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RECENSIONI

CHAR

RENÉ CHAR, LETTERA AMOROSA – ARCHINTO, MILANO 2008

Un piccolo libro bello da leggere e da guardare, questa Lettera amorosa di René Char (1907-1988). Composto dal poeta francese nel 1952, e illustrato dal pittore surrealista Jean Arp, fu pubblicato come manoscritto di 36 pagine con il titolo di Guirlande terrestre pour un ange de plomb. Consisteva di brevi frasi, versi, illuminazioni, lampi di memorie dedicati a una donna amata e assente, forse perduta o solo lontana. Arp aveva incollato 16 ritagli di carta colorata su fogli dipinti a tempera, ad accompagnare la scrittura minuta di Char in inchiostro nero, segnata da numerose correzioni.

Si trattava di un abbozzo della Lettera amorosa, come venne pubblicata in diverse edizioni successive, fino alla rielaborazione (con 27 splendide litografie a colori di George Braque) del 1963. L’editrice Archinto ha riproposto in volume entrambe le versioni, del 52 e del 63, con le relative illustrazioni di Arp e Braque, nella traduzione di Anna Ruchat. Il titolo riprende i versi di un poeta barocco, Claudio Achillini, resi in musica da Monteverdi in uno dei suoi Madrigali, e riportati in esergo della dedica: “Non è già part’in voi che con forz’invincibile d’amore tutt’a se non mi tragga”.

Invocazione d’amore, quindi, questa di René Char, che rimpiange la “felicità furtiva” di un incontro, sfumato poi nel tempo di un distacco: “Ti voglio bene mentre la pesante lancia della morte va alla deriva nella corrente”. Poeticissime dichiarazioni di dipendenza, fedeltà, nostalgia, insieme ad ammissioni delle proprie manchevolezze: “Potrai tu accettare, contro di te, un uomo così palpitante?”. I due amanti sono immaginati nell’immersione in una natura benevola e protettiva, pronta ad accoglierli, difendendoli dalle ostilità esterne: “Vorrei scivolare in una foresta dove le piante si richiudessero e si stringessero dietro di noi, foresta molte volte centenaria, ma che deve ancora essere seminata”, “Una campanella tintinna sul pendio dei muschi dove ti addormentavi, mio angelo della svolta. Il terreno dei sassolini nani era l’opposto umido del cielo lungo, gli alberi l’opposto di danzatori intrepidi”. Chi li ha divisi, e lei dove si nasconde? “Ho alzato gli occhi alla finestra della tua stanza. Ti sei portata via tutto?”, “Quale momento ostile ti accaparra? La tua persona si affretta, il tuo bacio scompare”, “Ecco di nuovo i gradini del mondo concreto, la prospettiva oscura dove gesticolano sagome di uomini nelle rapine e nella discordia”. Ma l’omaggio alla donna (“Tu sei la continua”) è tenace, fervido, appassionato: “Tu sei piacere, corallo di spasmi”, “Grazie di essere, senza romperti mai, iris, mio fiore di gravità”, “L’aria che sento sempre pronta a mancare alla maggior parte degli esseri, se ti attraversa, ha un’abbondanza e svaghi sfavillanti”.

L’esile canzoniere d’amore di René Char trae, se possibile, ancora maggior incanto dalle illustrazioni di Jean Arp e George Braque che lo accompagnano, impreziosendolo.

 

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https://www.sololibri.net/Lettera-amorosa-Char.html      13 febbraio 2019

 

RECENSIONI

CHAVEZ CASTILLO


SUSANA CHÀVEZ CASTILLO – PRIMA TEMPESTA. NON UNA DONNA DI MENO, NON UNA MORTA DI PIÙ – SUR, ROMA 2024

Tre sono le sezioni in cui si suddivide Prima tempesta, il libro della poeta e attivista messicana Susana Chávez Castillo, da poco pubblicato dalle edizioni romane SUR: “Io sono l’imprevisto di Juárez”, “La storia d’amore è la trappola”, “Gli alberi hanno nascosto i loro uccelli”, i cui titoli – tratti dai versi delle composizioni –, bene esemplificano l’intreccio tra privato e politico, passione amorosa e violenza subita, concretezza del reale e favolosa visionarietà che l’hanno nutrito. Davvero Susana è stata un insopportabile imprevisto, uno scandaloso inciampo per Ciudad Juárez, “la città più pericolosa del mondo” in cui è nata nel 1974 ed è stata barbaramente uccisa nel 2011, a soli trentasei anni. Luogo amato e odiato, sul confine tra Messico e Stati Uniti, epicentro del narcotraffico, teatro di femminicidi sistematici e crudeli tra le operaie assunte dalle fabbriche statunitensi delocalizzate, trucidate e sepolte in fosse comuni perché interferivano con le attività criminali e minacciavano l’occupazione della popolazione maschile locale. Ma l’omicidio di Susana, in questo posto desertico e di rude bellezza, fu certamente determinato da altre motivazioni, che riguardavano la sua attività di propaganda politica, il suo vissuto di femminista lesbica, la sua scrittura rabbiosa e indomabile. Un’uccisione programmata, messa in atto secondo un rituale che potremmo tranquillamente definire mafioso, con il corpo denudato, una mano amputata e la testa infilata in un sacco della spazzatura. “Un giorno vorranno portarmi via i sogni / come hanno fatto in passato / ma finché i miei ideali continueranno a vivere / non rinuncerò alla lotta / nel mezzo di un regime fallito”, “Non so perché Dio ci abbia annegati di povertà. / Il mio popolo ha uno stomaco povero, / ha povero il pensiero, / povera la fiducia, / povera l’anima”.

