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RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, UNA GRATITUDINE SENZA DEBITI – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2018

Cos’ha insegnato Giovanni Testori a Luca Doninelli? «Giovanni Testori mi ha insegnato a difendere, magari in un modo che può apparire talvolta irritante e scandaloso, la dignità di ogni singolo essere umano, sia pure il più turpe e indifendibile. Mi ha insegnato che un uomo comincia a essere “qualcuno” solo se ha avuto il coraggio di sperimentare e affrontare il niente che è. Mi ha insegnato ad amare e cercare sempre, nell’arte come nella vita, il segno della grazia. Infine, mi ha insegnato a fare tutto ciò non a modo suo, ma a modo mio».

Un’educazione morale, prima ancora che culturale, riscoperta attraverso il rapporto, gratuito e reciprocamente gratificante, instauratosi tra discepolo e maestro, come quello che poteva stabilirsi nella “paideia” degli antichi greci.La dichiarazione di intenti di questo libro viene esplicitata già nell’introduzione: «Io credo nei maestri, e credo che un mondo senza maestri sia un mondo assai poco desiderabile, un mondo più prevedibile, più mesto. Se accetta di sostituire la gratuità di un magistero con l’ingegneria sociale, con la biopolitica delle coscienze o con la robotizzazione generale, allora l’umanità merita di estinguersi».

Doninelli rende omaggio, dunque, in Una gratitudine senza debiti, non solo alla figura di Testori, autore teatrale, romanziere, poeta e critico d’arte, suo mentore letterario e maestro di vita e di fede, ma anche all’idea di guida interiore che sappia indicare il percorso da seguire, umilmente e autonomamente, per arrivare a costruirsi come persona e come scrittore. Chi ama e ammira Testori (1923-1993), in queste pagine avrà modo di situarlo negli snodi essenziali della sua esistenza e della sua produzione artistica, oltre che nel suo contributo civile durante gli anni tormentati vissuti dal nostro paese dal dopoguerra in poi.

Doninelli lo conobbe nel 1978, nel corso delle terribili giornate del sequestro di Aldo Moro. Era allora un ventiduenne «presuntuoso, con la testa piena di letteratura e di una passione di cui lui stesso ignorava la forza», affascinato parimenti da Kerouac e Landolfi, da Barthes, Pasolini e Don Giussani. Testori lo invitò nel suo studio di Via Brera («Luca Luca», salutandolo come in un battesimo), lesse i suoi racconti e gli pronosticò un futuro di scrittore e di sofferta inquietudine. Il Giovanni Testori con cui il giovane Doninelli si misurò era un uomo caratterizzato da «uno snobismo senza limiti», che prendeva il taxi per recarsi nell’amatissima Parigi, ma scoppiava a piangere davanti al dolore innocente di sconosciuti. Un cristiano che non rinnegava la propria omosessualità, ed esaltava il corpo e la carne «come luogo di salvezza e perdizione». Uno a cui piacevano i malati, i feriti, i segnati da qualche ombra. Un intellettuale che non si definiva tale, e combatteva il nichilismo di facciata dei salotti dell’intellighenzia italiana. Un maestro, soprattutto, generosissimo nel darsi ai giovani che gli chiedevano indicazioni e suggerimenti su letture, mostre, modalità di scrittura, e che venivano da lui esortati a lavorare severamente sul testo, studiando, confrontandosi con la realtà, ulcerandosi in essa.

Ecco quindi che l’uomo Giovanni confessava al suo «Luca Luca» anche i propri cedimenti e le perdite, lo strazio per la morte della madre, la depressione, la tentazione del suicidio, la conversione a un cattolicesimo che tutto accetta e tutto perdona. Insieme ai lati negativi che riconosceva in sé stesso: l’adesione al potere berlusconiano, la vanità, l’egocentrismo, un’infantile spietatezza. Pregi e difetti che ogni maestro e ogni discepolo sanno di non doversi nascondere, quando i ruoli, intrecciandosi, diventano vicendevolmente arricchenti.

