Mostra: 231 - 240 of 1.362 RISULTATI
RECENSIONI

BRUGNARO

FERRUCCIO BRUGNARO, VOGLIONO CACCIARCI SOTTO – BERTANI, VERONA 1975

Presso l’editore Bertani di Verona, è uscito l’anno scorso nella collana Letteratura Operaia il primo libro di Ferruccio Brugnaro, Vogliono cacciarci sotto. Bertani si è da tempo qualificato con una serie di iniziative culturali che inserite nel panorama della nostra editoria, e in particolare di quella veneta, possiamo definire senz’altro coraggiose. Editore dichiaratamente “di sinistra”, a lui Dario Fo ha affidato la stampa di tutti i testi de La Comune, e sta iniziando un lavoro di recupero dei patrimoni culturali popolari, non ufficiali, contadini e operai: altre sue pubblicazioni si definiscono “di intervento militante”. Questa premessa era forse necessaria per spiegare che il libro di cui voglio parlare si inserisce in un preciso campo ideologico e la scelta dell’editore non lascia spazio a dubbi sulla posizione dell’autore. Per presentare Brugnaro a chi non ne avesse mai sentito parlare (L’Espresso lo ha citato più volte in inchieste sulla letteratura “subalterna”), possono bastare queste brevi note biografiche: nato nel 36 a Mestre, da 20 anni lavora come operaio a Porto Marghera, membro del suo Consiglio di Fabbrica; prima di questo libro diffondeva le sue poesie tramite ciclostilati nelle fabbriche e nei quartieri. Lui stesso nell’introduzione precisa (sembra con l’imbarazzo e il pudore di chi non è abituato al “mestiere” di poeta), come la sua poesia si proponga come MEZZO, e non FINE, come non creda all’assoluta catarsi affidata al messaggio artistico: «la poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza». «Solo per un attimo / che tutto sia semplice / concreto», dice in un verso: e in omaggio a questa concretezza e semplicità, Brugnaro fa un discorso piano, chiaro, se vogliamo modesto, nel senso che non si propone mete irraggiungibili, ma traguardi concreti, definiti: «Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto di questa realtà, della realtà bruciante quotidiana dell’uomo». Zanzotto, in una nota al libro, afferma che la poesia di Brugnaro, forse spingendosi oltre (o contro) le sue intenzioni, è anche “atto poetico”, invenzione di forma. Fa un parallelo indovinato con il primo Ungaretti, non solo per certi moduli stilistici, ma soprattutto perché la realtà di fabbrica dell’uno si può avvicinare alla realtà di guerra (ossessiva, tragica, squallida) dell’altro.

Premesso tutto questo, leggendo Brugnaro ci si aspetterebbe una poesia molto più “arrabbiata”: invece troviamo dei versi che fanno tesoro di alcune cadenze ed espressioni tra le più borghesi della nostra letteratura, che si avvicinano a volte alla tenerezza di affetti espressa dai crepuscolari: «Noi conoscemmo la luce / del silenzio come nessuno, sentimmo come / nessun altro venire con la notte / l’amore degli astri e il cuore morire»; «Di silenzio ora / l’anima è al completo / come una vasta / distesa di neve». E ciò stupisce. Siamo lontanissimi dalle denunce di Vincenzo Guerrazzi, dagli sfoghi rabbiosi di Vogliamo tutto e altra letteratura industriale. Della condizione di operaio, viene messa in luce la brutalità, la disumanizzazione, ma con un accento di rassegnazione accorata, di sconforto che è nuovo: «Siamo pronti a soccombere / sino in fondo / senza alcun gesto di protesta»; «Avremmo dovuto forse odiare, / ma non pensammo neanche lontanamente»; «Non stancatevi, cari; date / date tutto sempre quanto / vi chiedono! / Non piangete / sulla mano che vi recide».

Per spiegare tutto questo, credo sia necessario richiamarsi all’origine veneta di Brugnaro: un operaio di diversa provenienza avrebbe scritto, credo, diversamente le sue poesie. Radicata è invece in Brugnaro la mitezza dei padri, la discrezione, il misticismo proprio della sua razza. Scrive poesie d’amore, e non di rabbia; fa dell’amore un obiettivo concreto da raggiungere: «il mio pensiero guarda solo all’amore: /con lui solo discorre / giorno e notte e va per la terra»; «Non un istante della mia vita / deve andare più perduto. Voglio / spenderla tutta in amore». Non c’è in lui odio di classe. Parla di Dio, di Cristo, come presenze illuminanti, vere: il suo bisogno di preghiera e di luce è intensissimo: «Tu che ascolti i poveri, / Tu che segui quelli che piangono / e più di tutti hai pianto, / insegnami che altri giorni / ha la vita, non questi, / residui d’ombre / per poco ancora tolti alla morte»; «Ho una voglia di pregare / stamane / che non ho mai avuta prima. / Non ho mai sentito / così vivo desiderio d’inginocchiarmi»; «Alzate le braccia, compagni, in segno di gioia / fate rumore senza infrangere nulla del profumo notturno… / Fate festa! Fate festa! / Attorno l’icona sbiadita / dei nostri visi / palpiteranno in milioni e milioni i cuori»; «Sono tremendamente felice ora. / Non avrei mai creduto poter / ricevere in questo angolo / la vista del sole».