Susana aveva avuto un’infanzia difficile, per l’abbandono e il suicidio della madre alcolizzata: la lettura di poeti sudamericani, l’amore per la musica tradizionale e le leggende popolari, gli studi di psicologia avevano reso più sopportabile l’ambiente claustrofobico in cui viveva, e da cui riusciva ad evadere appigliandosi alla nativa cultura sciamanica, con gli animali totemici e gli spiriti guida, e soprattutto al richiamo potente della scrittura.

Susana scriveva ovunque, sui biglietti degli autobus, sui tovaglioli dei bar, sulla carta igienica, regalando le sue poesie e le sue riflessioni a chiunque le volesse leggere, senza riuscire mai a pubblicare nulla nel corso della sua esistenza. Ma aveva aperto un blog, Primera tormenta, il 12 maggio 2001, firmandosi SuChaCa, ancora attivo e amministrato dalla sua famiglia (www.primeratormenta.blogspot.com), affidando alla parola scritta la sua rabbia, il suo dolore febbrile, ma anche l’incontenibile gioia che le procurava il rapporto con compagne e compagni di lotta, la fede in un futuro di liberazione per il suo paese: “Tesse virtù con il filo della parola / verso il luogo dove il dolore non è tema / perpetuo / avanzando verso l’incontenibile”, “Ogni silenzio ci condurrà alla parola che ci riflette”,  “Che si uniscano alla mia lotta / se davvero vogliono vivere / in una mano la luna / nell’altra l’avvenire”, “Certe parole cercano la tua bocca / e divorano il tuo respiro / sentendole nella carne che prende vita”, “perché non ho regole per scrivere / ma scrivo per riuscire a sentire”.

Sentiva profondamente e appassionatamente, Susana: amicizia e solidarietà per le vittime del potere politico, della violenza maschilista, della corruzione. Sorellanza e cura per le donne maltrattate, abusate, disconosciute. Amore vissuto con vivace sensualità per uomini e donne, e in particolare per la sua compagna Blanca Inés Cruz Champala, a cui dobbiamo la conservazione e il riordino di tutti gli inediti. “La tequila amara / non ha ancora cancellato il tuo volto dalla mia mente, / tra la gente mi rifugio / per credere di essere felice, “Tu riempi il mio spazio, / mi invadi di gioia, / mastichi le mie ansie / e ti perdi nella notte”. Mi stupisco quando mi trasformi in un uccello, / prendendomi all’improvviso / fra i tuoi rami / e mi fai scorrere gocce di sorrisi anche se / porto un cuore di pietra. / Una pietra che al tuo respiro si sfarina”, “Vieni tu nella mia vita / mia amata ragazza, mio povero angelo, / mia migliore puttana. / Vieni, ti lascio la porta aperta”.

Capace anche di leggerezza, sfrontata ironia, grossolanità popolana: “c’è libertà nella mia anima / perché oggi pomeriggio impazzirò / e non me ne importa nulla”, “Io che alcolizzata scrivo / cose che neanche io comprendo / chiedo alla mia stupida penna / perché cazzo non capisco / che la luna è lì fuori / e io me la sto perdendo”, “Uno di questi giorni berrò il tuo sangue / e ti strapperò la pelle / per mangiarla a pezzi / con tortilla e cipolla / e i tuoi capelli, quelli, li metterò in una scatola / il resto lo darò ai cani / che hanno sempre fame”, “Chi ha detto che le donne non possono? / Quante stronze come me esistono e / ce la fanno?… Non me ne frega niente, a me nessuno mi spoglia / con la forza… Fottuta alba che ci fa alzare per i soldi”.

Conchita De Gregorio, che ha curato e tradotto le cinquantasette composizioni raccolte nel volume, nella prefazione afferma che “la poesia di Susana Chávez Castillo è un materiale incandescente: dolorosa, erotica, ironica, domestica, intrecciata al fiume di anime del mondo”, e ricordando che il suo motto “Ni una más” è diventato slogan globale, sottolinea di lei “la militanza indefessa e vitale, così sfrontatamente incurante del pericolo: niente l’avrebbe fermata, niente l’ha fermata”. Hilda Sotelo, amica ed estimatrice della poeta, tracciandone una partecipe biografia, narra della discriminazione patita da parte degli ambienti intellettuali messicani, che preferirono ignorare il suo discorso profetico, la forza della sua voce di protesta: “voce con cui espello tutto ciò che ho dentro”.

Sylvia Aguilar Zéleny, Cristina Rivera Garza Valentina Jager e Mauricio Patrón (team di Canal Press dell’Università di Houston che ha curato la prima pubblicazione di questo volume), nella postfazione scrivono: “Questo libro non è un resoconto della violenza a Ciudad Juárez ma un approccio alla vita di una città di confine – e sul confine si cresce, si impara, si combatte. I versi di Susana sono un vagare per le strade, uno sbirciare nelle case, un circondarsi di chi si ama anche quando non si è amate. In questa edizione chi legge troverà poesie sulla crescita e sull’amore, sulla corsa e sulla morte, sul vivere e sul precipitare a Ciudad Juárez. Susana scrive di essere figlia, amante, cittadina infuriata”.

Prima vittima di femminicidio che aveva avuto il coraggio di urlare: “Ni Una Más, Ni Una Asesinada Más”.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 27 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CHENG

FRANÇOIS CHENG, CINQUE MEDITAZIONI SULLA BELLEZZA

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2007

 

«L’universo non è tenuto a essere bello, eppure lo è». Qual è il fine, lo scopo, la motivazione che obbliga una rosa, un panorama montano, il volto di una donna o un sorriso a essere bello? E quale la causa, l’origine, l’illuminazione prima che ha provocato il nascere della bellezza?
François Cheng indaga da filosofo e da artista il mistero di ciò che dalle origini affascina l’umanità, ne addolcisce i dolori e i tormenti, ne finalizza la ricerca in ambito estetico, in Cinque meditazioni sulla bellezza nate da una serie di conferenze che hanno la struttura spiraliforme (circolare, ma anche diretta a un approfondimento sempre più penetrante) dell’oralità: e anche l’umile apertura al colloquio, al confronto.

