Mostra: 191 - 200 of 1.376 RISULTATI
RECENSIONI

BLOOM

HAROLD BLOOM, L’ARTE DI LEGGERE LA POESIA – RIZZOLI, MILANO 2010

Questo volume pubblicato dal grande critico americano nel 2004, e tradotto da noi nel 2010, è stato molto probabilmente pensato e scritto per un pubblico anglofono, ma risulta assolutamente interessante anche per i lettori italiani, in particolare per le definizioni che l’autore dà della poesia. “La poesia è essenzialmente linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e al contempo evocativa”; “La forza poetica potrebbe essere definita fusione di pensiero e ricordo talmente inestricabile da non permettere al lettore di separare i due processi…Il pensiero letterario si basa dunque sulla memoria letteraria, e il dramma del riconoscimento prevede, in ogni scrittore, un momento di confronto con una versione anteriore del proprio io o di un altro autore”; “L’arte di leggere una poesia inizia dalla comprensione dell’allusività”; “La grande poesia possiede un’inevitabilità di enunciazione”… Incuriosisce poi l’esplicita e perentoria affermazione di gusti letterari che Harold Bloom condivide con il suo pubblico: dalla scontata passione giovanile per Chaucer e Shakespeare (attraverso Spenser e Milton, fino a tutti i tardo-romantici), al rispetto più tardivo per la scrittura “arguta e ironica”, culminata nella produzione di Eliot e Auden. La sua antipatia per la poesia di Poe è manifesta e dichiarata (“è vittimista e metricamente maldestro…i suoi versi sono scontati, meccanici e ripetitivi”); altrettanto evidente l’ammirazione per Emerson, Whitman (“il migliore tra tutti i poeti statunitensi”), Wallace Stevens e per Hart Crane, di cui commenta sapientemente e con entusiasmo i versi di “Viaggi II”. Se la poesia deve mantenere una sorta di “stranezza” di significato, che la preservi dalla ripetitività, da tutto ciò che è scontato e banale, il suo senso ultimo risiede comunque nella capacità di produrre un cambiamento nella coscienza di chi la legge: “La missione della grande poesia è dunque aiutarci a diventare liberi artefici di noi stessi”.

IBS, 29 luglio 2013

RECENSIONI

BOBE

RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, ELOGIO DEL NULLA – SERVITIUM, MILANO 2010

L’editrice Servitium da anni propone una “Collana di sollecitazioni culturali per amare la lettura, lo studio, e alimentare il gusto di pensare”. Si tratta di piccoli, raffinatissimi libri di spiritualità, che si presentano in elegante veste grafica: scritti da autori internazionali e di fedi differenti, sono introdotti in genere da commentatori altrettanto prestigiosi: nel caso in questione, ci troviamo davanti a un volumetto con originale francese a fronte, che comprende i testi di due importanti uomini di cultura, noti per la loro sensibilità filosofica e il loro sguardo acuto e lieve sulle cose del mondo e dell’animo umano
Christian Bobin è un autore francese sessantenne, che qui si misura con temi altissimi: il senso della vita, il rapporto con gli altri, il valore della conoscenza e della scrittura. Sono una decina di pagine preziose, che parlano dell’attesa (“è un fiore semplice: germoglia sui bordi del tempo”), dell’esperienza (“quello che attraversiamo ci cambia: il vento si ingolfa nel sangue”), dell’ amore (“ci solleva da tutto, senza salvarci da nulla”), della natura (“all’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa”), con l’invito a liberarsi da costrizioni varie, imparando a conquistare la gioia “là dove non c’è più niente da afferrare, se non l’inafferrabile”.

Felicità pura, senza motivi esteriori: “si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto?” Le intense pagine di Christian Bobin sono introdotte da un breve saggio di Mario Bertin, di cui conosciamo uno splendido Salmo composto anni fa, ricco di tensione e di ricerca, scabro nei versi e profondamente spirituale. Del tutto in sintonia con il sentire di Bobin, Bertin ne mette in luce la ricerca di autenticità, la capacità di stupirsi, l’attenzione grata a ciò che è fragile e non appariscente, individuando nella sua scrittura “come un francescano sottrarsi al mondo, per incontrare la vita nel suo momento sorgivo, il solo grembo della parola nuova, della parole inedita”.

