ANTHONY HECHT, LE ORE DURE – DONZELLI, ROMA 2018

Di Anthony Hecht (New York, 1923Washington, 2004), la critica ha sempre sottolineato sia l’interesse per le tragiche vicende storiche del ’900 (la seconda guerra mondiale, a cui partecipò combattendo come fante in diversi paesi europei, e l’orrore dell’Olocausto, di cui fu testimone diretto durante la liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg, nell’aprile del ’45), sia l’adesione a scelte formali severamente controllate e poco consuete, attraverso l’utilizzazione del pentametro giambico, con cui dava luogo a versi lunghi e complessi, dall’andamento narrativo, prediligendo la forma del poemetto rispetto alle composizioni brevi. Nato da genitori ebrei-tedeschi, studiò letteratura inglese al Bard College di New York, dove ora è sepolto: conobbe e frequentò i più importanti scrittori della sua epoca: da Jack Kerouac a Robert Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop, Wystan Hugh Auden e Allen Tate. Professore universitario alla Rochester di New York e alla St. George di Washington, dagli anni ’50 fino alla morte pubblicò diversi volumi di poesia e vinse significativi premi (tra cui il Pulitzer nel 1968). In Italia sono stati editi solo I vespri veneziani (L’obliquo, Brescia 2012) e Le ore dure (Donzelli, Roma 2018).

Tratti da sei raccolte scritte da Hecht tra il 1967 e il 2001, introdotti da Joseph Harrison e resi in una sapiente e ardita versione da Damiano Abeni e da Moira Egan, i versi di quest’ultima antologia schiudono agli occhi del lettore un ventaglio di possibilità interpretative, offrendogli non solo molteplici puntelli culturali di riferimento (dalle Sacre Scritture al teatro elisabettiano, dai tragici greci al cinema, dalla mitologia all’arte figurativa), ma soprattutto una gamma di emozioni contrastanti cui abbandonarsi: ironia e spavento, brutalità e delicatezza, inquietudine e commozione, rabbia e pietà. A cominciare dalla poesia con cui si apre il volume, in cui il senso del paesaggio e dei suoi colori vivifica e riporta alla coscienza un ricordo assopito: “In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione”. Nel paese europeo che più amava, Hecht camminava lentamente “in una piazza calda di sole”, circondato da amici e magnifici panorami, quando improvvisamente allo splendore di Palazzo Farnese si sovrappose l’immagine “di una collina color topo e brulla”.

Con un procedimento da lui spesso adottato, una memoria personale riaffiora dall’inconscio, a turbarlo, oscurando minacciosamente la possibilità di un abbandono sereno alla bellezza e alla positività dell’esistenza. In questo caso, la visione della collina aspra e desolata davanti a cui adolescente trascorreva le giornate invernali, irrompe ostile con un annuncio di negatività. Ma in altre poesie può essere una persona, un oggetto, un gesto o un dettaglio qualsiasi a indicare che il male può avventarsi inatteso, imprevedibile, a inquinare il corso della storia individuale e collettiva. Così, nel “mondo di struggimento” che Hecht ama descrivere, troppo spesso bagnato da “inevitabili lacrime”, in cui anche l’ambiente più banale, tetro o squallido viene riscattato da un’aspirazione alla bontà (“le punte minuscole dei crochi / che si fanno strada nella luce tra cumuli di neve”), e giustificato persino nella sua bruttezza o crudeltà (“Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove?”), una matura cameriera che cerca conforto per una delusione amorosa nelle riviste patinate offerte ai clienti del suo albergo, solo osservando un grappolo d’uva su un tavolo apparecchiato intuisce “un profondo segreto dell’universo”, cioè la caducità e l’insignificanza di tutto ciò che accade, e a cui è saggio rassegnarsi. Anche una giovane donna malata di leucemia, preferendo non ricevere visite consolatorie dai parenti, si aggrappa al poco bene intravisto intorno all’ospedale: “pare non mi importi molto della fine, / di come tutto si sistemerà, se si sistemerà. / Invece siedo alla finestra, / guardo gli alberi di fronte”. L’ immagine esterna dell’intreccio dei rami, descritta con acuta sensibilità pittorica, le ricorda il giocattolo di un’amichetta, L’uomo trasparente nel cui corpo di plastica erano visibili gli organi interni, e tutto l’apparato circolatorio di vene e arterie rosse e blu. Mondo vegetale e fisico umano nascondono misteri insolubili, è illusorio pretendere “di poter guardare oltre, e comprendere il mondo”.

