e messa in scena di testi teatrali; reception studies che rintraccino la presenza dei classici nelle opere letterarie e artistiche attuali; approfondimento di strategie comunicative attraverso i testi della retorica antica; visite guidate a musei e siti archeologici. Ma soprattutto confronto con l’alterità del mondo classico, con la sua diversità nei modelli religiosi, familiari, politici, legali rispetto a quelli della nostra epoca. Gli insegnanti dovrebbero riuscire a suscitare negli allievi una curiosità arricchente proprio nei confronti dell’antichità, incoraggiandone lo studio nelle analogie e nelle differenze con la società contemporanea, individuando nel latino e nel greco le particolarità lessicali e di struttura sintattica che le rendono lingue tanto vicine e altrettanto lontane dalla nostra. I classici esprimono quindi una realtà alternativa a quella che viviamo quotidianamente: la lettura di questo volume ci invita, con entusiasmo e appassionata vivacità, a riscoprirla.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/che-servono-Greci-Romani-Bettini.html   6 marzo 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BIAGINI

ELISA BIAGINI, DA UNA CREPA – EINAUDI, TORINO 2014

Giustamente la quarta di copertina di questo libro di versi di Elisa Biagini (Firenze 1970) sottolinea nella scrittura poetica dell’autrice l’ossessione per il corpo. Per offrire al lettore un inventario dei termini anatomici utilizzati, se ne può abbozzare un elenco: bocca, lingua, labbra, palato, gola, saliva, fronte, orecchio, lobi, occhio, palpebra, pupille, capelli, mano, dito, unghia, polso, braccia, scapola, prima cervicale, piede, rotule, caviglie, polmone, cuore, ombelico… Una sorta di esibizione, più che una rappresentazione, della fisicità materiale di cui siamo composti, in singoli elementi quasi stilizzati, e resi artificialmente come nella destrutturazione della pittura cubista e futurista, che se ci spingiamo alla contemporaneità, può anche ricordare i calchi plastificati delle sculture di John De Andrea, in cui la vita pare assente, e la carne diventa un simulacro sintetico. Il corpo spezzettato è reso formalmente nella frantumazione dei versi: brevi, martellanti, irrigiditi nel rifiuto di qualsiasi abbandono lirico. Il corpo, proprio ed altrui, è avvertito minacciosamente armato, arroccato in difesa o pronto all’attacco, come si evince dall’uso frequente di una terminologia aggressiva: ascia, forbici, lama, spillo, spigolo, spine, fil di ferro, coltello, freccia, morso. Con la ricorrente “crepa” che dà il titolo al volume: «e la schiena si / crepa, astuccio / di semi / che spingono» (da notare l’inclemenza degli enjambements, che intervengono severamente a tagliare i versi). Il rapporto con l’altro da sé è vissuto all’insegna dell’incomunicabilità, con amara rassegnazione e totale disincanto: «La scapola è già l’ascia / tavoletta di leggi non scritte: / affatica l’abbraccio / impiglia l’indicare / torce il crescere»; «parliamoci / come tolte / le calze, prima che / la lingua collassi / e ci s’inciampi»; «la voce s’imbianca di / silenzio, le ombre / s’infittiscono tra i denti». E insomma sembra che il corpo, più che a relazionarsi con l’esterno, serva ad alimentare incubi: «C’è uno che ha i miei occhi / li strizza come spugna dopo / i piatti, li tira come lenzuoli,  / li incastra a fermare le porte»; «La saliva non usata prima // chiude le fessure tra i / denti, poi mura la // lingua al palato». Anche la pausa ristoratrice che potrebbe essere rappresentata da una gita, si trasforma in una angosciosa discesa agli inferi, in una miniera di sassi, polvere, pirite, buio e caldo (La gita), al cui interno l’altro diventa fantasma irraggiungibile : «Ci cerco, a noi due: / tu nube di memoria, / io che mi sfuggo / come di mercurio, / tremito di termometro / che ingoio, vetro e tutto». Una poesia scolpita, questa di Elisa Biagini, concretissima e visionaria, anche nei riferimenti letterari a cui rende esplicito omaggio, traendone spunto per un collage tormentato e radente: Paul Celan e Emily Dickinson, dalle cui fessure di angosciosa bellezza ricava materia e ispirazione: «come su foglio / accartocciato / che si liscia / resta il / segno // crepa / a colarci / l’inchiostro. // (noi ci imbeviamo / d’infiniti spigoli.». Una sorta di allucinato film surrealista alla Buñuel, in cui il corpo rimane ostaggio non tanto di divinità crudeli, quanto di una assurda e silenziosa assenza di significato, in un’estraneità reificante.