Il Brugnaro operaio assume contorni più decisi e polemici in due sezioni del libro: Mattine di sciopero e Quotidianamente: qui scopre la solidarietà nella lotta, la durezza impietosa del nemico, la dignità della sua persona in fondo alla condizione di sfruttato. E all’operaio (che in più di una poesia viene avvicinato alla figura di Cristo, proprio perché portatore di un messaggio di riscatto sociale), affida un compito gravoso e sublime: «Raccogliete tutte le ferite / i colpi a tradimento / gli sputi. La terra attende da molto / raccogliete il messaggio / d’amore, raccogliete il grido del mondo più vero»; «Un seme dobbiamo piantare / compagni / sotto queste valvole, queste tubazioni. / Un albero grande deve crescere subito…»; «Il muro di solitudine, di secoli / si sta sbrecciando / sta venendo verso di noi un gran sole»; «Ma non sanno, non sanno / – è loro sfuggito – che il sole / vive proprio qui tra noi. Non sanno, non sanno / delle nostre conversazioni silenziose / col sole / ogni mattina / del nostro grande progetto di lotta, di vita».

Per «distruggere il fuoco immenso delle fabbriche», Brugnaro invoca altro fuoco, per sé, per i compagni; invoca un’arma che non ha nulla a che vedere con la dinamite, con la rivoluzione storica, materiale: il suo è un appello di una purezza e di un’ingenuità sconcertante, il richiamo ai primissimi valori cristiani, alla solidarietà. Quando fa sciopero, lo fa contro la fabbrica, non contro gli interessi e i padroni della fabbrica: sembra dolersene come di una violenza che non è consona al suo carattere. Poesie, quindi, le sue, di un uomo mite, violentato dalla realtà, che trovano i loro accenti più veri in certe descrizioni desolate di ambienti nudi, disumani, nella pena dei compagni abbrutiti, uccisi addirittura dalla violenza delle macchine: un S.Francesco di Marghera, Ferruccio Brugnaro, un poeta che fa l’operaio, e non il contrario, come vorrebbe, come la sua coscienza ideologica gli imporrebbe. Alla fine del libro, ci si accorge che le premesse teoriche sono state capovolte, oppure che per noi, borghesi disincantati, intellettuali scafati, il mondo «semplice concreto» di un operaio e della sua poesia non riesce a mantenere il suo fascino sottile, leggero. E la colpa, in questo caso, si intende che è nostra.

 

«La Tenda», anno IV, n.6, giugno 1976

RECENSIONI

BRULLO

DAVIDE BRULLO, S – MARIETTI, MILANO 2010

La sinuosa S che dà il titolo a questo eccellente libro (romanzo? meditazione filosofica? diario? affresco immaginoso? epistolario?) di Davide Brullo, potrebbe alludere a una marea di significati diversi. Forse indica l’iniziale di un nome di donna (l’amata, l’odiata, la sola immaginata…) o di un figlio (il Samuele bambino cui si deve il disegno della tartaruga in copertina) o di un luogo (e allora la mitica e irraggiungibile Samarcanda, o l’infernale carcere di Sing Sing). Ma potrebbe anche voler suggerire salvezza, sesso, satana, serpente, sacrificio, storia, speranza, silenzio, sortilegio, specchio, schizofrenia, sofferenza, strategia, suicidio («Debbo sempre ringraziare mio padre: il suo suicidio ha concesso il mio esordio nella storia – o la mia definitiva espulsione: la sua morte è la sola garanzia della mia regalità. Senza di essa non sarei nulla, da allora sono costretto a riscattarla, forzandomi a vivere»). E la condanna a vivere è per Brullo anche costrizione ad esprimersi sulla pagina, attraverso la scrittura: che salva e vendica, inchioda ed esalta. «S» come scrittura, quindi, celebrazione della parola intesa come Verbo, unica possibilità di incarnazione e immortalità («le parole sono gesti inesorabili», «Alcuni pensano che la scrittura dovrebbe far esplodere le cose, i corpi, espanderli fino all’irragionevole: io so che deve contenerle, custodirle come dentro un astuccio in cui si strofinano anelli», «Una scrittura che afferma, precisa e superiore come un ordine, non reclama un lettore ma un fedele»). Custode del miracolo dell’ espressione, artefice di una creazione che lo assimila a un dio minore è quindi lo scrittore, il poeta, il regista che sa intrecciare frasi e immagini in un caleidoscopio vorticoso e assillante di emozioni e turbamenti, cui si deve negare solamente il rigor mortis dell’imperturbabilità, dell’indifferenza, della freddezza. «S», dunque, soprattutto come  «sé» . E il libro di Davide Brullo è un gigantesco monumento, una narcisistica, ammirata, ansiosa ricostruzione ed esaltazione del proprio io psichico, della propria coscienza di uomo e artista: vita brulicante e malattia paralizzante, animali e cose, infanzia e senilità, corruzione e nobiltà, bene e male, persino dio, sembrano vivere in funzione della rappresentazione dell’occhio implacabile, feroce, di chi li descrive, distruttivo e violento anche nei riguardi di se stesso. Una sorta di Zarathustra «radicale… intransigente», animato da una «truce ossessione», è il ritratto che Brullo offre di sé:

«Sono inappagato e famelico», «domando l’inconcepibile, pretendo l’inafferrabile…. pretendo devozione», «non sopporto le cose parziali, interrotte, misere», «so di essere incapace e inadempiente, per questo sono superbo»», «non posso pensare a una creatura che non abbia il mio volto», «ogni mio giudizio è infallibile, inappellabile», «Semplicemente, ambisco al genio, ed esso, nella sua ambivalenza e tirannia, si dimostra con perfezione nella scrittura», «La mia qualità è quella di essere un uomo espulso dalla storia: pervertendo ogni idea di destino sono immune alla pena e alla compassione…». In questa ansiosa bramosia di assoluto, in questo totale e ossessivo scorticamento di sé e del reale, insofferente di qualsiasi tenerezza e indulgenza, Davide Brullo incide con l’analitica cupezza di un anatomopatologo il rapporto con ogni alterità. L’amore assume contorni cannibaleschi e onnivori, in uno sbranamento reciproco che non lascia alcuno spazio alla leggerezza, all’affettuosa comprensione, alla delicata e rispettosa dedizione. Una vertigine dei sentimenti e della fisicità possiede gli amanti, scorporandoli dalle loro individualità per farne un essere unico e mitico, quale forse quello del Simposio: «Ti amo come se fossi il prototipo dell’uomo prima della caduta, poi abortito: come se tu fossi la valle e io l’eco che la stringe e crea. Ma ciò che ti dico non ha testimoni, è nostro. Concedimi questo spreco. Di essere mortale e assoluto, consumandomi ora, per te… Se ti dicessi che spero in una catastrofe di cui noi saremmo il solo resto, cosa penseresti? Probabilmente ci odieremmo, giungeremmo a sopprimerci, perché è l’impossibilità dell’unione a unirci, la perversione del tradimento a darci l’idea dell’ebbrezza e dell’eternità».