Un Elogio del nulla che si oppone all’esaltazione del troppo, del superfluo, dell’esibizione inutile.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Elogio-del-nulla-Christian-Bobin.html         13 ottobre 2016

 

RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, FRANCESCO E L’INFINITAMENTE PICCOLO – SAN PAOLO, MILANO 2011

Christian Bobin è uno scrittore di Dio e dell’assoluto, del Vicino-Lontano, dell’Antico dei giorni (per dirla con i mistici): ma non ne scrive come ne scrivono i religiosi, con rispetto e timore, e con qualche retorica. Lui che non è né monaco né prete parla dell’Altissimo con un trasporto lieve e sorridente, con un’affettuosa serenità di spirito, si direbbe con leggiadria: quasi inevitabile, quindi, che vent’anni fa abbia pubblicato in Francia un libro di grande successo e molto premiato -e in Italia arrivato all’ottava edizione presso le Paoline-, dedicato alla figura di Francesco d’Assisi: il santo della gioia, delle cose piccole e di tutte le creature. Ma precisa subito, prima di addentrarsi in una biografia che biografia propriamente non è (semmai ripercorso a tappe, a snodi fondamentali dell’avventura di un’anima), precisa appunto che “non esistono santi. Esiste solo la santità. La santità è gioia”. E allora il leit motiv di questo libro sarà appunto una ricerca continua della letizia nel cuore di Giovanni/Francesco, da quando era ancora nel ventre di sua madre (e sono delicatamente appassionate le pagine che Bobin dedica alla maternità e più in generale alla grandezza di essere donna), e poi alla sua infanzia e giovinezza, alla scelta di un’esistenza votata a Dio e alla povertà, con l’allontanamento dalla famiglia d’origine e da ogni lusso e lussuria (“Come dire ai vostri cari: il vostro amore mi ha fatto vivere, ora mi uccide? Come dire a quanti vi amano che non vi amano?”). E il santo-folle, il santo-ragazzo, il santo che sorride “prende in prestito la voce dell’Infinitamente Piccolo, mai quella dell’ Altissimo”: sceglie i passeri, gli animali, la natura, i pitocchi e i lebbrosi. Sceglie il tutto che lo circonda “perché tutto è dotato di senso nell’amore insensato”. E la sua promessa alla Chiesa coniuga “l’obbedienza scrupolosa con la libertà più sovrana”: ma alla pesantezza di una religione intesa come istituzione antepone un Dio immenso che vive nella fragilità e nel giubilo dell’anima.

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Francesco-infinitamente-piccolo-Bobin.html     «sololibri», 16 gennaio 2018

RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, IL DISTACCO DAL MONDO – SERVITIUM, MILANO 2002

Sono state soprattutto le case editrici di ispirazione cattolica (Servitium, Qiqajon, San Paolo, e recentemente la pugliese AnimaMundi) a introdurre in Italia i libri di Christian Bobin, scrittore francese nato nel 1951, che tuttavia non si può definire un autore clericale, o particolarmente fedele all’ortodossia ecclesiastica. La sua è una produzione meditativa e raccolta, di prose poetiche intense, miranti al recupero di una dimensione spirituale dell’esistenza, illuminata da momenti epifanici di grazia, di rivelazione.

Di sé ha scritto: «Quel che si dice in me non sta nei miei libri. I libri sono un controrumore al rumore del mondo. Quel che si dice in me si confida al silenzio, non è altro che silenzio. I libri sfiorano questo silenzio». Il silenzio, la quiete, il ritrarsi da ciò che distrae e confonde, raccogliendosi nell’intimità del cuore, è anche la tessitura tesa alla base di questo libriccino, Il distacco dal mondo, che in ogni pagina condensa un insegnamento sapienziale, senza presunzioni o retorica, quasi che l’autore parlasse tra sé e sé, con scarsa attenzione a un eventuale pubblico di lettori. Non c’è declamazione, né intento pedagogico: solo umile riflessione, indagine del pensiero interrogante.  «Se consideriamo la nostra vita nel suo rapporto col mondo, dobbiamo resistere a quel che pretendono fare di noi, rifiutare tutto ciò che si fa avanti – ruoli, identità, funzioni – e soprattutto non cedere mai nulla della nostra solitudine e del nostro silenzio… Da un lato rifiutare tutto, dall’altro tutto accordare… il mondo s’allontana nel tempo stesso che l’eterno si avvicina, silenzioso e solitario», «L’amore è distacco, oblio di sé… Meglio sarebbe chiederci che cosa ci rende tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra vita, il che equivale a domandarci perché ci è così difficile amare».

Christian Bobin invita a ritrovare nel proprio io, gonfio di cose inutili e poco concentrato su quello che conta davvero, lo stesso abbandono fiducioso del bambino che si addormenta nel chiasso della folla, che impara a parlare innamorandosi del suono di ogni vocale, o che si impegna nel suo gioco con la stessa dedizione dei santi. L’unica santità possibile consiste infatti nell’accorgersi del bene, ovunque esso si annidi: lo ha insegnato Francesco d’Assisi, con la sua gaiezza e povertà, con la sua vicinanza a tutte le creature (a lui anni fa Bobin ha dedicato un libro, Francesco e l’infinitamente piccolo). Dovremmo recuperare la leggerezza «dell’uccello che per cantare non ha bisogno di possedere il bosco, nemmeno un solo albero», e la volontà di compiere ogni atto, anche il più banale e quotidiano, con la massima applicazione, perché questa cura verso le cose minime si riflette immancabilmente nell’ordine universale. Consapevoli della nostra inessenzialità, impariamo a conquistare l’essenziale: «Riconosco lo splendore del vero soltanto nella gioia e in quella coscienza di noi stessi che l’accompagna sempre, la coscienza radiosa di non essere nulla».