Partendo dalla constatazione della gratuità della bellezza, del suo intrinseco e nobile accadere come dono, “presenza irradiante e unificante, (…) dotata di un potere trasfigurante”, François Cheng esamina il concetto di bellezza relativamente ai fenomeni della natura e dell’umano, sottolineando il carattere “etico” della bellezza, intesa come offerta e apertura al bene, come slancio e desiderio verso l’eterno e il divino, la cui dimensione è l’infinito.

Nel suo excursus sapiente e insieme lineare, accessibile, sull’arte e il pensiero occidentale, mette in luce lo iato che ha stravolto la ricerca dell’armonia (costante dai greci fino al XIX secolo) negli ultimi duecento anni, quando pittura, scultura, musica e poesia hanno iniziato a confrontarsi sempre più spesso con l’esistenza del male, dell’osceno, della provocazione, contestando all’arte la sua funzione di redenzione, di riscatto dal negativo. E il confronto più coinvolgente non è solo quello interno allo sviluppo estetico dell’occidente, ma soprattutto quello tra quest’ultimo e l’antichissima arte cinese, la sua ricerca pacata e armonica della misura, della compenetrazione di soggetto-oggetto, dell’interazione tra spirito e materia: in un’affascinante interazione trasformatrice di ogni esistente.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/meditazioni-bellezza-Cheng.html     4 ottobre 2016

RECENSIONI

CHESTERTON

GILBERT K. CHESTERTON, L’UOMO CHE FU GIOVEDÌ– BOMPIANI, MILANO 2007/2012

Se non il migliore e il più famoso, L’uomo che fu Giovedì rimane il più paradossale e il più politicamente provocatorio romanzo di Gilbert K. Chesterton. Pubblicato in Inghilterra nel 1908, da allora ha conosciuto molte riedizioni anche in Italia. Quella di Bompiani di cui ci occupiamo è introdotta da una scoppiettante e ammirata prefazione di Enrico Ghezzi, che non nasconde il suo entusiasmo per l’autore, per la sua «indifferenza geniale alla dimensione temporale», per il suo «antipsicologismo» in grado di affrontare giocosamente, con leggerezza priva di mistero, temi filosofici e teologici di alto spessore.

Gilbert Keith Chesterton (18741936), fu scrittore prolifico e versatile. Scrisse centinaia di poesie, un poema epico, drammi, romanzi e circa duecento racconti (tra cui la popolare serie di padre Brown, interpretata da Renato Rascel in una fortunata riduzione televisiva degli anni ’70); fu autore inoltre di più di quattromila saggi giornalistici, vertenti su temi di politica, religione ed economia. Convertitosi al cattolicesimo nel 1922, divenne un vessillo della letteratura cristiana europea, al punto da rischiare la canonizzazione sotto il pontificato di Benedetto XVI: troppo ironico e anticonformista, tuttavia, troppo poco devoto per diventare santo.

L’uomo che fu Giovedì si apre su una istrionesca disputa tra due sedicenti poeti nel sobborgo londinese di Saffron Park: da una parte il sanguigno e irsuto Luciano Gregory, rosso di pelo e di fede politica, convinto che la poesia e il mondo debbano vivere nell’anarchia e nella disubbidienza a qualsiasi regola. Dall’altra l’efebico Gabriele Syme, sostenitore dell’ordine, della rispettabilità e della compitezza. I due rappresentano ideologie agli antipodi, nell’arte e nel pensiero: caos e rigore, bene e male, divino e inferi, così come vanno fronteggiandosi dalla nascita della civiltà. Gregory convince Syme a partecipare a una riunione, tenuta nel segreto di un bunker sotterraneo, del Consiglio Centrale Anarchico. In tale occasione, i sette membri che per sicurezza hanno assunto ciascuno il nome di un giorno della settimana, dovranno sostituire il socio Giovedì, venuto improvvisamente a mancare. Sotto la direzione del gigantesco, pantagruelico e ambiguo Presidente, chiamato Domenica, la scelta della misteriosa setta cade proprio sul poeta rigoroso, Gabriele Syme, che in realtà non è ciò che dichiara di essere, bensì un agente di Scotland Yard, operante sotto copertura per difendere la società britannica e l’universo intero dalla minaccia sovversiva del terrorismo anarchico. Da questa inaspettata rivelazione, nasce una serie di incredibili metamorfosi dei personaggi, di inseguimenti e sparizioni, finti attentati e veri travestimenti, fughe e duelli, sommosse popolari e severe repressioni militari, attraverso cui il lettore lentamente scopre che i ruoli di tutti i personaggi si mascherano e smascherano via via nel loro opposto: ogni rivoluzionario è in realtà un reazionario, ogni terrorista un poliziotto, caricature indecifrabili e bugiarde che scherniscono il potere nel momento in cui lo rappresentano.

