RENÉ CHAR, POESIE. TESTO FRANCESE A FRONTE – EINAUDI, TORINO 2018

Di René Char (1907-1988) si sono occupati in molti, in Italia, a partire dal dopoguerra: dalla principessa Marguerite Caetani, che per prima lo fece conoscere su Botteghe Oscure nel 1949, a Carlo Bo, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Bassani. Nell’approfondita prefazione al volume einaudiano da poco pubblicato, Elisa Donzelli mette sapientemente in rilievo l’impegno e la passione di due suoi traduttori d’eccellenza, Vittorio Sereni e Giorgio Caproni, quasi in competizione tra di loro nell’affiancare emotivamente e intellettualmente la vita e l’opera del poeta francese. Nell’antologia di Feltrinelli del 1962, Bassani aveva affidato a Sereni la traduzione dei Feuillets d’Hypnos, diario della Resistenza a cui Char aderì con il nome di battaglia di Alexandre, mentre Caproni aveva firmato la prefazione e tradotto l’intero corpo delle altre poesie. Appunto l’impegnativo lavoro di quest’ultimo viene oggi riproposto da Einaudi, corredato da un esaustivo apparato critico-filologico della curatrice sulle varianti concordate tra autore e traduttore («Monsieur Caproni, prenda questo rischio!», «Mi consigli, per cortesia!»), e da alcune notazioni riguardanti l’influenza esercitata da Char sulla scrittura caproniana.

La produzione del poeta francese prese l’avvio negli anni bellici, con un’adesione iniziale al surrealismo, per poi subito rendersi autonoma nei temi (l’ambiente campestre e contadino, gli animali, i ricordi dell’infanzia, la donna, l’impegno politico) e nei toni ‒ concisi e fieramente intensi ‒ dei versi, delle prose, degli aforismi. Poeta non solo civile, ma anche dell’amore («luogo di slanci e d’incontri», come commenta Elisa Donzelli), di cui fu straordinario cantore: «L’estate e la nostra vita eravamo tutt’uno / La campagna mangiava il colore della tua gonna odorosa», «Tu sei il presente che s’accumula. Ci uniremo senza dover accostarci, prevederci, come due papaveri fanno in amore un anemone gigante», «Amor mio, poca importa ch’io sia nato: tu diventi visibile nel posto dov’io sparisco», «Piégati soltanto per amore. Se muori, ami ancora», «Da tanti anni sei l’amore mio, / Il mio capogiro in così lunga attesa, / Che nulla può invecchiare, raffreddare; / Nemmeno ciò che aspettava la nostra morte».

Ma Char era anche poeta che continuamente rifletteva sul fondamento e la missione della poesia: «Sei nell’essenza costantemente poeta, costantemente allo zenit del tuo amore, costantemente avido di verità e di giustizia. Che tu non possa esserlo di continuo nella coscienza, è senza dubbio un male necessario», «Un grande poeta si nota dalla quantità di pagine insignificanti che non scrive», «Poesia, vita futura nell’intimo dell’uomo riqualificato», «La poesia è ad un tempo parola e provocazione silenziosa, disperata, del nostro essere-esigente per l’avvento di una realtà che non avrà rivali». Questa fiducia in un futuro di riscatto, tutto da costruire, era in Char alimento e sprone all’impegno, alla lotta a fianco degli sfruttati e dei perseguitati: «Non c’è che il mio simile, la compagna o il compagno, a potermi svegliare dal torpore, a far scattare la poesia, a lanciarmi contro i limiti del vecchio deserto perch’io ne trionfi», «Il lampo mi dura», «A me basta andare», «Nei giorni di pioggia, fa’ pulizia al fucile. (Conservare in buono stato l’arma, la cosa, la parola? Saper distinguere la libertà dalla menzogna, il fuoco dal fuoco criminale)».

Soprattutto alla statura morale dell’uomo «libero, però con un’arma in mano», del poeta «insorto… ribelle», Giorgio Caproni, che pure aveva combattuto con i partigiani in Val Trebbia, rendeva omaggio nella prefazione, a lui avvicinandosi per affinità, con ammirazione e gratitudine, e definendolo «l’unica voce costruttiva… edificante… voce viva e quasi magica… d’un datore di speranza». Char sapeva che se il momento è buio, è proprio all’oscurità che ci si deve opporre: «Siamo, oggi, più vicini al disastro che non la stessa campana a martello, quindi è più che mai tempo di farci, della calamità, una salute. Dovesse essa aver l’arrogante apparenza del miracolo». Miracolo per antonomasia è la poesia, a cui affidare la propria sopravvivenza eterna: «La poesia mi ruberà la mia morte».

© Riproduzione riservata          «Poesia» n. 344, gennaio 2019