Autore molto letto e molto amato in Francia, questo poeta del poco, indifferente ai palcoscenici, alle cattedrali e ai salotti, deve ancora ottenere un pieno riconoscimento qui in Italia. Ma per lui anche saper aspettare, senza allontanarsi troppo dalla propria attesa, rimane comunque un privilegio.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Il-distacco-dal-mondo-Bobin.html    13 novembre 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, LA PRESENZA PURA – ANIMAMUNDI, OTRANTO (LE), 2019

Aforismi, meditazioni, riflessioni poetiche, preghiere laiche… Come definire le prose di Christian Bobin, scrittore francese nato nel 1951, autore negli ultimi decenni sempre più tradotto, letto e ammirato anche in Italia? Filosofo e maestro di pensiero, oscillante tra un cristianesimo di tipo francescano e un buddismo meditativo, offre ai lettori la sua visione del mondo con una pacatezza gentile e discreta, priva di qualsiasi boria o pretesa di conversione. Parla della natura e di Dio, del rapporto con il prossimo e con il tempo che scorre, della grazia dei gesti e della riconoscenza che dobbiamo al semplice fatto di esistere.

Nell’ultimo volumetto pubblicato dalle edizioni pugliesi Animamundi, La presenza pura, il tema fondamentale è la capacità di interrogare sé stessi attraverso il dialogo sommesso con interlocutori muti. Un albero piantato di fronte alla finestra della sala, solido e severo custode dei giorni e delle notti dello scrittore, gli impartisce quotidianamente insegnamenti silenziosi attraverso lo spuntare e il cadere delle foglie, l’ombra stagliata sul terreno, lo stormire dei rami nella tempesta. La sua presenza è rassicurante anche nella notte, “come per il bambino perduto nel sonno la voce dei genitori nella stanza accanto”. L’albero accoglie senza ribellione l’alternarsi di luce e buio, i passeri che si nascondono tra le sue fronde, il vento che si abbatte sul suo tronco: così fermo e indifeso come il padre dell’autore, malato di Alzheimer e ricoverato in una clinica di lunga degenza, assistito malvolentieri da infermieri impazienti, ridotto al silenzio: l’albero e il vecchio padre, entrambi immobili e fuori dal tempo. “C’è in me una tomba”, breve frase pronunciata dall’anziano genitore, e subito cancellata dalla sua memoria. Il figlio lo va a trovare, spesso senza essere riconosciuto, lo prende per mano e lo accompagna in refettorio o a passi brevi in giardino, gli parla e non ottiene risposta. Presenza viva e inanimata come quella dell’albero, che si accontenta anche solo di respirare. Nel ricovero non si vede “nient’altro che la vita secca, ciascuno aggrappato al suo piccolo scoglio finché la fatica convince di abbandonare la presa – allora è l’inghiottimento, la grande onda della morte bianca”. Intorno cambiano le stagioni, d’inverno la neve attutisce ogni suono e ogni dolore: anche le urla dei degenti, che spesso chiamano la mamma, tornando bambini. Sono “re senza cortigiani”; regale, solitario, zitto è anche l’albero amico.

Nell’intensa prefazione al libro, Lorenzo Gobbi mette in luce la dote più rilevante di Christian Bobin: il pudore con cui si avvicina a cose e persone, “nel timore di essere importune”: lo sguardo umilmente empatico, intenerito e insieme intimo con cui sa descrivere “la presenza pura” di ogni esistenza, prestando attenzione soprattutto a quello che è piccolo e sottovalutato: “Ciò che in noi è ferito chiede asilo alle più minute cose della terra, e lo trova”. Simone Cristicchi, che firma la pagina iniziale del testo, saluta Bobin “canale di bellezza e meraviglia … la cui poesia ha radici piantate in cielo”.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/La-presenza-pura-Bobin.html             26 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, L’UOMO DEL DISASTRO – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2015

 

Christian Bobin (Le Creusot, 1951), vissuto sempre in maniera appartata nei dintorni della sua cittadina natale, in Borgogna, ha studiato filosofia dedicandosi alla meditazione e alla scrittura, e lavorando in passato come operaio e infermiere psichiatrico. Tradotto per la prima volta in Italia dalle edizioni San Paolo nel 1996, ha visto crescere negli anni il numero dei suoi lettori ed estimatori, per la qualità del suo timbro narrativo pacato e sobrio, e per la profondità delle sue riflessioni.

Bobin nelle sue pubblicazioni, che spesso consistono in plaquette di poche pagine, si confronta con temi altissimi: il senso della vita, il rapporto con gli altri, il valore della conoscenza e dell’amore, il vuoto e l’assoluto. Non lo si può definire un autore clericale, o particolarmente fedele all’ortodossia ecclesiastica: la sua è una produzione meditativa e raccolta, di prose poetiche intense, miranti al recupero di una dimensione spirituale dell’esistenza, illuminata da momenti epifanici di grazia e di rivelazione.