Se il finale del romanzo rivela tutta la sua assurda e derisoria beffa onirica, è nella dichiarazione centrale di un ispettore di Scotland Yard che G.K.Chesterton riassume tutto il suo sarcastico credo: il pericolo per l’umanità non è rappresentato dai piccoli delinquenti (i ladri, i bigami, i bombaroli, gli assassini passionali), ma dagli intellettuali, dai filosofi eretici, dai liberi pensatori che con il loro nichilismo minano le basi della società: «È sicuro che il mondo scientifico e artistico siano silenziosamente associati in una crociata contro la famiglia e lo Stato… Noi abbiamo da rintracciare l’origine di quegli spaventosi pensieri che spingono gli uomini da ultimo al fanatismo intellettuale e al delitto cerebrale… Noi diciamo che i delinquenti pericolosi sono quelli istruiti, che il più pericoloso criminale è il moderno filosofo senza legge alcuna». Quanto indigeribile era allora, all’inizio del ’900, il pensiero critico e fuori dagli schemi! Per fortuna oggi le cose sono cambiate. Ma questo romanzo che oscilla tra il picaresco e il fantasy, tra il noir e il fantascientifico, tra la commedia e il poliziesco, ci insegna a sorridere di ogni fasullo fideismo, conservando per quanto possibile la fede in ciò che rimane semplicemente umano.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/L-uomo-che-fu-giovedi-Chesterton.html      8 aprile 2018

RECENSIONI

CHIALA’

SABINO CHIALA’, SILENZI. OMBRE E LUCI DEL TACERE – QIQAJON, MAGNANO 2013

Sabino Chialà, monaco e studioso di spiritualità orientale nel Monastero di Bose, con questo volume ambisce a farci riflettere sul tema rilevante, e poco affrontato dalla cultura contemporanea, del silenzio. Anzi, sui vari tipi di silenzio, al plurale.«Il silenzio è una realtà ambigua, ma irrinunciabile». Tacere infatti può esprimere molte cose opposte: mutismo o comunicazione, disprezzo dell’altro o compassione, autoillusione o umiliazione, esperienza di angoscia o di pacificazione. Il silenzio può essere anche veicolo di ostilità e di odio, può indicare un giudizio umiliante sugli altri, un luogo in cui coltivare inimicizia. E Chialà scrive parole molto dure su alcuni pesantissimi silenzi «dell’uomo religioso, e più specificamente del monaco»; così come riporta passi elogiativi dei Padri del deserto che esaltano «il vero silenzio che sarà il maturare dell’amore per l’altro…nella compassione per ogni creatura». Obbiettivo del vero silenzio «è quello di trovarvi un luogo di pace…del disarmarsi, del cedere…». Ovviamente, molto spazio nel libro viene dato al silenzio nella vita cristiana, come strumento di lotta contro la superficialità e la distrazione, come forma di preghiera e discernimento, come spazio offerto alla Parola di Dio. Ma anche si indaga sul silenzio per eccellenza, quello che è l’unica risposta al male: praticato da Cristo, o da un Dio che si nasconde e deve rimanere nascosto. L’invito pressante è a incamminarsi verso un tacere che sia ascesi, interiorizzazione, combattimento verso un parlare vano. Ne dovremmo fare tesoro tutti, anche i troppi religiosi che invadono rumorosamente i nostri media, più per vanità personale che per desiderio di evangelizzazione. «Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt.12,36).

 

«Accademia del Silenzio», 16 gennaio 2014

RECENSIONI

CHIALA’

SABINO CHIALÀ, DONNE GENERATIVE CHE APRONO UN FUTURO – QIQAJON, BOSE 2024

Sabino Chialà, Priore di Bose dal 2022, ha pubblicato presso le edizioni Qiqajon della Comunità “Donne generative che aprono un futuro”, testo di una trentina di pagine compreso nella collana Sentieri di senso.

Sei sono le figure femminili prese in considerazione dall’autore, protagoniste dei primi capitoli dell’Esodo, che si apre in realtà con l’elenco dei dodici nomi maschili dei figli di Giacobbe, evocanti le dodici tribù di Israele. Una storia, quella patriarcale qui narrata, segnata da “complessità e drammaticità, fatta di migrazioni causate dalla carestia, di accoglienza e poi di asservimento”.

La discesa in Egitto degli Israeliti, dapprima accolta pacificamente e con benevolenza dal popolo ospitante, viene in seguito avvertita come una minaccia, mettendo in crisi la reciproca convivenza delle due etnie. Il nuovo faraone, che non aveva conosciuto Giuseppe e la sua famiglia, infrange il patto di amichevole tolleranza con gli ebrei, temendo la loro forza crescente, e li perseguita con un’azione repressiva messa in atto dai suoi sovrintendenti attraverso vessazioni e umiliazioni continue, rendendo “amara la loro vita” (es. I, 14). Escogita poi di far uccidere dalle levatrici i neonati maschi delle donne ebree, primitiva procedura di pulizia etnica.

A questa tragica realtà di sopruso e di violenza, si intrecciano però piccoli gesti di attenzione e cura femminile, che aprono la possibilità di un futuro di libertà per gli israeliti. Sei donne si oppongono al destino di morte imposto dal potere maschile, riuscendo a preservare la vita di Mosè, allo stesso tempo salvato e salvatore, come vuole l’etimologia del suo nome. Le prime due donne a entrare in scena sono le due levatrici Sifra e Pua, che disobbediscono al re e lasciano vivere i bambini, timorose del giudizio di Dio e rispettose dell’umanità a cui appartengono. In quanto levatrici, onorano la vita che è a loro affidata, e pur nella semplicità e insignificanza sociale che le contraddistingue, mandano un forte segnale di resistenza contro il male.

Il nuovo ordine del faraone è ancora più crudele, e impone al popolo di gettare nel Nilo ogni figlio maschio: ma saranno altre due donne a invalidare la volontà mortifera del re. La madre e la sorella di Mosè lo pongono in un cestello di papiro affidandolo alle acque del fiume, decise a preservarne l’esistenza non solo in ragione della consanguineità, ma come bene da tutelare in favore dell’intera comunità.