 

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https://www.sololibri.net/gratitudine-senza-debiti-Doninelli.html            26 marzo 2018

RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, L’IMITAZIONE DI UNA FOGLIA CHE CADE – ABOCA EDIZIONI, SANSEPOLCRO 2020

L’azienda toscana Aboca, fondata nel 1978, si occupa di cura della salute creando e vendendo prodotti alimentari e cosmetici naturali, che rispettano l’organismo e l’ambiente. Promuove anche attività culturali, attraverso l’organizzazione di eventi, convegni, mostre, e la pubblicazione di libri: da poco ha inaugurato una collana di narrativa in cui autori italiani di successo (Abate, Parazzoli, Villalta…) pongono al centro del loro testo il rapporto con la natura e il mondo vegetale.

In questo spazio a indirizzo “ecologico” è da poco uscito L’imitazione di una foglia che cade, di Luca Doninelli, racconto di un centinaio di pagine, il cui protagonista è un maturo e affermato scrittore lombardo, Ugo, impegnato in una rivisitazione della propria vita, che lentamente si trasforma in un severo inventario di cedimenti intellettuali e ammorbidimenti morali.

Tornato single dopo la separazione dalla moglie e dai due figli, dedica il suo tempo non solo alla lettura e alla scrittura, ma anche a un’attenta e approfondita disamina di ogni accadimento, materiale o spirituale, si affacci a scalfire la sua quotidianità: dalle difficoltà di un trasloco, alla casuale caduta di un tomo dallo scaffale, a un qualsiasi incontro fortuito. Ogni oggetto gli parla, ogni azione lo interroga: “Mi piace decifrare. Per me il fruscio di un ramo è un discorso, come lo sono il rumore di un aereo che passa sulla mia testa o il battito di un martello pneumatico in un cantiere lungo una via cittadina. Un tram è una lingua, come lo sono i volti di chi lo occupa, i loro abiti e le loro scarpe. Lingua è un ciuffo d’erba che spunta tra una carreggiata e un marciapiede, la cornice di una finestra, la velocità delle automobili su un viale di scorrimento”.

A un personaggio tanto introspettivo, può senz’altro apparire miracoloso e rivelatore l’arrivo inatteso di un pacchetto contenente un libro che gli era appartenuto, l’Historia Francorum di Gregorio di Tours. Sulla busta si legge solo un indirizzo, “Piazzale Martini, Milano”, privo di mittente. Sfogliando le pagine ingiallite del volume, scopre che all’interno della rilegatura è nascosto un quaderno su cui, ancora ragazzo, aveva scritto con grafia minuta e ordinata il suo primo romanzo, mai pubblicato: Gli incurabili. Inoltre, dal quaderno spunta una vecchia foglia d’acero, scura e indurita. Nel riconoscere in entrambi gli oggetti testimonianze del suo passato, Ugo è colto da un sentimento di disagio, sospeso tra gioia e timore. “La lettura di quelle mie pagine ingenue mi ricondusse non soltanto a un mondo che avevo perduto ma anche a un certo modo – non meno perduto – di stare al mondo. Avrei potuto passare ore e giorni a segnare tutti gli errori del manoscritto, ma sapevo che questo non avrebbe dissipato l’impressione di avere lasciato, proprio lì, la parte migliore di me”.

Ovviamente, la parte migliore della sua esistenza viene individuata negli slanci, nelle utopie, e nell’ingenuità della giovinezza. Ugo si rivede studente universitario, innamorato della letteratura, circondato da amici come lui impegnati a rifondare la società, immersi nella lettura di Barthes, Foucault, Derrida. La prima fidanzata, l’incontro con la moglie Valentina, gli anni economicamente precari e professionalmente problematici del matrimonio, l’ambizione di agire e scrivere in modo radicalmente intenso e incisivo. Come, dove, quando tutto ciò era andato perduto? Perché l’intransigente purezza di allora era scesa a compromessi? “Voglio solo dire che la letteratura fu responsabile, in qualche modo, del mio disastro. Una volta diventato scrittore per tutti, una volta raggiunto questo status, le mie parole cominciarono infatti a viaggiare alla velocità del mondo – senza tuttavia appartenergli – e io viaggiavo alla velocità delle mie parole, e quindi del mondo”.