 

«Poesia» n.305, giugno 2015

RECENSIONI

BIANCHERI

BORIS BIANCHERI, LA TRAVERSATA – ADELPHI, MILANO 2012

Boris Biancheri (Roma, 1930-2011) ha pubblicato nel 2012 presso Adelphi questo prezioso libriccino, scritto in una prosa piana ed elegante, come si addice da sempre alla più raffinata delle nostre case editrici,  con un’allusiva copertina equorea, di un mare blu solcato da spume bianche e dalle bracciate composte di una figura femminile. Protagonista della narrazione è infatti una ragazza, Eileen Lightwing, nata da una famiglia siculo-britannica che a Marsala aveva fondato una redditizia azienda vinicola. Adolescente strana, Eileen, non particolarmente bella né particolarmente intelligente, di scarse parole e scarsi sorrisi, estranea alle abitudini e convenzioni del suo ambiente sociale e refrattaria alle frivolezze dei coetanei: «Era poco portata alle cose terrestri e più adatta a quelle del cielo e del mare».

Due sole cose infatti attiravano il suo interesse: la luna (osservata e studiata con appassionato trasporto, e ridisegnata in minuziose fantasmagoriche mappe) e il nuoto, a cui dedicava ore e ore delle sue solitarie giornate: perché solo nella “liquida pace” dell’acqua marina «sentiva sciogliersi i nodi che aveva nella testa e nel cuore».

Biancheri si immerge con la ragazza nell’elemento avvolgente e amniotico del mare siciliano, facendo di lei una incantata e leggiadra sirena, indifferente al mondo, tesa unicamente all’unico elemento da cui si sente compresa in un abbraccio materno e protettivo: «Nulla come nuotare sino al limite dello sfinimento dà il senso di essere vivi senza essere tenuti agli adempimenti della vita. Nulla quanto l’assoluta disciplina si avvicina all’assoluta libertà». Eileen viene casualmente scoperta come atleta da una rampante giornalista inglese, che le propone di attraversare la Manica per superare il primato femminile di nuoto in solitaria, e la costringe a estenuanti allenamenti in Sicilia, a Malta, in Inghilterra. Sfide a cui la ragazza si sottopone con remissiva obbedienza, ma anche con sostanziale distacco, avendo come unica passione e finalità il suo rapporto avvolgente con l’acqua. Vincerà quindi la gara, esaudendo docilmente le aspettative dei media e della famiglia, ma poi si sottrarrà, per il resto della sua esistenza, al rapporto fagocitante con una società che non la capisce e di cui non condivide i valori, scegliendo un approdo quasi mistico nella comunità teosofica ticinese di Monte Verità, composta da esuli dell’anima, innamorati dei boschi e della luna.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/La-traversata-Boris-Biancheri.html      28 aprile 2016

 

RECENSIONI

BIANCHI

ENZO BIANCHI, TRISTEZZA – SAN PAOLO EDIZIONI, MILANO 2013

Che librino inutile e supponente, questo di Enzo Bianchi, assiduo e loquacissimo frequentatore di quotidiani, riviste, festival culturali, radio e tv. Disposto tranquillamente a soprassedere alla regola monacale del silenzio, qui invita a sfuggire la tristezza, in cinque blandi paragrafetti corroborati da alcune massime dei Padri della Chiesa. Per S. Paolo c’è una tristezza secondo Dio (buona) e una secondo il mondo (cattiva), e Bianchi afferma che se la prima è una riflessione compunta che può ricondurre al bene, l’altra è un vizio, “uno stato di letargo in cui la vita appare senza luce”. Il nostro peccato di creature sfiduciate e pessimiste risiede in un rapporto sbagliato con il tempo, con un passato che idealizziamo e un futuro che mitizziamo, trascurando di aderire alla realtà del presente, da accogliere invece con gioia e gratitudine, perché “solo l’oggi di Dio” può determinarci. In cosa consiste la tristezza, secondo Bianchi? In pratica va limitata a due sentimenti, molto simili e diffusi anche tra i religiosi: l’invidia e la gelosia. “L’invidioso è colui che si sente escluso da un bene che l’altro che gli è accanto possiede: il bene dell’altro è sofferto come male proprio!” Terribile patologia, che nasce dal confronto perdente con il prossimo, a cui ci si sente inferiori intellettualmente, economicamente, fisicamente o caratterialmente. Questo non essere contenti di sé e della propria situazione porta alla sofferenza, alla tristezza. Come uscirne, come abbattere questo “verme del cuore”? Da uomo di Chiesa, il Priore di Bose suggerisce l’unica soluzione dell’apertura a Dio e alla sua Parola, del confronto fraterno col prossimo, della preghiera. Ma nel Vangelo non troviamo mai un Gesù che sorride, e invece lo leggiamo spesso sofferente, irato, rimproverante: allo stesso modo, l’espressione facciale, la gestualità e il tono di voce di Enzo Bianchi non appaiono a noi spettatori particolarmente benevole, rincuoranti, rasserenanti con monacale “letizia”…