Il mondo intorno assume allora i caratteri apocalittici di un day-after, rovinoso e perturbante, in perpetua e orrifica metamorfosi, in cui persino gli oggetti più quotidiani (una tazza, un barattolo, una piastrella…) si deformano alterando i loro confini, trasformandosi in altri oggetti, corpi, animali.   Le città, desolate in un’atmosfera kafkiana di solitudine metafisica, sono invase da colonie di insetti, lucertole, gabbiani, cani e lupi (o dal preistorico, minaccioso varano), che le costringono in scenari da incubo, da flagello biblico e maledizione cosmica: «Vedo scorrere sulla via, di fianco al cancello screpolato, moribondo, bestie impreviste. Creature che non ricordo di aver visto in alcun manuale, esseri che forse reclamano un creatore. Sfilano di fronte a me, in una marcia dimostrativa».

È straordinaria e ammirevole la maestria descrittiva di Brullo, la sua capacità visionaria di squadernare sotto gli occhi del lettore immagini di una concretezza quasi filmica, coinvolgendolo emotivamente, impressionandolo. Se poi la scrittura si concentra nell’analisi delle figure umane, ecco che da pura rappresentazione figurativa assurge a meditazione filosofica sull’imprescindibilità del male, sulla sua non riscattabile necessità. Vecchi e bambini dominano la scena del mondo, gli uni mortificati nel disfacimento repellente del loro corpo («Gli occhi della vecchia erano bianchi e vertiginosi, e nel loro incavo si era impiantata una colonia di formiche…»), gli altri vendicativi, crudeli, mutanti, in preda a istinti omicidi e distruttivi: non esiste innocenza, nell’infanzia descritta da Brullo, né pietà o solidarietà.

«A turno, manovrando un coltello di pietra, i bambini affrontarono il colpevole, stordito, estasiato, scavandolo ed estraendo un pezzo dal suo corpo. Roteavano, ebbri, ciascuno con il proprio coccio sanguinante, come se fossero mostri primordiali che illuminino il cosmo muto, sabbioso, impugnando stelle comete». Quali possono essere le radici di cui si è nutrita negli anni la scrittura così sapiente, meditata e vibrante di Davide Brullo? Senz’altro ritroviamo i toni appassionati dei profeti, da Isaia a Geremia, e le esaltate allucinazioni dell’ Apocalisse; ma anche l’indignazione dei mistici e dei predicatori medievali, e qualche immagine dantesca. E la lettura partecipe dei più noti narratori americani del 900, da Faulkner all’ultimo McCarthy; passando attraverso il rumeno Cioran di  Squartamento, fino all’assorbimento di alcuni echi da Ceronetti e Sgalambro. Frasi severe, asseverative, pregne di un gusto gnomico per la sentenza, per l’aforisma dilatato in constatazione, in tesi teorica che non ammette deroghe o appelli. Alla densità compatta di questo libro, e all’altezza indiscussa della sua prosa, nuocciono forse una ventina di pagine finali, una sorta di memento composto da illuminazioni poetiche, simil-versi scanditi da trattini di separazione, che poco aggiungono alla ricchezza fremente delle pagine precedenti. Le quali trovano la loro disperante giustificazione in affermazioni come questa: «Non ho alcuna ambizione se non quella di estenuarmi, liberandomi dal carcere delle parole e della mia storia». Ovviamente non condivisibile da chi legge Davide Brullo, e si augura invece che lui continui a scrivere narrativa così nobile e coinvolgente, sofferta e imperiosamente rigorosa.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

RECENSIONI

BRUNI

LUIGINO BRUNI, FIDARSI DI UNO SCONOSCIUTO – EDB, BOLOGNA 2015

Il Professor Luigino Bruni, che insegna Economia Politica all’Università Lumsa di Roma, ed è firma illustre del quotidiano cattolico “L’Avvenire”, offre in questo libriccino alcune auree regole intese a coniugare capitalismo e gratuità, mercato e carità, sulla base degli insegnamenti evangelici e delle sette virtù teologali-cardinali. Se quindi il “nostro capitalismo individualistico-finanziario, che sta trasformando il mondo in un ipermercato senza persone, senza incontri, senza parole, senza onore e riconoscimento dell’altro” risulta in effetti l’incarnazione disumana, sfruttatrice, impietosa del Male cosmico, immanente e trascendente,… secondo le francescane indicazioni del Professor Bruni ad esso dobbiamo strenuamente opporci appellandoci ai valori cristiani della fiducia reciproca, della speranza, della comprensione e del perdono, della giustizia e della sobrietà. Così, e solo così, il mondo avrà la forza di contrastare la finanza predatrice di Wall Street, l’ingordigia della Borsa, la strafottente cupidigia dell’homo oeconomicus contemporaneo. Tornando magari alla benevola e virtuosa teoria del “giusto prezzo” medievale, forse al baratto, e soprattutto alla “fede dei nostri antenati, capaci di dar inizio a cantieri di vere grandi opere perché animati dalla fede in cose più grandi della loro esistenza terrena”. Per intenderci, alla disinteressata fede di Comunione e Liberazione, al rifiuto del possesso dello Ior, agli attici cardinalizi, alla Divina Provvidenza pugliese…Convintamente cattolico, Luigino Bruni indica in Abramo, possessore solo della tomba della moglie Sara, un campione di questo nobile sprezzo di qualsiasi proprietà, dimenticando quali e quante ricchezze avesse accumulato il patriarca, non sempre simbolo di coraggiosa virtù. E sorvolando anche sui propri elzeviri nel giornale della Cei, così spesso aggressivi, diffamatori, volgari, irrispettosi nei riguardi dell’altro, verso cui predica solidarietà e agape.