In Elogio del nulla, ad esempio, si oppone all’esaltazione del troppo e del superfluo, all’esibizione ostentata, lodando invece l’importanza dell’attesa (“è un fiore semplice: germoglia sui bordi del tempo”), dell’esperienza (“quello che attraversiamo ci cambia: il vento si ingolfa nel sangue”), dell’ amore (“ci solleva da tutto, senza salvarci da nulla”), della natura (“all’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa”), con l’invito a liberarsi da costrizioni inutili, imparando a conquistare la gioia “là dove non c’è più niente da afferrare, se non l’inafferrabile”. La felicità cui ambire deve essere pura, priva di motivazioni e fini esteriori: “Si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto?”

Credente, ma di una fede non circoscritta al cattolicesimo, parla di Dio con trasporto lieve, con affettuosa serenità di spirito: pressoché inevitabile, quindi, che venticinque anni fa abbia pubblicato in Francia un libro di grande successo e molto premiato ‒ in Italia arrivato all’ottava edizione presso le Paoline ‒, dedicato alla figura di Francesco d’Assisi: il santo della gioia, delle cose minute e di tutte le creature. In Francesco e l’infinitamente piccolo, alla pesantezza di una religione intesa come istituzione e obbligo antepone una spiritualità luminosa e confidente. Poeta del poco, indifferente ai palcoscenici, alle cattedrali e ai salotti, di sé ha scritto: “Quel che si dice in me non sta nei miei libri. I libri sono un contro-rumore al rumore del mondo. Quel che si dice in me si confida al silenzio, non è altro che silenzio. I libri sfiorano questo silenzio”.

Il silenzio, la quiete, il ritrarsi da ciò che distrae e confonde, è anche la tessitura tesa alla base de Il distacco dal mondo, che in ogni pagina condensa un insegnamento sapienziale, lontano da ogni presunzione o retorica, quasi l’autore scrivesse con scarsa attenzione a un eventuale pubblico di lettori. Non c’è declamazione, né intento pedagogico: solo raccolta riflessione, indagine del pensiero interrogante.  “Se consideriamo la nostra vita nel suo rapporto col mondo, dobbiamo resistere a quel che pretendono fare di noi, rifiutare tutto ciò che si fa avanti – ruoli, identità, funzioni – e soprattutto non cedere mai nulla della nostra solitudine e del nostro silenzio…”,  “L’amore è distacco, oblio di sé… Meglio sarebbe chiederci che cosa ci rende tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra vita, il che equivale a domandarci perché ci è così difficile amare”.

Bobin invita a ritrovare nel proprio io, gonfio di cose inutili e poco concentrato su quello che conta davvero, lo stesso abbandono fiducioso del bambino che si addormenta nel chiasso della folla, che impara a parlare innamorandosi del suono di ogni vocale, o che si impegna nel suo gioco con la dedizione propria dei santi. Dovremmo recuperare la leggerezza “dell’uccello che per cantare non ha bisogno di possedere il bosco, nemmeno un solo albero”, e la volontà di compiere ogni atto, anche il più banale e quotidiano, con la massima applicazione, perché questa cura verso le cose minime si riflette immancabilmente nell’ordine universale. Consapevoli della nostra inessenzialità, impariamo a conquistare l’essenziale: “Riconosco lo splendore del vero soltanto nella gioia e in quella coscienza di noi stessi che l’accompagna sempre, la coscienza radiosa di non essere nulla”.

Ancora, in Mozart e la pioggia: “I momenti più luminosi della mia vita sono quelli in cui mi accontento di vedere il mondo apparire. Questi momenti sono fatti di solitudine e silenzio. Sono sdraiato su un letto, seduto a una scrivania o cammino per strada. Non penso più a ieri e domani non esiste. Non ho più legami con nessuno e nessuno mi è estraneo. Questa esperienza è semplice. Non c’è da volerla. Basta accoglierla quando arriva. Un giorno ti sdrai, ti siedi o cammini, e tutto ti viene incontro senza fatica”.

Due letttori doc di Christian Bobin, Franco Arminio e Mariangela Gualtieri, hanno detto di lui: “Bobin sembra che scriva frasi fatte apposta per essere citate. E ancora più incredibile è che questo autore riesce sempre ad assomigliarti. Tu leggi e pensi che sta scrivendo come scrivi tu, come pensi tu, come senti tu”, “La scrittura di Bobin è certamente poesia, perché è colma di silenzio, perché ha al proprio centro il silenzio: lo suscita, lo impone alla lettura, come respiro obbligato, come passo di forte e lento camminatore… cosicché da lettori si diventa auscultatori, da corridori distratti a meditanti, da divoratori onnivori ad attenti. Bobin dunque ci conduce fuori dall’ordinario, ci educa”.

La casa editrice Animamundi, fondata a Otranto nel 2012, sta dedicando molta attenzione all’opera di Christian Bobin, e in pochi anni ha pubblicato dodici suoi testi. Tra questi, forse il libro che più si allontana dalla produzione usuale e conosciuta dello scrittore francese è L’uomo del disastro, dedicato alla figura di Antonin Artaud.