IBS, 25 settembre 2015

RECENSIONI

BIANCHI-CACCIARI

ENZO BIANCHI-MASSIMO CACCIARI, I DIECI COMANDAMENTI: AMA IL PROSSIMO TUO

IL MULINO – BOLOGNA 2011

Con questo libro si è conclusa la collana del Mulino dedicata ai dieci Comandamenti, iniziativa editoriale pregevole che tuttavia avrebbe avuto un merito maggiore se i due intellettuali chiamati a esprimersi in ogni volume avessero manifestato opinioni davvero contrastanti, oppositive, di confronto anche polemico: e non, come accade anche in questa pubblicazione, avessero finito per convergere su tesi simili, unidirezionali, e tutt’al più appena dissonanti nell’esegesi delle fonti indagate.

Così se Enzo Bianchi approfondisce da credente e religioso il comandamento Ama il prossimo tuo proponendo un documentatissimo excursus che dal Levitico arriva agli Evangeli e alle Lettere Paoline, Massimo Cacciari situa la sua riflessione nello stesso solco, partendo addirittura dal commento della stessa parabola di Luca sul buon samaritano, e accentuandone con vigore la portata eticamente rivoluzionaria. Sia Bianchi sia Cacciari concordano nel sottolineare il “mandatum novum” cristiano che indica nell’amore per l’altro un superamento “eccedente, sovrabbondante, scandaloso, paradossale” della Legge giudaica quando invita ad amare anche il nemico, l’avversario; entrambi evidenziano il carattere di gratuità, misericordia, com-passione che deve sostenere la relazione con il prossimo; entrambi riconoscono la difficoltà insita nel combattere la fatica, il fastidio, a volte la ripugnanza per chi è diverso da noi.

Massimo Cacciari risulta persino più passionale e feroce nella sua disamina di ciò che si deve intendere per “prossimo” – da avvicinare senza pretesa di adeguarlo, o inglobarlo in noi -, per “nemico” – che deve rimanere tale pur nella comprensione -, per “amore”, che è cosa diversa dalla benevolenza, dalla concordia, dall’eros. Ma forse per un lettore sarebbe risultata più provocatoria e pungolante una lettura che contestasse il massimo comandamento, chessò: hobbesiana, stirneriana, nietzschiana, non del tutto e non solo evangelica.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/ama-prossimo-tuo-Bianchi-Cacciari.html      5 settembre 2016

RECENSIONI

BIANCIARDI

LUCIANO BIANCIARDI, GARIBALDI – MINIMUM FAX, ROMA 2020

Le edizioni Minimum Fax hanno ripubblicato la biografia di Garibaldi scritta da Luciano Bianciardi cinquant’anni fa: iniziativa lodevole e interessante, poiché si tratta di un testo vivace, scorrevole nella prosa, puntuale nelle ricostruzioni storiche.

Il profilo biobibliografico e la bibliografia dell’autore sono a cura di Fabio Stassi, che mette affettuosamente in luce la tormentata vicenda esistenziale di questo outsider della nostra letteratura, “un fuori misura” che stava “al mondo come per sbaglio”, “l’ultimo bohémien possibile”, come l’aveva definito Giovanni Arpino. Reso famoso dal romanzo La vita agra del 1962 (da cui Carlo Lizzani trasse un film con Ugo Tognazzi), Bianciardi era comunista e irriducibilmente ostile all’establishment culturale italiano che per tutta la vita cercò di ingabbiarlo, ammorbidendone carattere e ideologia. Nato a Grosseto nel 1922, morì non ancora cinquantenne, entrato “in una spirale autodistruttiva”, fatta di alcol, fumo e depressione. Era stato giornalista, straordinario traduttore dall’inglese e ottimo romanziere, nutrendo due grandi passioni: il calcio e il Risorgimento.