IBS, 22 LUGLIO 2015

 

RECENSIONI

BRUNI

LUIGINO BRUNI, CAPITALISMO INFELICE. VITA UMANA E RELIGIONE DEL PROFITTO

GIUNTI & SLOW FOOD EDITORE, 2018.

 

In una recente serie di conversazioni radiofoniche nella rubrica Uomini e Profeti di Radio3 Rai, Luigino Bruni (professore ordinario di Economia politica all’Università Lumsa di Roma ed editorialista del quotidiano Avvenire) ha affrontato il tema del rapporto tra capitalismo e cristianesimo, fede e denaro, mercato e solidarietà civile. Argomenti trattati in tutte le sue numerose pubblicazioni, con effervescente vis polemica e piacevolezza di stile, secondo un’ottica manifestatamente cattolica.

In Capitalismo infelice, volume del 2018 coedito da Giunti e Slow Food, Bruni si pone due obiettivi: la contestazione dell’ideologia capitalistica (basata sull’individualismo, l’idolatria del denaro e del consumo, la negazione del bisogno, l’enfatizzazione del merito e della concorrenza, la santificazione del business) e la proposta di un nuovo modello di sviluppo, in grado di riconfigurare l’economia e trasformare il mercato in un laboratorio di virtù etiche e civili, costruendo organizzazioni bio-diversificate e riscoprendo valori comunitari responsabili.

L’autore attribuisce al capitalismo contemporaneo, così radicalmente diverso da quello degli ultimi due secoli (descritto da Saint-Simon, Karl Marx e Max Weber),, altrettanto feroce ma meno spersonalizzante, un’enorme capacità di “creazione distruttiva” soprattutto in ambito umanistico, là dove per creare merci da vendere finisce per distruggere ogni spazio di libertà personale.

Dominato dal tecnicismo e dalla finanziarizzazione, esso si presenta come ideologia globale del successo e della ricchezza, avente come dogmi la meritocrazia, l’organizzazione manageriale del lavoro, gli incentivi di produzione. Relegando le relazioni private, i sentimenti, la creatività in un ambito di non-essenzialità, privilegia nei luoghi di lavoro e della vita quotidiana rapporti frammentati, funzionali a interessi economici, elettivi e molto circoscritti tra consimili.

“La società di mercato ha bisogno di individui senza legami forti e radici troppo profonde… Le persone con relazioni interpersonali significative, con una vita interiore coltivata, sono sempre consumatori imperfetti e difficili da gestire”. Da ciò deriva la necessità di “controllare, arginare, normalizzare” qualsiasi pericolosa indipendenza di giudizio, contestazione, spirito critico di chi consuma: siamo stati svuotati di senso e riempiti di cose, con lo scopo di attivare emozioni, codici simbolici, desideri e sogni catalizzati intorno all’acquisto e al possesso.

È cambiato il concetto di lavoro, parcellizzato e privato di motivazioni personali. Il vecchio spirito calvinista del capitalismo, centrato sull’operosità e la produzione, era ancora essenzialmente e naturalmente sociale, basato sull’attività collettiva, di cooperazione e mutualità. Oggi, la parola d’ordine delle rivendicazioni politiche e sindacali sembra si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”. L’incancrenirsi del sistema economico su se stesso ha provocato una visione riduttiva sia degli esseri umani sia dell’ambiente, e ha prodotto un isterilimento delle risorse emotive, facendo prolificare nuovi culti idolatrici, votati a feticci mercantili, a un totemismo degli oggetti da acquistare, da possedere, di cui saziarsi anche in mancanza di effettiva necessità. Da un lato ha creato estese aree di indigenza, dall’altro una bulimia fisica e psichica, un’obesità diffusa e ingorda nell’accaparramento di beni materiali.

Luigino Bruni sottolinea il fatto che a un conformismo indotto nei comportamenti si è sovrapposto un ancora più dannoso conformismo ideologico attraverso l’imbonimento mediatico (pubblicità pervasiva e condizionante, talkshow sempre più urlati e volgari, preponderanza ossessiva di temi riguardanti la salute, la cucina, il sesso, la performance).

Anche la religione ha ceduto alle lusinghe della spettacolarizzazione e della produttività, riducendo la spiritualità a merce acquistabile (le indulgenze…), e conducendo a una deriva consumistica della fede. Alle liturgie ecclesiastiche si sono sostituite ritualità laiche (team building, business school, giochi di ruolo, sessioni di escape room, meditation room, convention imprenditoriali, piece teatrali): stratagemmi miranti a intensificare la produzione e il profitto, i cui celebranti sono i nuovo leader aziendali, manager carismatici in grado di motivare i dipendenti rendendoli devoti adepti dell’impresa, in questa new age materialistica che celebra la natura spirituale del denaro.

