VELIMIR CHLEBNIKOV, 47 POESIE FACILI E UNA DIFFICILE – QUODLIBET, MACERATA 2009
«Sklovskij diceva che era un campione, Jakobson diceva il più grande poeta del Novecento, Tynjanov diceva una direzione, Markov diceva il Lenin del futurismo russo, Ripellino diceva il poeta del futuro, e avevan ragione, secondo me, tutti, però avevano torto, anche, secondo me, e avevano torto perché, secondo me, Chlebnikov è molto di più».
Così Paolo Nori scrive di Velimir Chlebnikov nella postfazione a 47 poesie facili e una difficile, libro edito da Quodlibet nel 2009 e da poco ristampato. Nori si è laureato su questo poeta, e ne ha raccontato la vita nel romanzo Pancetta e in un recital musicale: la sua introduzione rivela l’entusiasmo e l’ammirazione non solo dello studioso e del traduttore, ma dell’innamorato, per un artista che seppe coraggiosamente opporsi a ogni stereotipo sociale, politico e culturale: «Chlebnikov doveva rimanere, per me, una specie di culto privato, rappresentava e rappresenta ancora, in buona parte, un sentimento che è al di là dei confini del linguaggio, è nell’indicibile, è qualcosa che c’è nella mia pancia e che va trattato bene, con cura, bisogna dargli dei fiori, farlo entrare nelle proprie preghiere e accontentarsi di quello…».
Velimir Chlebnikov (Chanskaja Stavka di Astrachan, 1885–Santalovo di Novgorod, 1922), fu tra i fondatori del più importante gruppo futurista russo, Hylaea, insieme con Vladimir Majakovskij, che nel suo necrologio lo definì «un poeta per poeti». Poeta non facilmente inquadrabile, apprezzato e compreso da un pubblico ristretto. Dopo aver studiato matematica all’università di Kazan, si era trasferito a Pietroburgo frequentandovi l’ambiente letterario, che si impegnò ad affrancare dal simbolismo attraverso diverse prospettive: lo sperimentalismo linguistico (basato su una continua invenzione fonetica, sull’utilizzo di neologismi e paronomasie, sulla ricerca etimologica), lo studio e il recupero delle radici arcaiche della letteratura russa, l’impiego di tecniche figurative cubiste, un esotismo incantato e visionario, il sogno di una lingua universale e profetica basata sull’allegorismo dei numeri e delle lettere. Fu propugnatore della poesia transmentale (Zaum’), fatta di puri suoni privi di un significato preciso. Autore di saggi utopistici in cui prevedeva un futuro rivoluzionato da nuove modalità di comunicazione, di trasporto, di urbanizzazione, venne travolto dalla sua stessa inquieta ansia di libertà e ribellione, che lo condusse a una vita nomade, di stenti e fame e impieghi precari, conclusa a 37 anni per una paralisi dovuta a inedia: «Quando stanno morendo, i cavalli respirano, / quando stanno morendo, le erbe intristiscono, / quando stanno morendo, i soli si spengono, / quando stanno morendo, gli uomini cantano».
Nei suoi versi troviamo scherno, ironia, divertimento puro («Senti il rumore, eh, amico mio? Questo qua è Dio che salta dentro un pio», «Bobeòbi si cantavano le labbra. / Veeòmi si cantavano gli sguardi. / Pieéo si cantavano le ciglia. / Lieeéi si cantava l’aspetto. / Gsì gsì gséo si cantava la catena. / Così, sulla tela di alcune corrispondenze / fuori della continuità viveva il Volto», «Quando c’era Adamo e Eva, / Chi vinceva, chi perdeva?»). Troviamo elegia («Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / un ditale di latte, / e questo cielo / e queste nuvole», «Le ragazze, quelle che camminano, / con stivali di occhi neri / sui fiori del mio cuore. / Le ragazze, che hanno abbassato le lance / Sul lago delle proprie ciglia. / Le ragazze, che si lavano i piedi / Nel lago delle mie parole»). Oppure rabbia («Dal sacco / si sparsero al suolo le cose. / Ed io penso / che il mondo / è soltanto un sogghigno, / che luccica fioco / sulle labbra di un impiccato»).