All’epoca frequentava una bancarella di libri in Piazzale Martini, il cui proprietario era un anziano signore francese, Monsieur Pineau, saggio dispensatore di consigli di lettura e di vita. Al vecchio libraio, Ugo aveva venduto uno scatolone dei suoi volumi, tra i quali appunto quello di Gregorio di Tours che ora gli veniva misteriosamente restituito, con le tracce di un’esistenza ormai lontana, macchie di caffè e una foglia di acero come segnalibro. Torna quindi a cercare Pineau, ormai ultraottantenne, ma sempre seduto sulla sua poltrona, davanti alla bancarella: “un vero e proprio salotto letterario all’aperto, con uno stuolo di frequentatori perlopiù giovani e poveri”: ascolta umilmente i rimproveri di lui, e ne accoglie con discrezione le confidenze. Principalmente, quella di un incontro con un profetico, amaro e visionario Roland Barthes, capace di leggere le parole sospese nel vuoto mentre vengono pronunciate. La morte del filosofo francese si intreccia con quella di Pineau, il funerale di quest’ultimo, a cui partecipano molti intellettuali milanesi, svela nell’animo turbato di Ugo che a ogni vuoto, a ogni precipizio, a ogni fine, corrisponde un pieno di vita e di amore.

Ne sono testimoni i nostri guardiani alleati, le creature inoffensive e verdi che ci circondano e sanno tutto di noi. Gli alberi del cortile di fronte, delle pianure, dei boschi; le foglie che cadono, e quella di acero ora incorniciata in una teca di plexiglas, suscitatrice di memorie, ancoraggio a un passato che non va rimosso, ma custodito con gratitudine.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 2 febbraio 2020

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DONNE

JOHN DONNE, GLI ANNIVERSARI – DONZELLI, ROMA 2013

Dieci anni fa l’editore Donzelli ha pubblicato la prima traduzione completa apparsa in Italia de Gli anniversari di John Donne, curata dalla studiosa Audrey Taschini, che ha stilato anche l’accurata prefazione. Taschini, ricercatrice all’Università di Bergamo, recentemente si è cimentata con la versione e il commento dei Four Quartets di T.S. Eliot, dando prova di un encomiabile intuito critico e di una profonda conoscenza delle fonti letterarie e filosofiche dell’opera. Così come in questo lavoro più recente, in quello che l’aveva preceduto la traduzione dei testi era caratterizzata da un’attenta e sobria fedeltà all’originale, particolarmente apprezzabile nella difficile resa dell’inglese seicentesco di Donne.

John Donne (Londra 1572-1631), considerato il massimo rappresentante della poesia metafisica inglese del seicento, fu anche saggista e chierico della Chiesa Anglicana. Vissuto in un’età di transizione, tra il tramonto della fiorente epoca elisabettiana (in cui l’idea di un cosmo armonico rispecchiava l’ordine trascendentale), e l’inizio della modernità, portatrice di rivoluzioni ideologiche, scientifiche e sociali (la nuova astronomia di CopernicoBraheGalileoKeplero, la medicina di Paracelso, l’ascesa delle classi borghesi, il protestantesimo, un diverso indirizzo monarchico), il poeta londinese pativa drammaticamente il senso rovinoso della corruzione etica e spirituale del mondo circostante. “Proprio in questo periodo si assistette… a un vero culto della meditazione sulla morte, del lutto, e soprattutto… della melancolia, che venne eletta a oggetto di numerosi trattati e opere”.