Infine, viene presentata l’ultima coppia di donne: la figlia del faraone con la sua schiava. La principessa egiziana riconosce nel bambino un discendente della stirpe ebraica (Es. 2, 6), quindi un potenziale nemico, e tradisce l’ordine del padre accogliendolo “come un figlio”, perché animata da un tenero sentimento di compassione. Affida alla vera madre del neonato, presa a balia, il compito di allattarlo, e lo battezza con il nome che nei millenni indicherà salvezza.

Sabino Chialà (Locorotondo, 1968) è teologo e biblista, studioso di ebraico e siriaco, esperto di scritti apocrifi cristiani e di letteratura dei primi secoli del cristianesimo, soprattutto orientali. Il suo racconto delle sei donne che in differenti maniere generano vita, vuole essere un apologo sulla forza con cui anche le persone meno influenti possono opporsi all’ingiustizia, agendo controcorrente, senza omologarsi a comportamenti servili, lontane da qualsiasi calcolo di convenienza, vincendo la paura. Sono sei donne, in un mondo dominato dal sistema maschile, che obbediscono a un coraggioso richiamo etico, di solidarietà verso l’innocenza violata e di speranza per il futuro.

Nella storia delle grandi imprese, delle genealogie e dei regni, esiste quindi la possibilità di un cammino diverso, umile e concreto, i cui frutti spesso non vengono riconosciuti nell’immediato, ma imprimono tracce difficili da cancellare, perché “nessuna situazione di male è ermeticamente impermeabile al bene, e nessun bene è irrilevante”.

 

© Riproduzione riservata       «La Poesia e lo Spirito», 21 dicembre 2024

 

RECENSIONI

CHINNICI

CATERINA CHINNICI, É COSI’ LIEVE IL TUO BACIO SULLA FRONTE – MONDADORI, MILANO 2015

Caterina Chinnici, attualmente parlamentare europeo, è entrata in magistratura giovanissima sulle orme del padre Rocco, giudice “siciliano autentico”, ideatore del primo “pool antimafia” e ucciso in un attentato nel luglio del 1983. Ha pubblicato nel 2013 questo affettuoso omaggio alla vita e all’eroismo paterno, che adesso Mondadori ripropone in edizione economica. Ne scaturisce l’immagine pubblica e privata di un uomo coraggioso e forte nella sua attività di magistrato, attivissimo nella partecipazione alla vita sociale e culturale palermitana, ma anche teneramente attento e presente nei rapporti con la moglie e i tre figli.
Il ricordo di Caterina, la maggiore, è ancora vivissimo nella descrizione delle laboriose giornate del padre, del suo risveglio mattiniero e del caffè che preparava per tutta la famiglia, dell’abitudine di baciarla sulla fronte prima di recarsi al lavoro, usando sempre la precauzione di uscire di casa da solo, per proteggere i suoi cari.
Così ricostruisce la tragica mattina di quel 29 luglio: «…il suo ultimo ‘Buongiorno’, i passi sul solito percorso studio-cucina-ingresso, la porta di casa chiudersi, la 126 verde imbottita di tritolo esplodere, i vetri di ogni finestra nel giro di 400 metri saltare in aria, l’albero davanti a casa polverizzarsi, le lamiere volare e poi ricadere a terra pesanti».

Chi era Rocco Chinnici? Nato nel 1925 nella campagna palermitana, figlio di un piccolo proprietario terriero, aveva studiato giurisprudenza, ottenendo il primo incarico come pretore nel trapanese: «…metteva la persona al centro…era attento ai bisogni degli individui, li rispettava chiunque fossero…».
Aveva sposato Agata, un’insegnante di scienze: di quegli anni lontani, Caterina scrive: «abbiamo avuto un’infanzia spudoratamente felice», e ripercorrendo trasferimenti e promozioni del padre, l’impegno civile e la sua dedizione allo stato, ne tratteggia un ritratto ammirato e nostalgico, commosso e grato.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/E-cosi-lieve-il-tuo-bacio-sulla.html

29 dicembre 2015

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CHIUSANO

ITALO ALIGHIERO CHIUSANO, KONRADIN – SAN PAOLO, MILANO 2013

Questa biografia di Corradino di Svevia scritta da Italo Alighiero Chiusano ha l’ampio respiro di un’opera di invenzione e di poesia, pur nella sua fedeltà ai dati storici. Le pagine iniziali di Konradin (San Paolo Edizioni, 2013) si aprono su un ragazzo quattordicenne che vive, cresce, soffre nell’attesa di chissà quale nebuloso e sconvolgente avvenimento futuro: lontano dalla madre, che si è risposata e vive a Milano, Konrad è affidato alla sorveglianza dei due zii materni, Ludovico (violento e ottuso) ed Enrico (subdolo e vile), in un tetro castello della Baviera.
Corradino è l’ultimo erede della stirpe sveva: figlio di Corrado IV, nipote di quel Manfredi «biondo e bello» di cui scrisse Dante, viene educato nel mito della sua antica casata, con il miraggio che sappia meritatamente riportarla ai fasti trascorsi. Va quindi a caccia, compie esercizi ginnici, gioca a scacchi, studia le lingue classiche, presiede diete di principi: è un apprendista imperatore. Ha in effetti i capelli biondi e gli occhi azzurri degli avi, mani lunghe ed energiche «da futuro re», ma è anche un giovane appena sbocciato all’adolescenza, con i turbamenti propri di chi teme l’abbandono dell’infanzia.
Patisce la lontananza dalla madre, cui scrive lettere rancorose e appassionate, lasciando che l’amore spesso si tramuti in odio e sadico livore. Ama la pelle grinzosa della vecchia nutrice Marfrida, che sola gli ha dato le carezze e i baci negati alla sua infanzia dorata e solitaria. Si tormenta nel desiderio del corpo femminile, e nell’altro contrastante ma esaltato proposito di purezza e castità. Ha già molto sofferto, episodi oscuri e tragici come l’uxoricidio dello zio Ludovico, o un tentativo di avvelenamento messo in atto nei suoi confronti da Manfredi, hanno marchiato profondamente la sua psicologia, portata naturalmente alla malinconia e alla riflessione. Non si ribella neppure al sopruso di un matrimonio combinato con Sofia di Landsberg, sconosciuta bimbetta di otto anni, e con rassegnata amarezza così ne scrive alla madre: «…non so nemmeno se assomigli più a un corvo o a una angelo, se ha il nasino ossuto o carnoso, la voce che graffia o che accarezza…E sì, madre, che prendevo molto sul serio il matrimonio, e volevo fare del mio, quando che fosse – ma non certo così presto – una cosa bella, vorrei quasi dire un’opera d’arte. Vale, mater, vale. E tantissime grazie».