Qui, l’urlo rabbioso di un teatrante angosciato si placa nel tratteggio lieve del filosofo, la fisicità del primo si disincarna nella spiritualità del secondo. Cinquantacinque anni dividono i due scrittori: “l’abbondanza di un dolore” che “esigeva l’impossibile”, il furore solitario della follia, la morte tragica e silenziosa di Artaud incontrano in Bobin la clemenza di un ascolto docile e amichevole, la consolazione di una comprensione tardiva e inutile. “Così eri tu, con un balzo saltavi nel cuore del reale, al centro della vita cruda, riaprendo ogni volta la ferita dei tuoi nervi, la piaga di un corpo soffocato nella pena di vivere senza vivere”, “Credo ci si ammali per intelligenza, per una intelligenza troppo esatta, troppo improvvisa, non acclimatata”.

La lettera ad Artaud, a un artista incompreso, all’uomo del disastro mentale, è quasi una richiesta di scuse proveniente da un paese intero che non ha saputo o voluto comprendere. Bobin si fa portavoce di questo senso di colpa collettivo: “Non scrivo su di te. Non scrivo un libro dotto”. Racconta d’altro, infatti, sfiorando i propri contenuti d’elezione: l’infanzia, il tempo, la vicinanza e l’indifferenza, il cielo vuoto, la malinconia e la speranza. Per avvicinare “un uomo che ha perduto la propria ombra… che va nel mondo come in un deserto… che sbraita contro Dio che manca”. Antonin Artaud, uomo senza misura, titanico, eccedente, nelle parole di un mistico si scontra con la misura per lui inaccettabile della pace interiore: mondi e pensieri inconciliabili, che nella scrittura cercano in modi diversi lo stesso scampo dall’inferno.

 

© Riproduzione riservata     «Il Pickwick», 28 dicembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BOCCADORO

CARLO BOCCADORO, ANALFABETI SONORI – EINAUDI, TORINO 2019

Leggendo il pamphlet che il compositore e musicologo Carlo Boccadoro ha dedicato alla ricezione contemporanea della musica, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni del grande critico letterario George Steiner, che riteneva il linguaggio musicale non umano, addirittura aldilà dell’umano perché alieno da verità e menzogna, e quindi estraneo all’asse della moralità: “La musica può governare la psiche umana con una forza di penetrazione forse paragonabile soltanto a quella dei narcotici o della trance di cui parlano gli sciamani, i santi e i visionari… ci può far impazzire e può curare la mente ferita… essa si collega all’internet dei nostri recettori in una chimica sottilissima eppure imperiosa”.

In Analfabeti sonori Boccadoro si occupa appunto di questo: quanto la qualità originale di un evento musicale viene rispettata e preservata nell’attuale trasmissione informatica, spasmodica, vastissima, incontrollata, pervadente? All’utente di Spotify viene garantita una fruizione intelligente, meditata, consapevole di ciò che ascolta? E al compositore di adesso, cui si offrono opportunità esplorative prima inesistenti, è assicurata la capacità di mantenere una creatività genuina, non contaminata?

Partendo da premesse generali sui dati sconfortanti che riguardano la promozione e la diffusione della musica classica ‒ in particolare di quella contemporanea ‒, l’autore constata quanto poco spazio le venga riservato dai media, scarsamente propensi a educare e informare il pubblico (brevi righe sono state dedicate dalla stampa alla morte di Pierre Boulez o di Miles Davis, rispetto ai fiumi d’inchiostro versati sulla scomparsa di icone del pop). La musica colta è considerata “un reperto sopravvissuto a un passato certamente illustre ma ormai costoso e inutile”, priva di futuro perché difficile da capire, male insegnata nelle scuole, poco sfruttata come evento culturale, nonostante si realizzino oggi molti nuovi lavori operistici, sinfonici e da camera di alto livello. Il repertorio attuale è ignorato per la diffidenza di sovrintendenti e direttori artistici che ambiscono soprattutto a riempire i teatri, ma anche per la scarsa iniziativa, la pigrizia mentale e il sospetto di direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti, i quali temendo fischi e contestazioni non si azzardano a proporre o a riproporre opere ritenute troppo innovative e di difficile collocazione.

Tanti sono i pregiudizi che precludono alla musica classica contemporanea l‘accesso alle sale di concerto: il primo è ovviamente quello della sua complessità, che ridurrebbe il suo bacino d’utenza (ma anche gli spartiti di Mozart o di Beethoven erano strutturati con estrema perizia formale, e non sono tuttora di semplice esecuzione!). Poi l’idea che la musica debba solo intrattenere, divertire, emozionare o consolare, mentre dissonanze e incomprensibili stravaganze finirebbero per urtare e irritare chi ascolta (tuttavia, il compito di chi scrive musica non è quello di rassicurare, bensì di porre interrogativi). Infine, che la musica d’avanguardia non si impegni ad avvicinare un pubblico più vasto, mentre è risaputo che numerosi compositori stanno azzardando nuove contaminazioni con il jazz e il rock, i generi popolari e minimalisti, le realizzazioni al computer o le suggestioni del mondo teatrale.