Incomprensibile rimane soprattutto la malvagità gratuita, con cui le persone si comminano reciprocamente dolori e cattiverie, in tutte le epoche e latitudini: la governante teutonica fornita di “quel gusto particolare per il dolore inflitto” che terrorizza con sadica severità il bambino ebreo in sua custodia, profetizzandogli persecuzioni a venire; o il centurione romano costretto a osservare il suo imperatore mentre viene scuoiato vivo (“la pelle venne affidata a uno dei loro sellai / che la doveva conciare, imbottire e cucire. A che scopo?”). Nella descrizione dei personaggi (specialmente felici sono i ritratti femminili), Anthony Hecht accompagna ai dati concreti e attuali, fisici e caratteriali, le fantasticherie e le elucubrazioni più imprevedibili, i rimpianti del passato e le speranze per il futuro, le delusioni e i desideri di vendetta.

La bellezza è ovunque (negli alberi, nel profumo di rosmarino, nei corvi “becchini” sui rami, nella neve e nelle nuvole, in tutti i colori della tavolozza di un pittore devotamente impegnato a “catturare quanta verità sia possibile”). Ma pure la colpa e lo sfacelo sono dappertutto, e l’elenco è impietoso: nella coppia di sposi che si sta separando con “duro non sentire”, nei malati di Aids (“l’intera / ciurma d’innocenti”), in una vittima torturata da aguzzini (“sorvegliata giorno e / notte da giovani pretoriani muniti di smartphone”), in Giuditta che vendica su Oloferne tutti i soprusi subiti dai maschi (“Anche i più fiacchi, nelle loro fantasticherie, / trionfano come atleti sessuali”), nella fidanzata abbandonata che si punisce con sesso e droga, per poi suicidarsi (“Due anni per lo più felici. / In tutto quel tempo cosa hai imparato di me? // … E quando te ne sei andato ho preso una brutta china”). Ma è innanzitutto il bambino ebreo de Il Libro di Yolek, in una tra le composizioni più drammatiche e commoventi del libro, a impersonare la sofferenza innocente della vittima sacrificata da un carnefice ottuso e spietato: “Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno / oltre i cinque anni, cui si impose di lasciare il pasto / e trascinarsi tra guardie armate”.  Il nazismo, la guerra, i campi di concentramento, essendo stati vissuti e partecipati direttamente dal poeta, tornano con un incubo ricorrente nei suoi versi, emblema del male assoluto e ingiustificabile (“ma per anni continueranno le urla, notte e giorno. // … La sera, Padre, al buio, quando imploro, / io sono là, io sono là”, “Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto / o un presagio attutito / di intenti ed eventi preordinati?”, “Sto in piedi al freddo sotto un pino / appena prima dell’alba, non so bene dove in Germania, / con un fucile Garand, freddo e bagnato, tra le mani”).

Il dolore sperimentato da soldato tormentò Hecht per anni, costringendolo addirittura a un lungo ricovero in clinica psichiatrica, e lo investì della missione di farsi testimone indignato di quella terrificante esperienza: “a me sta il compito di trovare parole / per ricordare come si deve // coloro che s’accalcano fitti / con numeri blu tatuati / di traverso sulle arterie, / gli ebrei che bruciano, muti”, “Chi non impara dalla storia / ha come maledizione il compito di ripeterla”.

Nei poemetti di questa antologia ‒ argomentati razionalmente, documentati storicamente, attenti all’introspezione psicologica dei personaggi ‒, Hecht assume con orgogliosa consapevolezza il ruolo di portavoce di un’etica calpestata da recuperare, in nome di una dignità che riguardi non solo il genere umano, ma anche tutto ciò che è vivo e respira, che è passato ma rimane fondamentale nella cultura e nella storia universale. Non rinunciando all’ironia e addirittura al sarcasmo, riesce tuttavia a farsi interprete della resistenza civile a ogni sopruso e ingiustizia, con la religiosità laica di un non credente convinto della necessaria affermazione del bene. Se il suo impegno di poeta si esprime nell’eccellenza di una scrittura complessa, erudita, studiata nella struttura metrica, nell’uso sapiente delle rime, in una sintassi elaborata, l’impegno di uomo lo rende (come scrive nell’importante prefazione Joseph Harrison, sottolineando “il suo interesse per l’analisi, profondamente umana e spesso dolorosa, di chi siamo, di cosa abbiamo fatto gli uni agli altri e a noi stessi”), “il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”.

 

© Riproduzione riservata        «Nazione Indiana», 23 gennaio 2019