Gli Anniversari (composti tra il 1611 e il 1612) sono costituiti da due poemetti, Un’anatomia del mondo e Del viaggio dell’anima, tra cui è inserita una breve Elegia funebre, in onore e ricordo dell’aristocratica giovinetta Elizabeth Drury, morta quindicenne: essi sono permeati appunto da un profondo sentimento malinconico, luttuoso, di meditazione sulla malattia, non solo di singole creature, ma dell’intero universo. Il primo Anniversario, Un’anatomia del mondo, descrive in toni tragici la dissoluzione cui sono destinati sia l’uomo sia la natura, avviati a un’apocalissi fisica e alla perdita di senso, con la fine “di un Logos immortale, portatore di ordine, unità, armonia, bellezza, verità, ma soprattutto di significato profondo”. La figura di Elizabeth, che Donne non aveva mai conosciuta, è centrale nel poemetto, idealizzazione della purezza sacrificata alla morte, ed emblema della fragilità e della decadenza della contemporaneità. In una ripresa dello stilnovismo, la giovane incarna la figura della donna angelicata, e insieme della poesia e dell’Anima universale. Il lamento funebre, nella commossa ripetizione del verso “Shee is dead, shee’s dead” collega la morte della giovane bellissima, dolce e buona, alla dissoluzione di un mondo malato, colpevole, addirittura putrefatto (“Sicke world”): “Lei, lei è morta: quando sai questo, / Sai che cosa povera e insignificante è l’uomo”.

La figura di Elizabeth diventa l’ente generatore di ogni cosa positiva, poiché dal suo nome ed esempio può nascere il riscatto, una rinascita dalle tenebre alla luce, che troverà espressione soprattutto nel secondo Anniversario, Del viaggio dell’anima. Solo la poesia è in grado di rispecchiare in parole umane la visione del trascendente, rivestendo un ruolo mediatore tra morte e vita, temporalità ed eterno. Se quindi il primo Anniversario si muove in una direzione discendente, nella disperata contemplazione della decadenza cosmica e umana, il Viaggio dell’anima ascende invece verso una prospettiva di salvezza da perseguire con il soccorso della Grazia, per arrivare infine alla visione di Dio. Ancora il ricordo luminoso della giovane Elizabeth e la riscoperta del linguaggio evocativo della poesia possono aiutare il genere umano a riconoscere la vanità dell’erudizione e delle esperienze umane tanto decantate dalle nuove conquiste scientifiche, dando un nuovo significato alla morte, intesa come evento positivo che libera dal fardello del corpo corrotto e dalle miserie dell’esistenza  terrena. L’anima, libera dalle scorie della materialità, nella visione di John Donne ha accesso a un’autentica comprensione della Verità e a una comunione con lo Spirito universale, “nella onnipervasiva intelligenza del Logos divino”.

 

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SoloLibri.net › Recensioni di libri › Gli anniversari di John Donne          3 marzo 2023

 

 

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DORIGO

ERMES DORIGO, LE CENERI DI PASOLINI – CAMPANOTTO, UDINE 1994

Ermes Dorigo è una voce nuova e diversa nella cultura friulana di questi ultimi anni: appassionato organizzatore di convegni in Carnia, divulgatore e tenace mentore di tradizioni alpine, polemico pubblicista e critico. Oltre a ciò, Dorigo è narratore e poeta in proprio, e in quest’ultima veste ha recentemente pubblicato un volume di versi, Le ceneri di Pasolini, che, a quasi quarant’anni dal libro pasoliniano dedicato a Gramsci, tende a recuperare la tensione ideologica e la forza d’urto di quel testo. Intendiamoci, Dorigo è abissalmente lontano dalle scelte formali di Pasolini: non troviamo in lui la terzina classica, né lo stile retorico-celebrativo dell’altro. Il suo discorso è più franto e tormentato ideologicamente, e si riflette in una forma molto accanita, più giocata e “astuta”, nel senso che conosce e sa sfruttare tutti gli apporti poetici di questi nostri ultimi decenni (da Sanguineti ai neodannunziani). Eppure c’è anche qui indignazione morale: «Secolo agonizzante, ora che tremi / la tua fine e con livido sguardo / delirante brami la fine / dell’altro, ringhiando la vittoria / sul tu solidale, dal seme di morte / che ti ha generato educhi / il male e una velenosa bava / spargi di follia e di lutto: / morto tu, dio, morto tutto?)», con l’aggravante di una disperazione – cioè, proprio, di una non-speranza, di una consapevolezza della vanità di ogni resistenza politica – che Pasolini, alla fine degli anni ’50, non conosceva. Pasolini padre, quindi, e Pasolini patrigno, amato e contestato («come / una collazione di urla / mute, inespansa virtute / vedevi la verità: / ma era vera?»), insieme ad altri riferimenti mitici, paterni, della nostra tradizione letteraria, quali Paolo Volponi, cui Dorigo attribuisce un secondo, affettuoso omaggio in versi.