Sarà il nonno, Federico II redivivo, comparsogli davanti come deus ex machina e prezioso alter ego della coscienza, a scuoterlo dalla sua remissività, a provocarlo con le sue posizioni irridenti, con le sue violenze arroganti: il ragazzo Corradino protesta, sbraita, gli si oppone, ma alla fine agisce. Nei momenti cruciali delle scelte, Federico II appare al nipote, barbuto e poderoso, scrutandolo col suo unico occhio di un azzurro intenso: da tutti creduto sepolto, ma in realtà scampato alla morte con un sotterfugio, è tornato, vecchio ma indomito, per cercare nell’erede qualcosa di se stesso e richiamarlo all’impegno dovuto al suo nome.
I due svevi si fronteggiano in un continuo duello di idee e atteggiamenti: l’uno miscredente, carnale, feroce, l’altro pio, casto, tenero. Corradino è scisso tra ribellione e obbedienza: «Vorrei staccarmi con la mente da Federico che in parte amo affascinato, in parte (temo maggiore) aborro come una continua violenza a tutto ciò che sono».

Eppure l’avo Federico riconosce nel ragazzo troppo sensibile, troppo capace di leggergli nel pensiero, come tutti «i destinati a morte precoce», il continuatore della missione sveva di conquista: «Decidi, Konrad, se dello Stato vuoi essere il reggitore o solo un bell’ornamento. Se la prima cosa, impara ad amare la durezza». E Corradino decide. Convoca la Dieta di Augusta e scende in Italia, a quindici anni, capo di un esercito che sogna di contendere al papa e a Carlo d’Angiò le terre che erano state degli Svevi.
La storia è nota: colpito dall’anatema papale, Corradino si ferma a Verona, Pavia, Pisa, Siena, raccogliendo vittorie e sconfitte, trionfi e tradimenti, fino alla defezione di molti principi tedeschi che l’avevano accompagnato.

Chiusano si muove in queste vicende con eleganza e fedeltà alla verità storica, regalandoci di suo non pochi personaggi e situazioni compiutamente credibili e riusciti. Come la figura di Lale, sposa vera seppure illegittima di Corradino, che il nonno gli ha donato in uno slancio di affetto sincero e di calcolo opportunistico, e che poi fa avvelenare per paura che distolga il nipote dai suoi doveri di futuro sovrano. Chiusano, sempre più a suo agio nella descrizione di caratteri e momenti delicati, ha agio in questa storia d’amore di rivelare tutte le sue doti di fine indagatore dei turbamenti adolescenziali, di pudori ed esaltazioni che mantengono sempre qualcosa di sacro e incorruttibile, a spregio di qualsiasi volgarità.
Privo della sua Lale, Corradino affronta con adulto coraggio e dignitosa compostezza sia la tragica battaglia di Tagliacozzo, sia la imprevista sconfitta, quindi il processo farsa e la decapitazione, dopo aver rifiutato la demoniaca tentazione offertagli dal nonno di una salvezza solitaria, di un tradimento meschino. E in queste ultime pagine, il sacrificio senz’altro cristiano, quasi messianico di Corradino, viene riconosciuto nella sua nobiltà anche dal nonno, Imperatore Federico II di Svevia: «Sei molto, moltissimo diverso da me… però, sei uno Svevo anche tu… Vai in tutt’altra direzione, ma anche tu voli alto… di te anche i semplici serberanno ricordo».

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Konradin-Italo-Alighiero-Chiusano.html    22 novembre 2015

RECENSIONI

CHLEBNIKOV

VELIMIR CHLEBNIKOV, 47 POESIE FACILI E UNA DIFFICILE –  QUODLIBET, MACERATA 2009

«Sklovskij diceva che era un campione, Jakobson diceva il più grande poeta del Novecento, Tynjanov diceva una direzione, Markov diceva il Lenin del futurismo russo, Ripellino diceva il poeta del futuro, e avevan ragione, secondo me, tutti, però avevano torto, anche, secondo me, e avevano torto perché, secondo me, Chlebnikov è molto di più».

Così Paolo Nori scrive di Velimir Chlebnikov nella postfazione a 47 poesie facili e una difficile, libro edito da Quodlibet nel 2009 e da poco ristampato. Nori si è laureato su questo poeta, e ne ha raccontato la vita nel romanzo Pancetta e in un recital musicale: la sua introduzione rivela l’entusiasmo e l’ammirazione non solo dello studioso e del traduttore, ma dell’innamorato, per un artista che seppe coraggiosamente opporsi a ogni stereotipo sociale, politico e culturale: «Chlebnikov doveva rimanere, per me, una specie di culto privato, rappresentava e rappresenta ancora, in buona parte, un sentimento che è al di là dei confini del linguaggio, è nell’indicibile, è qualcosa che c’è nella mia pancia e che va trattato bene, con cura, bisogna dargli dei fiori, farlo entrare nelle proprie preghiere e accontentarsi di quello…».