Il suo amore per questo periodo storico, iniziato già durante l’infanzia, trovò espressione in ben cinque libri, a partire dal 1960, fino all’ultimo dedicato all’eroe dei due mondi, uscito postumo nel 1972.
Garibaldi ripercorre la vita dell’unico grande condottiero rivoluzionario che ha avuto il nostro paese, a partire dalla nascita avvenuta il 4 luglio 1807 a Nizza, per ironia della sorte città passata alla Francia napoleonica qualche anno prima, poi tornata al Piemonte nel 1815, e definitivamente ceduta oltralpe nel 1859.

Ligure, soprattutto, ma anche francese e in seguito sudamericano, Giuseppe detto Peppino “veniva su dritto e robusto, non grande di statura ma con un bel portamento della testa bionda, della fronte ampia, della bocca facile al sorriso”. Generoso ed entusiasta di tutto, appassionato del mare, si imbarcò quindicenne come mozzo sul brigantino Costanza, dedicandosi da allora in poi alla vita marinara e al disegno insurrezionale di liberare l’Italia dal dominio straniero, trascinato dalla lettura di Saint-Simon e dei proclami mazziniani. Negli anni ’30, quando moti indipendentisti scuotevano tutta la nostra penisola, Garibaldi alimentava il suo anelito libertario: “dovunque vi siano tiranni, l’uomo giusto ha il dovere di accorrere e di battersi per la libertà dei popoli. Non basta amare il proprio paese e difenderne la libertà, occorre far sì che tutti i popoli si tolgano di dosso le catene”.
Condannato a morte in contumacia come cospiratore, riparato a Marsiglia e poi marinaio con tunisini e turchi, nel 1836 si imbarcò per Rio de Janeiro, dove venne accolto con entusiasmo dagli esuli italiani, si mise al servizio di ogni causa rivoluzionaria, a capo di ribelli, rivoltosi e pirati, dando inizio alla leggenda di coraggio e insubordinazione che lo accompagnò per tutta la vita.

Bianciardi racconta l’incontro con la diciottenne Anita, suo grande amore, moglie e madre dei suoi quattro figli, il ritorno in Italia nel ’48 (anno incendiario in tutta Europa) su una nave dal nome augurale, Speranza, il suo mettersi al servizio di principi, re, governi provvisori, a capo di un piccolo esercito di volontari straccioni, braccato dagli austriaci e sempre scampato all’arresto. Piemonte, Lombardia, Toscana, Roma eterna e papalina, Romagna, e qui la morte di stenti di Anita, la sua sepoltura “sconsacrata e frettolosa”.  Di nuovo in fuga, protetto ovunque da una rete di solidarietà popolare, fuggiasco a Tunisi, a Tangeri, a New York, a Panama, a Lima, a Canton, infine tornato in Europa nel 1854, dove ad aspettarlo c’era il re del Piemonte Vittorio Emanuele II con il suo Primo Ministro Cavour.

Il resto è storia, da tutti conosciuta e riportata in ogni libro scolastico: Quarto, Palermo, il notissimo “Obbedisco”, Mentana, Digione, fino al tramonto a Caprera. Tra la solitudine e l’inazione nell’isola sarda e l’elezione a deputato in Parlamento nel ’75, mentre intorno a lui morivano Mazzini, Manzoni, Vittorio Emanuele, Garibaldi malato ma circondato dall’amore dei figli e della terza moglie  Francesca Armosino, dettava il suo testamento, ferocemente anticlericale e fieramente repubblicano, e lasciava la terra il 2 giugno 1882, sepolto a Caprera alla presenza di quattromila persone: ministri italiani e stranieri, vecchi garibaldini, commossi estimatori di tutti i ceti sociali.