In realtà “per alcuni esecutori è molto più comodo adagiarsi sul repertorio tradizionale, senza dover studiare lavori che chiedano di estendere le proprie capacità percettive e tecniche… e molti organizzatori pensano unicamente in termini di business e numeri, usando questi ultimi come pretesto per eliminare tutto ciò che non ha un riscontro rapidissimo e di facile digeribilità”.

Carlo Boccadoro, che ha patito sulla sua pelle discriminazioni da parte di discografici e direttori artistici (come molti altri colleghi italiani: Giovanni Sollima, Luca Francesconi, Ivan Fedele, Fabio Vacchi, Giorgio Battistelli) parla delle sue esperienze con pacata amarezza, rilevando come da noi si tenda da sempre a penalizzare ogni novità, e a essere prevenuti per incompetenza. Molti sono invece i contemporanei felicemente e frequentemente eseguiti all’estero: non solo i più noti Arvo Pärt, Philip Glass, Osvaldo Golijov, John Adams, Michael Nyman, (conosciuti e trasmessi anche dalle nostre radio), ma gli altrettanto eccellenti Haas, Rihm, Widmann, Larcher, Glanert, Mazzoli, Abrahamsen, MacMillan, Adès, noti in Italia quasi solo agli addetti ai lavori. Non sono pertanto gli autori, ma i responsabili delle istituzioni culturali che dovrebbero incoraggiare una programmazione moderna costante, consapevole, varia e di qualità, per incrementare l’ascolto di musica classica d’avanguardia.

A questo scopo, un ulteriore stimolo potrebbe venire dalla rete, che ha completamente modificato il modo di produrre musica e di fruirne, permettendo a tutti di ascoltare qualsiasi melodia in diretta streaming, di assistere a concerti e registrazioni collegandosi a YouTube, di mescolare differenti generi musicali su Spotify. L’avvento dell’informatica nella composizione ha fornito nuove possibilità di esecuzione e di diffusione del suono, creando poliritmie ed espandendole spazialmente in luoghi chiusi o all’aperto, e ciò rappresenta indubbiamente una grande opportunità per chi scrive sul pentagramma. Ma quali sono i pericoli in agguato per i consumatori di brani online? Ogni novità viene frammentata in pre-ascolti su iTunes o in compilation offerte da altre piattaforme digitali, per lassi di tempo brevissimi poiché sembra che gli utenti non riescano a concentrare l’attenzione se non per pochi minuti, esaurendo ogni interesse verso qualsiasi tipo di approfondimento. Evidentemente, l’accelerazione della vita quotidiana e le troppe distrazioni imposte dai social e dall’uso del cellulare stanno abituando le persone alla facilità di proposte culturali ovvie, ripetute, veloci e circoscritte. Un’opera lirica o un’intera sinfonia vengono così inserite in internet solo se frazionate, e nei brani più memorizzabili, mai nella versione integrale che risulterebbe indigesta. Ciò produce negli ascoltatori “un vero e proprio analfabetismo sonoro di ritorno rispetto alle capacità di seguire strutture musicali che richiedano un tempo significativo per esistere”.

Così molti compositori, temendo di non riuscire a captare l’attenzione del pubblico, tendono a ripetere formule stereotipate che li rendano immediatamente identificabili e riconoscibili nella peculiarità del loro stile, e a ogni esibizione finiscono per riproporre solo moduli collaudati. Si ottiene in tal modo un azzeramento della qualità musicale, in una uniformità banalizzante e superficiale, come sta avvenendo in altri settori del mercato produttivo (moda, cucina, letteratura). A questo punto, forse solo la musica classica può rappresentare una ribellione all’omologazione preconfezionata che ci propinano i media e la rete, aiutandoci a fare della nostra vita qualcosa di più autentico e arricchente.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 11 luglio 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BOMPIANI