Velimir Chlebnikov (Chanskaja Stavka di Astrachan, 1885Santalovo di Novgorod, 1922), fu tra i fondatori del più importante gruppo futurista russo, Hylaea, insieme con Vladimir Majakovskij, che nel suo necrologio lo definì «un poeta per poeti». Poeta non facilmente inquadrabile, apprezzato e compreso da un pubblico ristretto. Dopo aver studiato matematica all’università di Kazan, si era trasferito a Pietroburgo frequentandovi l’ambiente letterario, che si impegnò ad affrancare dal simbolismo attraverso diverse prospettive: lo sperimentalismo linguistico (basato su una continua invenzione fonetica, sull’utilizzo di neologismi e paronomasie, sulla ricerca etimologica), lo studio e il recupero delle radici arcaiche della letteratura russa, l’impiego di tecniche figurative cubiste, un esotismo incantato e visionario, il sogno di una lingua universale e profetica basata sull’allegorismo dei numeri e delle lettere. Fu propugnatore della poesia transmentale (Zaum’), fatta di puri suoni privi di un significato preciso. Autore di saggi utopistici in cui prevedeva un futuro rivoluzionato da nuove modalità di comunicazione, di trasporto, di urbanizzazione, venne travolto dalla sua stessa inquieta ansia di libertà e ribellione, che lo condusse a una vita nomade, di stenti e fame e impieghi precari, conclusa a 37 anni per una paralisi dovuta a inedia: «Quando stanno morendo, i cavalli respirano, / quando stanno morendo, le erbe intristiscono, / quando stanno morendo, i soli si spengono, / quando stanno morendo, gli uomini cantano».

Nei suoi versi troviamo scherno, ironia, divertimento puro («Senti il rumore, eh, amico mio? Questo qua è Dio che salta dentro un pio», «Bobeòbi si cantavano le labbra. / Veeòmi si cantavano gli sguardi. / Pieéo si cantavano le ciglia. / Lieeéi si cantava l’aspetto. / Gsì gsì gséo si cantava la catena. / Così, sulla tela di alcune corrispondenze / fuori della continuità viveva il Volto», «Quando c’era Adamo e Eva, / Chi vinceva, chi perdeva?»). Troviamo elegia («Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / un ditale di latte, / e questo cielo / e queste nuvole», «Le ragazze, quelle che camminano, / con stivali di occhi neri / sui fiori del mio cuore. / Le ragazze, che hanno abbassato le lance / Sul lago delle proprie ciglia. / Le ragazze, che si lavano i piedi / Nel lago delle mie parole»). Oppure rabbia («Dal sacco / si sparsero al suolo le cose. / Ed io penso / che il mondo / è soltanto un sogghigno, / che luccica fioco / sulle labbra di un impiccato»).

Ma è soprattutto nell’irrisione della politica ufficiale, del Potere massificante e oppressivo, dell’ortodossia ideologica che sbandiera le sue verità fasulle (Chlebnikov fu arrestato dalla Guardia Bianca negli anni della guerra civile, e costretto a vagabondare mendicando qualsiasi umile lavoro), che il poeta trova i suoi accenti più feroci, in una sorta di canto anarchico inneggiante alla libertà. «Per me è molto più piacevole / Guardare le stelle / Che firmare una condanna a morte. / Per me è molto più piacevole / Ascoltare la voce dei fiori, / Che sussurrano “È lui” / Chinando la testolina, / Quando attraverso il giardino, / Che vedere gli scuri fucili della guardia / Uccidere quelli / Che vogliono uccidere me. / Ecco perché io non sarò mai, / E poi mai, un Governante», «Basta, cavallo, senti, col dovere / Via l’aratro. Sferza e spacca l’acquazzone. / Senti, ci aspettano, fino al mattino, / Sono stalla e ammirazione», «I governi sono in brodo di giuggiole. / Il brodo di giuggiole governativo / fa strage di cavoli novelli. / Le loro code si alzan più in alto di quelle dei vitelli».

La Russia, patria amata nelle sue tradizioni popolari, nelle sue origini asiatiche, negli spazi sconfinati delle pianure, è però detestata nella gabbia ideologica imposta agli individui, nella sua indifferenza verso l’arte, nella censura promulgata contro il pensiero indipendente: «A migliaia di migliaia la Russia ha dato la libertà. / Non c’è cosa migliore. / A lungo la ricorderanno per questo. / Io invece mi sono tolto la camicia, / E tutti i grattacieli di specchi dei miei peli, / Tutte le fessure / Della città del corpo / Hanno esposto tappeti e tessuti rossi. / Le cittadine e i cittadini / Del Me – stato / Si sono affollati alle finestre dei riccioli dalle mille finestre. / Le Olghe e gli Igor’, / Non per convenienza, / Rallegrandosi del sole, hanno guardato attraverso la pelle. / Era finita la prigionia della camicia. / Mi ero semplicemente tolto la camicia / E avevo dato il sole al popolo del Me. / Ero nudo, vicino al mare. / Così ho regalato la libertà ai popoli, / Alle genti che prendevano il sole».

Attraverso le parole, usate con ironia e irriverenza, sperava si potesse attuare una trasformazione della società in una dimensione più democratica e moderna, ed esprimeva tale aspirazione in brevi prose graffianti e aforismi, oppure occupandosi di aspetti minimi e irrilevanti dell’esistenza, di personaggi umili e degli animali (Lo zoo: «Giardino, giardino, dove lo sguardo di una bestia conta di più di mucchi di libri letti»). Con la stessa leggera e sprezzante improntitudine offriva ai lettori un ritratto impietoso e canzonatorio di sé stesso: «Son più dorato di un’abbronzatura, / più velenoso dell’ossido carbonico», «E gli altri io li guardo come sega, / Io sono un poco putrido e cattivo», «Io ah ah ah e ih ih ih, / E raramente, più semplicemente, solo eccì», «Io, non sono Čechov».