Nella postfazione al volume, Giancarlo De Cataldo giustamente sottolinea come da un “anarchico, ribaldo… al culmine di una vita urlata, di un’esistenza ‘contro’” come Luciano Bianciardi, ci si potesse aspettare una demitizzazione, una desacralizzazione della figura di Garibaldi, e non invece un così dichiarato amore, una tale rispettosa fedeltà, da “tifoso accanito”. In realtà, nell’esaltazione del grande combattente rivoluzionario – su cui in anni a noi più vicini era calato il velo dell’indifferenza e di una esibita antiretorica -, lo scrittore toscano aveva ancora una volta messo in luce il suo anticonformismo: “Credere in quella stagione eroica e nella sua persistenza nel tempo è l’atto di fede di un laico che, per quanto disincantato, ha individuato una bandiera nella quale riconoscersi e si ostina a sventolarla ad onta del generale scetticismo”.

 

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RECENSIONI

BIANCONI

SANDRO BIANCONI,  I DUE LINGUAGGI – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Sandro Bianconi, noto sociolinguista ticinese, a un decennio di distanza dal suo discusso Lingua matrigna. Italiano e dialetto nella Svizzera italiana (Bologna 1980), ha pubblicato un nuovo volume destinato, come il primo, a smuovere le acque – piuttosto stagnanti – della ricerca linguistica dentro e fuori il Ticino, e a costituire allo stesso tempo un punto fermo della teorizzazione e un pungolo vivace al confronto. Infatti questo I due linguaggi, edito da Casagrande di Bellinzona, dichiara coraggiosamente e polemicamente i suoi obiettivi già dal sottotitolo (Storia linguistica della Lombardia svizzera dal ‘400 ai nostri giorni) e, in modo più esplicito, nell’introduzione. Definire il Ticino “Lombardia svizzera” è già prendere posizione contro certo sciovinismo e revanchismo che vorrebbero contrapporre la cultura di questo cantone a quelle confinanti, quasi fosse autoctona e assolutamente originale: «Lo spazio oggetto della mia ricerca coincide con quello delle pievi lombarde ambrosiane e comasche, che oggi costituiscono il Canton Ticino. E’ lontanissima da questo lavoro qualsiasi tentazione di riesumare scheletri (tuttora purtroppo presenti in certi armadi), quali “il genio ticinese” e simili. Lo ripeto: queste comunità non sono mai state una realtà unica, a sé stante, svizzere o ticinesi: si farà, quindi, la storia linguistica di una regione lombarda di frontiera, simile alle altre regioni lombarde alpine o prealpine: dal Comasco alla Valtellina alle valli bergamasche…».

Il titolo I due linguaggi sta ad indicare le due anime e le due culture da sempre presenti nella Lombardia Svizzera, tradotte nel binomio lingua/dialetto, in una diglossia vissuta come arricchimento e senza particolari traumi fino a questo secolo, e che solo oggi sembra essere sfociata in uno stato di disagio non solamente linguistico. Il volume si divide in tre parti, corrispondenti a tre periodi storici, e ben enucleate dai titoli : I. Italiani, II. Italiani svizzeri, III. Svizzeri italiani. La prima parte, Italiani, comprende il periodo di totale appartenenza al Ducato di Milano, tra il 1400 e i primi decenni del 1500, quando il ruolo del volgare nello scritto è ancora subalterno a quello del latino, e nei documenti si riscontra un predominio del modello cancelleresco con qualche variante di italiano regionale e presenze di frequenti toscanismi. Nonostante sia questa la sezione ovviamente più ridotta e forse meno stimolante del volume, tuttavia vi si possono ritrovare testimonianze di esemplare ricchezza e interesse sociale: ad esempio la condanna alla tortura di un ladro di Morbio Inferiore, colpevole di aver rubato tra l’altro «un paro de calzette rosse…». La seconda sezione, Italiani svizzeri, è la più consistente sia dal punto di vista quantitativo, sia per l’importanza dei documenti presentati e delle conclusioni raggiunte. Nell’età compresa tra il 1513 e il 1798, tuttora poco indagata dagli storici, caratterizzata dalla dominazione dei cantoni svizzeri e dalla costituzione dei Baliaggi svizzeri d’Italia, la gente ticinese si considerava con ovvietà lombarda, e riteneva Milano e Como tra i suoi veri centri di riferimento culturale: «Il sentimento di identità della gente cisalpina è rimasto costantemente e serenamente italiano sino all’affermazione concreta e definitiva dell’autonomia cantonale verso la metà dell’800!»