Ma è soprattutto nell’irrisione della politica ufficiale, del Potere massificante e oppressivo, dell’ortodossia ideologica che sbandiera le sue verità fasulle (Chlebnikov fu arrestato dalla Guardia Bianca negli anni della guerra civile, e costretto a vagabondare mendicando qualsiasi umile lavoro), che il poeta trova i suoi accenti più feroci, in una sorta di canto anarchico inneggiante alla libertà. «Per me è molto più piacevole / Guardare le stelle / Che firmare una condanna a morte. / Per me è molto più piacevole / Ascoltare la voce dei fiori, / Che sussurrano “È lui” / Chinando la testolina, / Quando attraverso il giardino, / Che vedere gli scuri fucili della guardia / Uccidere quelli / Che vogliono uccidere me. / Ecco perché io non sarò mai, / E poi mai, un Governante», «Basta, cavallo, senti, col dovere / Via l’aratro. Sferza e spacca l’acquazzone. / Senti, ci aspettano, fino al mattino, / Sono stalla e ammirazione», «I governi sono in brodo di giuggiole. / Il brodo di giuggiole governativo / fa strage di cavoli novelli. / Le loro code si alzan più in alto di quelle dei vitelli».
La Russia, patria amata nelle sue tradizioni popolari, nelle sue origini asiatiche, negli spazi sconfinati delle pianure, è però detestata nella gabbia ideologica imposta agli individui, nella sua indifferenza verso l’arte, nella censura promulgata contro il pensiero indipendente: «A migliaia di migliaia la Russia ha dato la libertà. / Non c’è cosa migliore. / A lungo la ricorderanno per questo. / Io invece mi sono tolto la camicia, / E tutti i grattacieli di specchi dei miei peli, / Tutte le fessure / Della città del corpo / Hanno esposto tappeti e tessuti rossi. / Le cittadine e i cittadini / Del Me – stato / Si sono affollati alle finestre dei riccioli dalle mille finestre. / Le Olghe e gli Igor’, / Non per convenienza, / Rallegrandosi del sole, hanno guardato attraverso la pelle. / Era finita la prigionia della camicia. / Mi ero semplicemente tolto la camicia / E avevo dato il sole al popolo del Me. / Ero nudo, vicino al mare. / Così ho regalato la libertà ai popoli, / Alle genti che prendevano il sole».
Attraverso le parole, usate con ironia e irriverenza, sperava si potesse attuare una trasformazione della società in una dimensione più democratica e moderna, ed esprimeva tale aspirazione in brevi prose graffianti e aforismi, oppure occupandosi di aspetti minimi e irrilevanti dell’esistenza, di personaggi umili e degli animali (Lo zoo: «Giardino, giardino, dove lo sguardo di una bestia conta di più di mucchi di libri letti»). Con la stessa leggera e sprezzante improntitudine offriva ai lettori un ritratto impietoso e canzonatorio di sé stesso: «Son più dorato di un’abbronzatura, / più velenoso dell’ossido carbonico», «E gli altri io li guardo come sega, / Io sono un poco putrido e cattivo», «Io ah ah ah e ih ih ih, / E raramente, più semplicemente, solo eccì», «Io, non sono Čechov».
Difficile tradurre una poesia così frantumata, immaginosa e stravagante come quella di Velimir Chlebnikov. Paolo Nori ci è riuscito con eleganza e levità, aderendo al testo il più fedelmente possibile: e quando non gli è stato possibile, inventando. Come confessa con divertita umiltà.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 23 aprile 2019
ITALO ALIGHIERO CHIUSANO, KONRADIN – SAN PAOLO, MILANO 2013
Questa biografia di Corradino di Svevia scritta da Italo Alighiero Chiusano ha l’ampio respiro di un’opera di invenzione e di poesia, pur nella sua fedeltà ai dati storici. Le pagine iniziali di Konradin (San Paolo Edizioni, 2013) si aprono su un ragazzo quattordicenne che vive, cresce, soffre nell’attesa di chissà quale nebuloso e sconvolgente avvenimento futuro: lontano dalla madre, che si è risposata e vive a Milano, Konrad è affidato alla sorveglianza dei due zii materni, Ludovico (violento e ottuso) ed Enrico (subdolo e vile), in un tetro castello della Baviera.
Corradino è l’ultimo erede della stirpe sveva: figlio di Corrado IV, nipote di quel Manfredi «biondo e bello» di cui scrisse Dante, viene educato nel mito della sua antica casata, con il miraggio che sappia meritatamente riportarla ai fasti trascorsi. Va quindi a caccia, compie esercizi ginnici, gioca a scacchi, studia le lingue classiche, presiede diete di principi: è un apprendista imperatore. Ha in effetti i capelli biondi e gli occhi azzurri degli avi, mani lunghe ed energiche «da futuro re», ma è anche un giovane appena sbocciato all’adolescenza, con i turbamenti propri di chi teme l’abbandono dell’infanzia.