Difficile tradurre una poesia così frantumata, immaginosa e stravagante come quella di Velimir Chlebnikov. Paolo Nori ci è riuscito con eleganza e levità, aderendo al testo il più fedelmente possibile: e quando non gli è stato possibile, inventando. Come confessa con divertita umiltà.

 

© Riproduzione riservata                               «Il Pickwick», 23 aprile 2019

 

 

 

RECENSIONI

CHODASEVIC

VLADISLAV CHODASEVIČ, NON È TEMPO DI ESSERE – BOMPIANI, MILANO 2019

Il volume pubblicato da Bompiani, con testo russo a fronte, Non è tempo di essere, costituisce la più ampia scelta finora offerta al lettore italiano dell’opera poetica di Vladislav Chodasevič (Mosca 1886-Parigi 1939). Chodasevič iniziò a scrivere sotto l’influenza del simbolismo, approdando presto a uno stile più classico e ad argomenti di stampo metafisico. Ebbe una vita piuttosto tormentata per motivi di salute, sentimentali e politici, e anche per la sua non facile disposizione caratteriale, introversa, malinconica ed elitaria. Con la giovane compagna e nota scrittrice Nina Berberova, lasciò la Russia nel 1922, riparando dapprima a Berlino, quindi a Sorrento (ospite dell’amico Massimo Gor’kij), e in altre città europee, infine stabilendosi a Parigi, dove visse collaborando con importanti riviste e giornali nel ruolo di influente critico letterario.

I versi raccolti in questa antologia sono stati composti tra il 1906 e il 1928: a lungo sottovalutati in patria (nonostante l’apprezzamento di importanti intellettuali come Nabokov, che li definì “di una complicata meraviglia”), trovarono la debita risonanza solo dopo la perestroika di fine ’900.

Nell’approfondita introduzione della curatrice Caterina Graziadei, che ricostruisce empaticamente l’intera vicenda umana di Chodasevič, inserendola nel corrispondente contesto storico e culturale, la poesia dell’autore moscovita viene ripercorsa nei suoi sviluppi e nelle sue fondamentali proprietà stilistiche: «Un’intonazione senile guida i versi di Vladislav Chodasevič, che inclinano al ricordo, alla meditazione sulla morte, appena scossi da un brivido leggero di compiacimento nel contemplare il disfarsi. Senile è la postura da cui osserva il mondo».

Proprio l’osservare, il guardare dalla finestra un esterno cui è orgogliosamente conscio di non appartenere, è il principale leitmotiv della raccolta: «Guardo dalla finestra, e disprezzo, / Guardo me stesso, pure disprezzato, / Invoco tuoni sulla terra, senza credere al cielo», «Assordato dalla vita triviale, /irreparabilmente ferito, / abbasso le palpebre ‒ / e sogno che più lieve dilegui, / come una risacca lontana, / il fragore della vita terrena. // Meglio dormire che ascoltare la ciarla / malevola della vita umana, / la vuota disputa di piccole verità. / Tutto mi è già noto, e tutto vedo, / meglio in sogno attingere / un’alba sconosciuta».

Estraneo al comune sentire, isolato da un diaframma di esibita consapevolezza di sé, il poeta cerca rifugio nella protettiva quotidianità domestica, nella ripetizione dei gesti più semplici, nella frequentazione di luoghi e personaggi conosciuti e mai ostili, utilizzando un lessico colloquiale che intervenga a spezzare il tono elevato imposto dalla sublimità della meditazione filosofica. Spesso quindi la sua scrittura assume timbri prosastici e narrativi, volutamente misurati, talvolta ironici o addirittura sarcastici, scegliendo come oggetto la banalità di comportamenti consueti, la modestia silenziosa degli interni familiari, gli sfondi cittadini dei parchi, delle strade, dei tram, dei mestieri di Mosca. «Qui c’era una casa. È poco che del tetto / han fatto legna da ardere. Rimane solo / in basso la rozza ossatura di pietra. Spesso / qui vengo di sera a riposare», «Solo, fra le anse del fiume, / allo strìdio di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo / la muta sapienza dei campi».

Il richiamo della spiritualità rimane un miraggio, nel confronto con la precarietà del vivere terreno, così frequentemente offeso da cattiverie, inimicizie e difficoltà materiali: «Vivere e cantare è quasi vano: / viviamo in una fragile volgarità. / Cuce il sarto, edifica il falegname: / i punti cederanno, crollerà la casa». Abbandonata la madre Russia, l’orizzonte privato di Chodasevič si fa inesorabilmente fosco e minaccioso, la sua scrittura patisce la sconfortante previsione di un futuro grottesco e sadico, da cui difendersi sfidando la storia e Dio dapprima con rabbiose provocazioni, quindi con un progressivo e inaridito silenzio.

Un plauso particolare va riservato alla nuova collana recentemente inaugurata dalle edizioni Bompiani, “Capoversi”, che offre ai lettori volumi di eccellenti poeti novecenteschi, colpevolmente trascurati o poco conosciuti, con testo originale a fronte, accurate presentazioni, ricchi apparati di note biografiche e bibliografiche, una sobria copertina e una grafica accattivante.

 

© Riproduzione riservata                     31 dicembre 2019

https://www.sololibri.net/Non-e-tempo-di-essere-Vladislav-Chodasevic.html

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