Gli elementi di italianizzazione del linguaggio si moltiplicavano allora con evidente vitalità, quasi a garanzia di una maggiore apertura culturale e sociale: i vivaci commerci transalpini, l’emigrazione qualificata di artigiani e artisti, la predicazione e il catechismo cattolico, le scuole parrocchiali e i collegi più esclusivi, tutto contribuiva alla diffusione e alla penetrazione della lingua italiana anche nel Ticino più interno. Fondamentali appaiono qui almeno due aspetti di quelli segnalati da Bianconi: in primo luogo l’importanza dell’emigrazione dei maestri d’arte ticinesi, che ha decisamente contribuito ad aprire le comunità cisalpine al mondo (creando una serie di bisogni culturali nuovi quali l’esigenza di comunicare per scritto con la famiglia rimasta in Svizzera e la conseguente richiesta d’istruzione; l’imperativo di comprendere l’italiano regionale e di adattarvisi; il confronto con esperienze artistiche e urbanistiche diverse e stimolanti); in secondo luogo, il ruolo avuto dalla Chiesa nel campo dell’alfabetizzazione popolare già a partire dal 1300, e più decisamente ancora dopo il Concilio di Trento, per cercare di contenere l’espansione del protestantesimo (e quindi le frequenti visite pastorali dei vescovi di Milano e Como, l’istituzione di seminari, l’apertura di scuole popolari e di collegi, in particolare dei Gesuiti e dei Padri Somaschi).
Sfruttando una vastissima documentazione storica, faticosamente recuperata attraverso accurate ricerche sia in archivi pubblici che in fondi privati quali quello della famiglia Oldelli di Meride, Bianconi riesce ad abbattere un pregiudizio diffuso e confortato da numerose teorie accademiche (cfr. pag. 57, 170, 205: l’autore si contrappone pressoché a tutto il Gotha linguistico italiano, Migliorini, Devoto, Dionisotti, De Mauro, Durante, Bruni, Marazzini…), e cioè che la popolazione delle vallate cisalpine comunicasse oralmente solamente in dialetto, e che l’italiano fosse invece riservato solo ai ceti alti, ai letterati e ai documenti scritti. Sulla base di numerose lettere private, di diari e inventari, di atti processuali e di rapporti ufficiali, Bianconi dimostra al contrario che la competenza almeno passiva dell’italiano era molto diffusa anche tra gli strati bassi della popolazione, e afferma che «la pluralità di usi linguistici, sia scritti che parlati, in funzione di situazioni comunicative diversificate, induce a ritenere plausibile l’esistenza di una situazione di diglossia con bilinguismo sociale sin dal ‘500».

Sempre dalla stessa data, lo studioso fa partire una situazione di bilinguismo italiano-tedesco al livello di dibattimenti processuali e degli atti ufficiali: «L’atteggiamento degli Svizzeri nei confronti dell’aspetto linguistico sembra essere stato, in generale, rispettoso della specificità italiana della popolazione cisalpina, tuttavia con eccezioni: ad esempio, l’imposizione del tedesco nella cause portate davanti ai cantoni sovrani…L’ordinamento amministrativo elvetico e l’adozione di alcuni usi del diritto tedesco portarono ben presto all’introduzione nel lessico regionale cisalpino, di livello ufficiale e settoriale giuridico-amministrativo, di una serie di termini tedeschi…».

Sono le prime avvisaglie di una situazione linguistica difficile, quale quella presa in considerazione nella terza parte del volume, che riguarda il periodo più vicino a noi, quando sorgono le più problematiche crisi di identità per il cantone ticinese, avviato a diventare autonomo e ancora alla ricerca di una propria voce, sempre nell’ambiguità tra accenti svizzeri e italiani. Svizzeri italiani si intitola appunto quest’ultima sezione, in cui Bianconi riesce a cementare le sue tesi linguistiche basandole su ben determinati avvenimenti economici, sociali e di costume, come l’emigrazione di massa, le frequenti carestie, la dichiarazione di autonomia (1803) e l’adozione della Costituzione Federale del 1874, l’apertura della galleria ferroviaria del Gottardo nel 1882 e infine l’istituzione della diocesi di Lugano.