GINEVRA BOMPIANI, L’ULTIMA APPRIZIONE DI JOSE’ BERGAMIN
NOTTETEMPO, ROMA 2014

Ginevra Bompiani propone ai lettori in queste poche pagine un ritratto dello scrittore spagnolo José Bergamin (1895-1983), che fu combattente a fianco dei comunisti nella guerra civile, oppositore politico di Franco, due volte esule, animatore di riviste e pubblicazioni politiche e, verso la fine della sua lunga esistenza, sostenitore dell’indipendenza basca. Amico dei più importanti intellettuali contemporanei (Rafael Alberti, Garcia Lorca, Bunuel, André Malraux), Bergamin fu sempre e soprattutto amico del popolo, e dal popolo ricambiato con un affetto e un rispetto che rasentavano l’idolatria. Ginevra Bompiani lo conobbe negli anni ’60, e mantenne con lui un rapporto di reciproca stima e confidenza: ne ammirava la sterminata erudizione, l’acuta ironia, l’incredibile facondia, che si esprimeva in divertenti arguzie, stravaganti calembours, estemporanei ma profondissimi aforismi. La rievocazione del tempo trascorso in sua compagnia («un tempo così colorato, così vivo, così bagnato di emozione»), a discorrere di corride e d’altro (nei ristoranti, davanti a un piatto di “caldo de la casa”, con i camerieri che orecchiavano ammirati; oppure nelle passeggiate notturne attraverso Madrid) è velata da un sentimento di malinconica commozione, di consapevole, irreparabile perdita. Cosa raccontava Bergamin? «Non la vita, non le creature di Dio, non le continue catastrofi dell’esistenza, non le crudeltà, le empietà, le passioni: solo la lingua e i due luoghi nei quali raggiunge i limiti estremi di verità e menzogna: la poesia e la politica, Dio e il Diavolo».

E com’era, fisicamente? Magro, con mani e labbra sottili, «naso lungo, berretto basco, schiena un po’ curva, sguardo malinconico». La sua ultima apparizione, a 88 anni, fu sul pianerottolo di casa, con l’improvvisazione di qualche passo di flamenco, come sapeva fare lui, «per fondere, in un’essenza unica, la comicità e la grazia».

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

RECENSIONI

BONANNO

MARIO BONANNO, IL NEMICO NON È – PAGINAUNO, VEDANO AL LAMBRO (MB), 2021 p.148

L’editore PaginaUno ha da poco pubblicato Il nemico non è, volume in cui Mario Bonanno racconta come i più noti cantautori italiani si siano fatti portavoce della volontà popolare di impegno civile, di antagonismo di classe, di protesta politica, di pacifismo, negli anni appassionati in cui il conflitto sociale occupava le prime pagine dei quotidiani e le coscienze della gente. Bonanno (Catania, 1964) ha pubblicato diversi libri e saggi sulla canzone d’autore italiana.  Nel 2007 ha fondato il periodico Musica e Parole di cui è stato direttore fino al 2013, e oggi collabora a diverse testate giornalistiche, a blog e riviste.

Introducendo il suo saggio, sottolinea quanto sia cambiata la canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni del boom economico. Al paese depresso e sconfortato che tentava di risorgere moralmente ed economicamente servivano testi consolatori e incoraggianti, retorici, edulcorati, che offrissero modelli stereotipati di famiglia, amore, patria: Vola colomba, con cui Nilla Pizzi vinse a Sanremo nel 1952, era il prototipo del sentimentalismo più trito e inoffensivo. Ad esso si contrapponeva, già nel 1962, Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco, che raccontava di una relazione imperfetta, annoiata e vissuta con la consapevolezza sincera della relatività di ogni rapporto sentimentale. In seguito, sulla spinta delle canzoni di protesta provenienti da oltreoceano (Bob Dylan e Joan Baez), ma recuperando anche il repertorio popolare dei canti di lavoro di fine ottocento (la cui eco risuonava nella produzione di Pino Masi, Ivan Dalla Mea, Giovanna Marini, ecc.) e delle “canzoni della mala” (Strehler, Amodei, Fo, Svampa, I Gufi) portate al successo da Ornella Vanoni, iniziò a farsi strada la canzone d’autore, connotandosi come rappresentativa delle istanze politico-sociali di un intero decennio. Dopo il 1968, nuovi contenuti animarono testi e musiche di una schiera di cantautori che seppero trarre ispirazione e volontà di denuncia dalla storia contemporanea, aprendosi alla realtà circostante allora politicamente sensibile e attenta alle dinamiche di lotta e resistenza sia nei conflitti bellici internazionali, sia nello scontro esistente tra Potere e individuo.

La parte più corposa del volume di Mario Bonanno (il cui titolo è tratto da una canzone di Enzo Jannacci, Il monumento) riguarda i testi – riportati e commentati nella loro interezza – dei cantautori dichiaratamente schierati contro ogni tipo di violenza e ingiustizia.

Racconta quindi gli esordi corrosivi di Edoardo Bennato, violentemente antimilitaristici e polemicamente contrari a ogni indottrinamento ideologico impartito dalle istituzioni (famiglia, scuola, chiesa); l’insofferenza nei confronti di ogni  forma di sistema repressivo in Pierangelo Bertoli, fedele a un’accezione marxista di lotta di classe; l’umanesimo poetico di Massimo Bubola; l’ironia svagata ed evocativa di Mario Castelnuovo; il sarcasmo di Mimmo Cavallo; le rivisitazioni storiche di Edoardo De Angelis; la malinconica goliardia di Ivan Graziani; la vertiginosa dinamicità tra presente e storia di Mimmo Locasciulli; l’interesse per le aritmie sociali di Claudio Lolli, l’operaismo di Paolo Pietrangeli, il surrealismo di Gianfranco Manfredi.