Patisce la lontananza dalla madre, cui scrive lettere rancorose e appassionate, lasciando che l’amore spesso si tramuti in odio e sadico livore. Ama la pelle grinzosa della vecchia nutrice Marfrida, che sola gli ha dato le carezze e i baci negati alla sua infanzia dorata e solitaria. Si tormenta nel desiderio del corpo femminile, e nell’altro contrastante ma esaltato proposito di purezza e castità. Ha già molto sofferto, episodi oscuri e tragici come l’uxoricidio dello zio Ludovico, o un tentativo di avvelenamento messo in atto nei suoi confronti da Manfredi, hanno marchiato profondamente la sua psicologia, portata naturalmente alla malinconia e alla riflessione. Non si ribella neppure al sopruso di un matrimonio combinato con Sofia di Landsberg, sconosciuta bimbetta di otto anni, e con rassegnata amarezza così ne scrive alla madre: «…non so nemmeno se assomigli più a un corvo o a una angelo, se ha il nasino ossuto o carnoso, la voce che graffia o che accarezza…E sì, madre, che prendevo molto sul serio il matrimonio, e volevo fare del mio, quando che fosse – ma non certo così presto – una cosa bella, vorrei quasi dire un’opera d’arte. Vale, mater, vale. E tantissime grazie».
Sarà il nonno, Federico II redivivo, comparsogli davanti come deus ex machina e prezioso alter ego della coscienza, a scuoterlo dalla sua remissività, a provocarlo con le sue posizioni irridenti, con le sue violenze arroganti: il ragazzo Corradino protesta, sbraita, gli si oppone, ma alla fine agisce. Nei momenti cruciali delle scelte, Federico II appare al nipote, barbuto e poderoso, scrutandolo col suo unico occhio di un azzurro intenso: da tutti creduto sepolto, ma in realtà scampato alla morte con un sotterfugio, è tornato, vecchio ma indomito, per cercare nell’erede qualcosa di se stesso e richiamarlo all’impegno dovuto al suo nome.
I due svevi si fronteggiano in un continuo duello di idee e atteggiamenti: l’uno miscredente, carnale, feroce, l’altro pio, casto, tenero. Corradino è scisso tra ribellione e obbedienza: «Vorrei staccarmi con la mente da Federico che in parte amo affascinato, in parte (temo maggiore) aborro come una continua violenza a tutto ciò che sono».
Eppure l’avo Federico riconosce nel ragazzo troppo sensibile, troppo capace di leggergli nel pensiero, come tutti «i destinati a morte precoce», il continuatore della missione sveva di conquista: «Decidi, Konrad, se dello Stato vuoi essere il reggitore o solo un bell’ornamento. Se la prima cosa, impara ad amare la durezza». E Corradino decide. Convoca la Dieta di Augusta e scende in Italia, a quindici anni, capo di un esercito che sogna di contendere al papa e a Carlo d’Angiò le terre che erano state degli Svevi.
La storia è nota: colpito dall’anatema papale, Corradino si ferma a Verona, Pavia, Pisa, Siena, raccogliendo vittorie e sconfitte, trionfi e tradimenti, fino alla defezione di molti principi tedeschi che l’avevano accompagnato.
Chiusano si muove in queste vicende con eleganza e fedeltà alla verità storica, regalandoci di suo non pochi personaggi e situazioni compiutamente credibili e riusciti. Come la figura di Lale, sposa vera seppure illegittima di Corradino, che il nonno gli ha donato in uno slancio di affetto sincero e di calcolo opportunistico, e che poi fa avvelenare per paura che distolga il nipote dai suoi doveri di futuro sovrano. Chiusano, sempre più a suo agio nella descrizione di caratteri e momenti delicati, ha agio in questa storia d’amore di rivelare tutte le sue doti di fine indagatore dei turbamenti adolescenziali, di pudori ed esaltazioni che mantengono sempre qualcosa di sacro e incorruttibile, a spregio di qualsiasi volgarità.
Privo della sua Lale, Corradino affronta con adulto coraggio e dignitosa compostezza sia la tragica battaglia di Tagliacozzo, sia la imprevista sconfitta, quindi il processo farsa e la decapitazione, dopo aver rifiutato la demoniaca tentazione offertagli dal nonno di una salvezza solitaria, di un tradimento meschino. E in queste ultime pagine, il sacrificio senz’altro cristiano, quasi messianico di Corradino, viene riconosciuto nella sua nobiltà anche dal nonno, Imperatore Federico II di Svevia: «Sei molto, moltissimo diverso da me… però, sei uno Svevo anche tu… Vai in tutt’altra direzione, ma anche tu voli alto… di te anche i semplici serberanno ricordo».
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www.sololibri.net/Konradin-Italo-Alighiero-Chiusano.html 22 novembre 2015