L’autore, commentando alcune delle più note parabole evangeliche (dei talenti, dell’operaio dell’ultima ora, del figliol prodigo), suggerisce una loro rilettura non più come giustificazione dello spirito imprenditoriale e capitalistico, ma nel senso di una condanna cristiana delle ricchezze inique, del sistema economico-sociale basato sulla meritocrazia e sull’esclusione degli svantaggiati. La vera specificità del messaggio cristiano rimane infatti il primato della gratuità, della misericordia, della grazia. “Ieri e oggi le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché scardina le gerarchie e libera le persone dalla schiavitù dei meriti e dei demeriti… Se oggi volessimo spezzare la spirale di ineguaglianza e di esclusione, dovremmo dar vita a politiche educative anti-meritocratiche… Nulla è più trasgressivo del dono, nulla è più libero. È trasgressivo e libero ovunque, ma nell’ambito economico i suoi effetti sarebbero particolarmente devastanti. Perché spezzerebbe le regole dei contratti, minerebbe la gerarchia”.

Se la pars destruens, più criticamente corrosiva, del libro di Luigino Bruni risulta convincente nella sua impetuosa e polemica condanna del “capitalismo infelice”, riescono meno persuasivi i capitoli dedicati alla proposta di nuove soluzioni di organizzazione economica, capaci di rispettare le libertà dell’individuo, incoraggiandone la crescita culturale e spirituale, e intensificando la solidarietà e la generosità nei rapporti interpersonali.

Nell’ultimo capitolo del volume, intitolato utopisticamente Il lavoro di domani sarà bello, Luigino Bruni immagina una rivoluzione epocale che permetta a uomini e donne di lavorare di meno, liberando tempo e spazi privati, incoraggiando la creazione di cooperative sociali in ambiti finora non abbastanza utilizzati, a partire dai beni culturali, artistici, religiosi, turistici.

L’auspicio finale dell’autore, che forse l’attuale tragico momento pandemico rende meno illusorio, è di poter adattare la metafora vegetale al sistema economico, ancorandosi alla territorialità come le piante al suolo, in una sopravvivenza sussidiaria più sobria, essenziale, resiliente e sana. Potremmo trasformarci così in un organismo collettivo pulsante, che come una foresta apporti nuovo ossigeno nelle nostre asfittiche ed egoistiche società moderne.

 

© Riproduzione riservata                    «Gli Stati Generali», 13 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

.

 

 

 

RECENSIONI

BUARQUE DE HOLLANDA

CHICO BUARQUE DE HOLLANDA, IL FRATELLO TEDESCO – FELTRINELLI, MILANO 2017

Con questa recensione voglio rendere omaggio a un mito della mia adolescenza, che ha accompagnato con le sue canzoni i miei pomeriggi di ragazzina solitaria, illuminandoli non solo della particolare saudade della musica brasiliana, ma anche di una poesia civilmente impegnata, coraggiosa, esplicitamente contraria a ogni violenza dittatoriale: politica-ideologica-di costume.

Chico Buarque de Hollanda (Rio de Janeiro, 19 giugno 1944) non è stato solo uno dei più noti autori e interpreti della bossanova, insieme con Vinicius de Moraes, João Gilberto e Tom Jobim (come non ricordare le famosissime incisioni interpretate anche in italiano, e riproposte da Mina, Enzo Jannacci, Mia Martini, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia: A banda, Pedro Pedreiro, Tem mas samba, O que serà, Funeral de um lavrador…). È stato anche sceneggiatore, poeta, romanziere di successo: e proprio in quest’ultima veste verrà qui presentato. Ma prima di commentare il suo libro più recente, pubblicato da Feltrinelli, Il fratello tedesco, vorrei ricordare che Chico è stato ed è tuttora per il suo paese un simbolo di impegno politico contro la dittatura militare, che lo portò all’arresto nel 1968, cui fece seguito un esilio auto-imposto in Italia nel 1969. Nel nostro paese conobbe la solidarietà e la collaborazione di molti intellettuali come Morricone, Endrigo, Bardotti, Luis Bacalov, Gianni Minà, Amilcare Rambaldi.

Il fratello tedesco si apre con la descrizione di un vasto e serioso appartamento di San Paolo, tappezzato di scaffali c librerie che accolgono circa ventimila volumi, capolavori di tutto lo scibile umano, in edizioni rare e antiche, provenienti da tutto il mondo. Dalle loro vissute e meditate pagine, che trattengono cenere di sigarette e polvere, sbucano velocissimi scarafaggi di ogni dimensione, insieme a biglietti del tram, liste della spesa, francobolli, cartoline.   In uno di questi tomi il protagonista Francisco, secondogenito inquieto sessualmente e intellettualmente, scopre una lettera scritta in tedesco e indirizzata a suo padre, firmata da una misteriosa Anne. La fa tradurre da un amico, scoprendo così che l’austero genitore Sergio de Hollander, stimato storico e accademico, durante un soggiorno di studio in Germania nel 1931 aveva concepito un figlio con una ragazza tedesca, che aveva poi abbandonato con il bambino, ritornando in Brasile. La vicenda alterna quindi l’esteriorità dell’esistenza vivace del giovane (passata tra scorribande notturne, studi universitari, delusioni sentimentali, dimostrazioni politiche, visite ai bordelli, sbronze, gelosia rancorosa nei riguardi del fratello Domingos), con l’ansia filiale di confrontarsi col modello paterno, mitizzato e irraggiungibile, ma improvvisamente ridimensionato in una sfera più privata, fragile e manchevole. Francisco tenta vanamente di recuperare qualche traccia del fratellastro tedesco, in una vorticosa spirale di incontri e abboccamenti con transfughi nazisti e rifugiati ebrei, nella ricostruzione di documenti inviati da diverse ambasciate e uffici ministeriali, nel pedinamento di sconosciuti sulla base di vaghe somiglianze fotografiche: con l’unico e inconfessato intento di penetrare nell’indifferente silenzio del padre, di farsi prendere in considerazione da lui. Ma il professor Sergio de Hollander, noto intellettuale trinceratosi all’interno di una fortezza fatta di libri e scrittura, morirà rimbambito senza confessare il suo segreto: mentre intorno a lui il mondo del figlio incompreso va a pezzi sotto l’assedio di allucinazioni da Lsd, incubi, rastrellamenti della polizia, esecuzioni sommarie, in un Brasile sempre più feroce e indecifrabile. Eppure, quello che sembrava il delirio ossessivo di un giovane traumatizzato da una storia familiare e dalla tragedia politica del suo paese, trova un’eco risolutiva nella vita reale di Chico Buarque de Hollanda, che settantenne riesce finalmente a ricomporre l’esistenza del fratellastro tedesco in un uomo abbandonato dai genitori naturali, adottato con un altro nome e morto di cancro nel 1981: inseguito per decenni e mai incontrato.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Il-fratello-tedesco-Chico-Barque.html       25 ottobre 2017