C’è, in questo volume di Dorigo, un intenso, straziato richiamo all’eros, molto diverso rispetto a quello che Pasolini ci lasciava intuire ne Le ceneri di Gramsci: là timore e tremore, adorazione religiosa del corpo, qui dissacrazione del sesso, svelamento impudico, genitalità espressa come in un basso continuo e ossessivo. La sezione Raphaela, la più violenta e febbricitante del libro, presenta, accanto a versi di indubbia valenza erotica («Ma come guizzerebbe la mia trota / nella tua mano ignota con perle di latte arcano»), in qualche modo sciolti e appagati nel desiderio soddisfatto, presenta dunque un angosciante turbinio di riferimenti espliciti, assillanti ed esagitati nella loro consapevole oscenità. Al punto che lo stesso Dorigo sembra averne paura, e tenta esorcismi che riducano la carica sensuale dei suoi versi, smorzandone l’ebbrezza attraverso giochetti linguistici, scioglilingua, che in realtà finiscono per risultare elementi di distrazione piuttosto datati: «che porco / questo mio corpo / che copro d’un poco di croco!» . Lucido com’è ideologicamente, indubbiamente abile nella costruzione formale, quando non permette alla sua vitale tensione poetica di annacquarsi, e la mantiene vibrante e tesa, Dorigo ci regala versi importanti, importanti turbamenti.

 

«Zeta News», n.31/32, gennaio-febbraio 1995

RECENSIONI

DOYLE

ARTHUR CONAN DOYLE, ROMANZO FANTASMA – IL SAGGIATORE, MILANO 2016

A ventitré anni, fresco di una laurea di medicina e desideroso di affermarsi come scrittore, il futuro autore delle avventure di Sherlock Holmes, Arthur Conan Doyle, si cimentò nella sua prima prova letteraria di ampio respiro: The narrative of John Smith. Si trattava di un romanzo con intenzioni didascaliche, il cui protagonista – un libero pensatore cinquantenne, confinato nella stanza di una pensione da un attacco di gotta reumatoide – intratteneva il lettore su una serie di considerazioni (religiose, letterarie, scientifiche, politiche: espresse con entusiasmo da neofita ma anche con una certa pedanteria) ritenute di fondamentale interesse educativo.
Il giovane Conan Doyle, sperando in un radioso avvenire da narratore, spedì il manoscritto a diverse case editrici, nessuna delle quali tuttavia lo ricevette: il libro andò perduto, costringendo l’autore a una rapida e improvvisata riscrittura, abbandonata prima della conclusione forse per stanchezza o per consapevole insoddisfazione. Anzi, pare che molti anni dopo Doyle abbia manifestato in un articolo il suo imbarazzo rispetto al risultato fallimentare del volume, confessando il proprio sollievo riguardo alla sua mancata pubblicazione.

Oggi, tuttavia, le edizioni Il Saggiatore ripropongono il testo, con il titolo di Romanzo fantasma, con il giustificato proposito di documentare gli inizi della carriera di uno degli scrittori più letti al mondo, e il suo periodo di apprendistato, l’incessante rielaborazione di concetti e teorie, le pagine stralciate e le modifiche apportate. Quindi il volume riappare, con 132 anni di ritardo, ma arricchito da un ricco apparato di note, da una prefazione dell’anglista Masolino D’Amico, e da una documentata postfazione dei tre studiosi inglesi a cui dobbiamo l’attuale proposta editoriale.
Protagonista del racconto, il signor John Smith, è un risentito esemplare della middle-class vittoriana, individualista e conservatore, pervicacemente convinto della superiorità delle proprie idee rispetto alle credenze comuni. Materialista ma interessato all’extrasensorialità, sostenitore delle più recenti scoperte scientifiche ma ancora legato a tradizioni culturali, irrisore cinico di filosofia-letteratura-religione, è consapevole tuttavia della sua misera condizione esistenziale, e si definisce ironicamente “un vecchio vagabondo abbandonato senza amici e senza donne”. Le sue rare frequentazioni col mondo si limitano a conversazioni (ridotte spesso a tediosi monologhi) con la padrona di casa, col medico, con un coinquilino militare in pensione, con una leggiadra e timida vicina dedita alla pittura.