Passa poi in rassegna il repertorio degli interpreti maggiori, illustrando le loro canzoni più agguerrite nel denunciare il sistema di potere che schiaccia, corrompe, disarma non solo attraverso lo schieramento di eserciti e l’armamentari bellico, ma anche con metodi educativi e repressivi che condizionano le esistenze dei singoli. Conflitti e soprusi che schierano “uomini contro altri uomini, idee contro altre idee, divise (mentali e non) contro divise”.

Il pacifismo di Fabrizio De André esprime forse il suo tratto ideologico preponderante: “L’idea di pace secondo De André è subordinata a una rivendicazione di libertà, di affrancamento, di presa di distanza dai (dis)valori borghesi. Passino essi da religione, guerre sante, governi e bandiere, di qualunque estrazione”. Il suo impegno pacifista, già esplicito in Fila la lana del 1965, anima canzoni diventate un simbolo dell’antimilitarismo: Girotondo, La ballata dell’eroe, La guerra di Piero, Fiume Sand Creek fino ad Anime salve, del 1996. Con lui, Francesco De Gregori ha rivestito un ruolo rivoluzionario nella nostra canzone d’autore, come portatore di un linguaggio formalmente inedito (“doppi e tripli sensi, ossimori, impennate, metonimie, simbologie palesi e/o sottese, sinestesie spiazzanti, apparenti nonsense”), attraverso cui veicolare contenuti di dirompente carica sovversiva, rileggendo memorie individuali e collettive senza alcuna pesantezza didascalica e restituendole al loro reale valore di testimonianza storica: 1940, Il cuoco di Salò, Pilota di guerra, La storia, Cercando un altro Egitto, Generale, Saigon, San Lorenzo. La ricca discografia di Eugenio Finardi lo indica come rappresentante di una generazione inquieta, alla ricerca di una propria identità, sia nell’ambito politico che in quello privato e familiare, avendo come elemento caratterizzante il rifiuto dell’autoritarismo e di ogni sopraffazione istituzionalizzata (Quando stai per cominciare, Giai Phong, Soweto). Di Ivano Fossati Bonanno mette in luce la sensibilità priva di declamazione con cui si suggeriscono stati d’animo interiori più che avvenimenti esterni (Dieci soldati, Poca voglia di fare il soldato, Speakering, L’abito della sposa, Bella speranza, Treno di ferro). Speculative, filosofiche più che politiche sono le ballate di Francesco Guccini (Amerigo, Eskimo, Auschwitz, Primavera di Praga, Il matto, Noi non ci saremo, L’atomica cinese, Il caduto), in cui il cantautore emiliano si interroga “sull’ambiguità che fa da    sfondo all’esistenza umana”. Con Vincenzina e la fabbrica Enzo Jannacci (“ossimoro vivente”) scriveva una poesia di epica quotidiana, estendendo il concetto di guerra allo sfruttamento sul posto di lavoro, tema ripreso in La costruzione. In Matto e vigliacco, un outsider della nostra canzone come Gino Paoli fece dell’obiezione di coscienza l’atto di disobbedienza civile per antonomasia. Il disincanto e la protesta di Luigi Tenco diedero voce al rifiuto della guerra in Io vorrei essere là e in E se ci diranno. Filosofia e storia nutrono le narrazioni di Roberto Vecchioni (Waterloo, Aiace, Gaston e Astolfo, Millenovantanove, Tema del soldato eterno e degli aironi, Il cielo di Austerlitz, Shalom).  Epos e impegno si ritrovano anche nella prima produzione di Antonello Venditti (L’orso bruno, Le cose della vita, Brucia Roma, Ma che bella giornata di sole).

A questo esauriente e dettagliato capitolo sui testi pacifisti e antimilitaristici, Mario Bonanno fa seguire altre importanti sezioni dedicate agli anni di piombo e alle istanze movimentiste del ’77, quando la contestazione si fece più dura, gli scontri di piazza più pesanti, la divaricazione tra società civile e classe diri gente sempre più accentuata: anni di stragi, di tentazioni golpiste, di lobby occulte. Ancora una volta furono gli stessi cantautori sensibili al disagio sociale a interpretare la rabbia popolare e la voglia di partecipazione e di cambiamento dello status quo. Giorgio Gaber firmava con La presa del potere e Io se fossi Dio “una radiografia impietosa delle cancrene di una nazione in rovina”.

Non solo colombe che volano, io tu e le rose, tuca-tuca e cuori matti, quindi, nel repertorio della musica leggera del nostro paese. Il nemico non è offre un’ampia e documentata rassegna di canzoni che, con la poeticità dei loro testi, hanno saputo opporsi alle logiche del mercato, del facile consumo, del disimpegno di massa, rifiutando l’enfasi e la retorica degli anni cinquanta, e offrendo un degno contraltare al vuoto e alla futilità della produzione attuale. Le due interviste a Finardi e Lolli riportate da Mario Bonanno a conclusione del volume ne suggellano meritevolmente il messaggio di risoluto impegno intellettuale e politico.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 17 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

error: Content is protected !!