 

 

RECENSIONI

BUBER

MARTIN BUBER, IL CAMMINO DELL’UOMO – EINAUDI, TORINO 2023

Einaudi ripropone un testo canonico di Martin Buber, Il cammino dell’uomo, definito da Herman Hesse “un dono prezioso e inesauribile”. Nato come conferenza tenuta in Olanda nel 1947, e uscito per la prima volta come libro l’anno successivo, questo testo propone al lettore un itinerario in sei capitoli volto alla conoscenza del sé, per progredire verso la maturità spirituale e comportamentale. Secondo Enzo Bianchi, che ne ha scritto la prefazione, “Buber ci vuole parlare dell’uomo nel suo rapporto con sé stesso, con gli altri esseri umani, con il mondo e con Dio, e lo fa con una preoccupazione pedagogica”.

Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), è stato uno dei maggiori studiosi del Ḥasidismo, corrente mistica dell’ebraismo nata in Polonia nel 1700, tesa a rinnovare il giudaismo attraverso un processo di riscoperta nella vita quotidiana di un sentimento interiore di pietà, finalizzato al raggiungimento di uno stato di eterna gioia e unione con Dio. Nella sua vasta produzione filosofico-teologica, oltre alla raccolta di una serie di leggende e racconti ḥasidici e al fondamentale saggio Io e Tu del 1923, Buber si impegnò in una laboriosa traduzione della Bibbia dall’ebraico al tedesco.

Per lui, la vita va modulata come relazione, intersoggettività, dialogo, comunicando con  la creazione e il Creatore, in una concezione unitaria dell’essere.

Ne Il cammino dell’uomo sono numerosi i riferimenti alla tradizione ḥasidica e alle varie interpretazioni sapienziali delle Sante Scritture di Israele, intervallati da esempi, parabole e brevi resoconti di leggende talmudiche. I sei capitoli in cui si suddivide il volumetto portano titoli esemplificativi: Prendere coscienza di sé, Il cammino particolare, Risolutezza, Cominciare da sé stessi, Non dedicarsi a sé stessi, Là dove ci si trova, e indicano come progredire gradualmente alla realizzazione del proprio essere più profondo e autentico. Un viaggio verso la trasformazione da intraprendere senza rimpianti o ripensamenti, per ritrovare la pace interiore. “Solo quando un essere umano ha trovato la pace in sé stesso, può andare a cercarla nel mondo intero”. Si tratta di un lungo cammino, che può durare l’intera vita, e si compie inizialmente da soli per individuare debolezze, paure, fallimenti, ma esplorandosi con sincerità, rimettendosi continuamente in discussione. “Primo: ognuno deve custodire e santificare la propria anima secondo l’indole e il luogo a lui propri, senza invidiare l’indole e il luogo di altri; secondo, ognuno deve rispettare il mistero dell’anima dei suoi simili, senza penetrarlo con impudente curiosità e servirsene; terzo, ognuno, nella vita con sé e nella vita col mondo, deve guardarsi dal mirare a sé stesso”.

Assumersi come punto di partenza, non come meta finale; conoscersi, ma senza preoccuparsi troppo di sé; cercare la via migliore, ma non senza gli altri. E non è necessario spingersi in terre lontane per realizzarsi come esseri umani, né si devono affrontare esperienze straordinarie per imparare a conoscersi: “L’ambiente che percepisco come naturale, il contesto che mi è stato assegnato come destino, ciò che mi accade giorno dopo giorno, ciò che mi si richiede giorno dopo giorno: eccolo qui il mio compito essenziale, eccola qui la completezza esistenziale così come mi si apre di fronte”.

Un libriccino di sapienza millenaria, un insegnamento che travalica la sua stessa origine ebraica, ricco di massime illuminanti, venate talvolta di amara ironia, ma sempre con un fiducioso abbandono al progetto divino.

 