«Questi eventi di natura politica, economica e culturale accentuano e portano a conclusione il processo di formazione dell’identità cantonale e nazionale, nel senso della crescita del sentimento di appartenenza alla Svizzera e di distacco e differenziazione dalla Lombardia e dall’Italia. Questo processo si attua con grosse difficoltà, risentimenti, diffidenze e polemiche… Così che l’identità cantonale finisce col nascere reattivamente e polemicamente, sia nei confronti dei confederati, in particolare degli svizzeri tedeschi, sia nei confronti degli italiani: nella paura di una possibile fagocitazione da nord, col rischio di estinzione economica, culturale e linguistica, e di un’annessione da sud, e quindi cancellazione politica. Nasce in questo periodo, e in questo contesto sociopolitico-economico e culturale, la nuova identità cantonale, ambigua e problematica, inserita com’è nella doppia tensione di appartenenza/esclusione politica, economica, culturale e linguistica, e che sfocia nel progetto illusorio di fondare la propria specificità autarchicamente, nel nome della propria unicità e diversità».

Come si vede, Bianconi non ha paura di usare parole forti per suffragare le sue tesi forti, né di essere accusato di “fare politica” occupandosi di dati storici e sociali, o riportando i dati allarmanti sulle percentuali costantemente calanti di italofoni in Ticino. D’altra parte, la sociolinguistica è scienza solitamente applicata all’indagine del presente, in qualche modo, quindi, “ideologica”, soprattutto quando, come qui, viene adoperata per lo studio del passato. Bianconi si è assunto il rischio di un approccio innovativo e polemico a una materia in genere affrontata con metodi paludati, e giustamente se ne compiace:

«Sono in ogni caso consapevole dei rischi che comporta, malgrado il rigore metodologico e la ricerca dell’oggettività, un approccio contemporaneo al passato,il dialogo tra l’oggi e l’ieri: ma non vedo altra possibilità di fare storia».

 

«Agorà» (Svizzera), 5 luglio 1989

RECENSIONI

BIDOIA

NICOLETTA BIDOIA, COME I CORALLI – LA VITA FELICE, MILANO 2014

Le tre sezioni che compongono il libro di Nicoletta Bidoia ruotano tutte intorno al tema della felicità della narrazione, del racconto in versi, in un linguaggio assolutamente privo di qualsiasi artificiosità, che sembra avere come fine ultimo proprio quello della comunicazione, del rapporto paritario e reciproco con il lettore. «Questo è quello che ho da dirti», sembra suggerire Nicoletta, «e te lo dico in versi»: senza presunzione di innovazione linguistica, di originalità teorica, di abissali profondità emotive. «Pallidi, diremo: Tutto qui? Poi / -misterioso tacere di un impero-  / nell’oblio rimane solo il bianco duro/ di un segreto».

Così si conclude la poesia che dà il titolo al volume, iniziata con queste icastiche parole: «Il corallo è come noi. Pare uno, / ma sono tanti i tremori che lo fanno». Dunque la prima sezione, Novecento, è tutta all’insegna di una recuperata saga familiare così come si è svolta nei decenni di un secolo: nella ricostruzione di una «filigrana di destini», dell’ «albero della vita», di una «dinastia», di «radici» e della «diramazione di un nome». La poetessa narra dei suoi parenti, del nonno ultranovantenne prigioniero nell’ultima guerra, nella «bufera della storia», di parenti suicidi («Quando scese in garage assicurò / il suo saluto al nodo»), oppositori politici, figli illegittimi, rinomati artigiani, vittime di amori clandestini, appassionati di lirica («loggioni come il pane quotidiano, / grande beatitudine, strade e sdegno»). La seconda parte del libro modula le diverse cadenze del silenzio: quello freddo dei morti, quello pudico degli innamorati, o mistico nelle chiese, o commosso da troppa felicità, o colpevole e mortale: «Tradisci così, silenzio, / fragile nascondiglio». La terza sezione, Parlami, è la più eterogenea, con un suo pressante invito al confronto: aperta alla meditazione sulla natura, sull’ingiustizia sociale e politica, sull’amicizia e sull’amore, quasi chiedendo conforto a chi legge in un incalzare di interrogativi che rivelano la propria fragilità, e la fragilità stessa della poesia, insostituibile scandaglio dell’anima: «Ma tu credi davvero a questo temporale nell’afa? / Che rinfreschi la mente arrossata dal pianto? / Che lavi via subito le ore insonni a girarsi / nel rovello di un letto? // Non so, domando».

 

«Leggere Donna» n.163, luglio 2014