© Riproduzione riservata     

SoloLibri.net › … › Il cammino dell’uomo di Martin Buber

9 marzo 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BUKOVAZ

ANTONELLA BUKOVAZ, AL LIMITE – LE LETTERE, FIRENZE 2011

Antonella Bukovaz è poetessa originaria di un piccolo paese sul confine italo-sloveno, e insegna appunto sloveno in una scuola in provincia di Udine. Si occupa dell’interazione tra parola, suono e immagine, ed è attivamente partecipe delle più nuove tecniche di video-audioinstallazione. Anche questo suo libro di versi pubblicato da Le Lettere è accompagnato da un dvd, ad indicare il suo specifico interesse verso la multimedialità. Ma è proprio la sua condizione di bilinguismo quella che più emerge dalla sua scrittura poetica come riflessione sulla produzione letteraria, “al limite” tra espressioni diverse. Un suo poemetto molto interessante, recentemente riproposto nell’antologia Einaudiana  Nuovi Poeti Italiani 6, si apre con una lunga citazione di Pasolini sulla reciproca compenetrazione tra italiano e friulano, ufficialità e marginalità, nostalgia e regressione da una parte e rappresentazione “civile” dall’altra. Ed ecco dunque la sofferta condizione poetica della Bukovaz: «Parlo dal bordo e solo mi capisce / chi arretra per dare spazio / alla respirazione della distanza / tra una lingua e l’altra», «parlo da questa compresenza / in cui sempre cerco la parola persa», «i suoni slavi compongono il mondo / che appena mi consola», «È il linguaggio l’unico altrove che mi resta». Con la consapevole e orgogliosa affermazione della sua unicità di interprete di due diverse anime ed espressioni: «Lingua sconfinata / io ti sono sentiero!». In altre poesie, l’ intenso rapporto vissuto con un paesaggio-persona («Ho deciso di stare dove posso comprenderti tutto… andiamo uno nell’impronta dell’altro…  e pago questo amore sconfinato / con la fragilità di ogni mio respiro») evidenzia comunque questo bisogno assoluto di radicamento (il deittico “qui” viene ripreso in continuazione, a ribadire l’esigenza di un posizionamento nella fedeltà a un luogo: «mi sono fermata qui… posso stare qui… Qui le cose tendono a ciò che è bene»), la necessità di preservare la realtà conquistata, allontanando il timore di una sua scomparsa o dissolvimento: «Distesa lungo l’ultimo sentiero / sono la tua forma senza inganno / traccia di scomparsa / che appare se mi volto dentro / in assenza di percezione».

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

BUKOWSKI

CHARLES BUKOWSKI, UNA TORRIDA GIORNATA D’AGOSTO – GUANDA, PARMA 2014

«sto usando questa poesia per riempire lo spazio / mentre bevo / il mio ultimo bicchiere di vino //
stasera // è stata una serata soddisfacente: ho visto un / eccellente incontro di pugilato / prima //
messo l’antipulci ai gatti // risposto a due lettere / scritto quattro poesie. / certe notti scrivo dieci
poesie / rispondo a sei lettere»

Quale fosse il rilievo che Charles Bukowski attribuiva alla sua attività poetica risulta evidente dai versi citati: scrivere poesie, o lettere, o i racconti che gli venivano sollecitati – e ben retribuiti – da editori di pornografia, gli richiedeva la stessa concentrazione e dedizione che occuparsi dei suoi amati gatti. Ironizzava molto sul suo essere un «grande scrittore americano», simile a Norman Mailer nei «10 chili in sovrappeso», e invitato a conferenze in giro per il mondo, quando in realtà si riteneva un poeta mediocre, e commentava sarcasticamente la produzione sua e di altri famosi colleghi: «gli stessi poeti che leggono e / rileggono negli stessi posti; sono imbarazzato per / loro e per / me stesso: / pensiamo davvero di forgiare la lingua in modo / più in- / consueto rispetto alle previsioni della borsa o / del tempo? // tutte quelle parole – che scriviamo a profusione – / ancora e ancora – la maggior parte di noi vive vite / ordinarie e senza coraggio – siamo folli a pensare / che i nostri / discorsi siano eccezionali?»

Nessun rispetto per la tradizione letteraria, nemmeno quella classica, che volutamente tendeva a smitizzare: «metto giù Rabelais / e gli strizzo l’occhio. / questo è quello che gli / scrittori si fanno / a vicenda. // al posto suo, mi / prendo una pastiglia di / vitamina C. //… Rabelais / eri un / ragazzo tanto tanto / interessante».

Nello stesso modo sbeffeggiava lo stile tradizionale, con i suoi versi smozzicati, interrotti a metà, volutamente prosastici e ignari di maiuscole, sia all’inizio che all’interno delle poesie, quasi a voler sottolineare un polemicamente divertito understatement. Più interessato all’alcol, alle corse dei cavalli, al sesso, alla banalità della vita quotidiana, ai soldi facili, Bukowski esibiva anche rabbiosamente il suo sostanziale e motivato distacco dal mondo artefatto del sogno americano, e la sua assoluta, solidale preferenza per gli emarginati, gli ubriaconi, le puttane, le camere d’albergo, i bar più squallidi. «Be’, copuli e copuli. / lasci la casa di questa e / vai nella casa di quella e confronti / copriletto / salviette del bagno / televisori / carta igienica / e il contenuto dei / frigoriferi; la mia lunga esistenza è sempre stata / solo questo e niente di / più; non c’era / altro da / fare / se non scopare; Vicini ottusi e impiccioni, lavori sopportati a malapena e per poco tempo, riti-doveri-cerimonie borghesi (Natale, Capodanno, servizio militare, tasse, pulizia corporale, civismo farisaico) da rispettare per quieto vivere:; mi scoccio quando mi fotto con le mie stesse mani;se vuoi spedirmi in un inferno anticipato / costringimi a passare una giornata intera a / Disneyland».

Gli affetti familiari gli suonavano irrimediabilmente retorici e insopportabili (la moglie querula, la suocera che gli rimproverava le parolacce, un padre detestato che gli aveva rovinato l’infanzia): «i piedi di mio padre puzzavano e aveva il sorriso / come un / mucchio di merda di cane. // essere lo stesso sangue di quell’odiato sangue / rendeva le finestre intollerabili, / e la musica e i fiori e gli alberi / brutti. // ma si vive: il suicidio prima dei dieci anni / è raro».

Cosa può salvare dallo sconforto, se nemmeno la scrittura offre più scampo? Forse solo la magia di una «mattina strana», come quella narrata in una lunga poesia che descrive lo spontaneo e immotivato adunarsi di una folla di uomini davanti a un bar: varia e inconcludente umanità che si ritrova solidale intorno al nulla di un mezzogiorno libero da qualsiasi impegno. Oppure la rara e rivelatrice consapevolezza che al puro esistere bisogna comunque e sempre rimanere grati: «trovi una sedia, ti siedi, accendi un sigaro. / di ritorno da un migliaio di guerre / guardi fuori da una porta aperta nella notte. / Sibelius suona alla radio. / nulla è stato distrutto. / soffi fumo nella notte nera, / sfreghi un dito dietro l’orecchio / sinistro. / ehi bello, in questo momento, sei in cima al / mondo».

 

«nazioneindiana», 15 aprile 2014

RECENSIONI

BUKOWSKI

CHARLES BUKOWSKI, SVASTICA – STAMPA ALTERNATIVA, TARQUINIA 2011

“Il Presidente degli Stati Uniti d’America entrò nell’auto, circondato dagli agenti. Prese posto sul sedile posteriore. Era una mattina anonima e scura. Nessuno parlò”. È l’incipit di un racconto di Charles Bukowski, Svastica, inserito nell’edizione americana originale di Storie di ordinaria follia, e mai pubblicato nelle corrispondenti edizioni italiane. Il motivo di questa censura viene ipotizzato da Raffaello Gramegna, curatore di questo volumetto, nella sua appassionata introduzione. “In Svastica l’ambiente non è il solito manicomio, né il bar, né la camera dai muri screpolati. Qui, per la prima volta in un libro di Bukowski, si comincia dalla massima espressione di ambiente socialmente sano: the White House, signori, la Casa Bianca”. In effetti, il racconto non è molto tipico della narrativa bukowskiana: nemmeno sfiorato dall’ossessione del sesso, dell’alcol, e delle secrezioni corporee, è invece centrato sulla leggenda del ritorno del Führer. La violenza, che è un tema tipico dello scrittore americano, qui è ovattata, pervasiva e priva di connotati fisici; essa caratterizza il potere, capace di modificare i rapporti umani e addirittura il corso della storia mondiale.

La narrazione si apre con il rapimento del Presidente degli USA, che in un giorno di pioggia battente viene condotto dalla sua scorta, anziché verso la meta programmata dell’aeroporto, in un luogo segreto, attraverso stradine sterrate e fangose (con successivi trasferimenti di auto e depistaggi per evitare ipotetici pedinamenti), in una vecchia pensione situata in aperta campagna. Impaurito e stupefatto, si trova davanti un Hitler ottuagenario, ma vigile e concentrato in un suo diabolico piano.

“Questo è un gran giorno per la Storia”, dice uno degli agenti segreti. Il Presidente e il Führer, sottoposti a un’incredibile e futuristica operazione plastica, si scambiano connotati e ruoli. Il dittatore, che dopo la fine della guerra e il falso ritrovamento del suo cadavere nel bunker di Berlino, ha continuato a dirigere le sorti del mondo in incognito, si dirige in pompa magna verso la Casa Bianca, dove occuperà l’Oval Office e la cameraa da letto del Presidente, mentre quest’ultimo finirà recluso in una clinica psichiatrica, da dove continuerà a proclamare la sua vera identità, deriso da medici e degenti.

Il raccontino in sé non ha un particolare valore letterario, e forse l’unico interesse che può riscuotere sta appunto nel fatto di essere stato escluso dalla più famosa raccolta di Bukowski. Ma l’edizione di Stampa alternativa ha invece il merito di proporre il testo originale in inglese, e un’attenta ricostruzione biografica e ideologica del curatore, che difende l’autore dalle accuse di simpatie naziste, sottolineando la sua anarchica opposizione a ogni potere, e il suo essere sempre stato “CONTRO; contro i comunisti, contro il governo americano, contro i padroni, contro le femministe, contro gli ecologisti, contro i blue collars, contro i cristiani praticanti, contro la Beat Generation, contro sé stesso”.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Svastica-Bukowski.html               5 novembre 2019

 

 

RECENSIONI

BULETTI

AURELIO BULETTI, REGINE – ADV, LUGANO 2016

“Madamina, il catalogo è questo”, viene da canticchiare leggendo il libro di versi di Aurelio Buletti: una sorta di Don Giovanni filosofico al contrario, alquanto misogino, beffardo e risentito, nel presentare il suo inventario di Regine, reginette, principesse, marchese, proletarie, commesse, cameriere, artistoidi, casalinghe, attricette, puttanelle, nobildonne e intellettuali sfigate. Un po’ frigide un po’ assatanate, mantidi religiose o bacchettone, le femmine di Buletti vengono schedate con impietoso sarcasmo, in un lussureggiante e fantasmagorico elenco di divertite metafore: Notte Profonda, Degna di Lode, Stanca di Tutto, Ventata di Allegria, Foresta Nera, Tabula Rasa, Acqua Passata, Anima Pura, Spesa Folle, Sola Soletta, Pesca Matura… In crudelissimi distici, terzine o quartine, l’autore inquadra vizi reali e false virtù dell’intero universo muliebre, con relativi imbalsamati o rimbambiti accompagnatori: non si salvano mamme e nonne, mogli e fidanzate, insegnanti e studentesse, tutte accomunate da una teatralità infingarda, tesa a macchinare trappole per irretire ingenui maschioni, da sfruttare sessualmente ed economicamente. «Spesa Folle non ama Preventivo, / detesta addirittura Consuntivo», «Gara D’Appalto ha molti spasimanti: / sceglie per lei Autorità Preposta», «Dolce Brezza accarezza Prato Bello, / gli sussurra di esistere per quello», «Figlia dei Fiori si sente smarrita: / la consola la vecchia Anny Sessanta», «Turris Eburnea vive isolata: / quanti ne incontra invece ogni giorno / Refugium Peccatorum», «Voce Poetica / quando si crede voce di Messia / ogni testo lo chiude in così sia». I luoghi comuni vengono rivitalizzati in una spiazzante e sogghignante resa ritmica, sottolineata dall’aculeus finale, sempre intelligente nella sua esacerbata “agudeza”, e la copertina del volume (rosa con tante silhouette di intercambiabili figure femminili) si adegua elegantemente all’ésprit dei versi.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Regine-Aurelio-Buletti.html       11 settembre 2017

error: Content is protected !!