Le elucubrazioni in cui Smith si perde riflettono le convinzioni, ancora non del tutto definite ideologicamente e teoricamente, del giovane Arthur Conan Doyle sulla natura umana (imperfetta ma perfettibile), e sulla società (ingiusta e corrotta ma correggibile), rivelando la passione didattica del medico e dello scrittore in un riscatto futuro dell’umanità.
Seppure la tecnica narrativa di questo primo Romanzo fantasma di Doyle appaia zoppicante e poco efficace, le tesi espresse dal personaggio principale rivelano una partecipazione entusiastica alle sorti “magnifiche e progressive” del libero pensiero nascente verso fine ’800.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Romanzo-fantasma-Conan-Doyle.html     13 luglio 2013

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DRIEU LA ROCHELLE

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE, LA COMMEDIA DI CHARLEROI – FAZI, ROMA 2014

Di Pierre Drieu La Rochelle avevo letto con ammirazione, anni fa, Racconto Segreto, una sorta di diario tragico e lucidissimo in cui registrava le sue riflessioni sul suicidio, e sulla sua irrevocabile e meditata decisione di darsi la morte (cosa che puntualmente avvenne nel 1945). Ora l’editore Fazi ristampa questi sei racconti pubblicati per la prima volta in Francia nel 1934: un percorso insieme ebbro e rabbioso tra le trincee, il sangue e le disillusioni provocate nella popolazione europea dalla ferocia della prima guerra mondiale. Racconti forse non eccezionali, ma scritti con lo stile asciutto ed elegante proprio dell’autore francese, e rivelativi della sua ideologia, assolutamente e quasi orgogliosamente reazionaria, elitaria, di chi si sente superiore non solo alle masse, ma addirittura alla Storia, quando questa non riesce ad essere all’altezza delle aspettative che ha creato, quando abdica a ogni onore e decenza. Drieu La Rochelle, collaborazionista e simpatizzante per il nazismo, misogino e fanatico, sembra prendere a pretesto in questi racconti l’epopea di un disastro umano, per gridare violentemente tutta la sua indignazione contro ufficiali vigliacchi e impreparati, truppe codarde, bellimbusti che si fanno esonerare dal combattimento, reduci vanagloriosi e disertori senza pudore: “l’umiliazione di tutta quella mediocrità fu per me il peggior supplizio della guerra”. Orrore e disprezzo per i vinti e gli sconfitti (“la massa che ama la propria miseria è sempre pronta ad accogliere nuove miserie?”, “Ipocriti, tranquilli, assaporavano la loro piccola vita”) e, più in generale, per “la bruttezza, questa malattia dei nostri giorni”. Pena, tuttavia, per i corpi giovani portati al macello, per lo squallore di agonie vissute nel fango: ma soprattutto per l’eroismo che gli veniva negato: “Mi ero levato, levato tra i morti, tra le larve… Ero dunque io, quel forte, quel libero, quell’eroe. Era dunque la mia vita, quell’ebbrezza che non si sarebbe mai fermata…”.

IBS, 27 giugno 2014

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DRIEU LA ROCHELLE

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE, O IL MASCHIO O LA MORTE – MAGOG, ROMA 2022

L’editore romano Magog ha pubblicato, con il titolo O il maschio o la morte e un’intensa prefazione di Davide Brullo, le due uniche raccolte poetiche di Pierre Drieu La Rochelle, uscite in Francia nel 1917 e nel 1920: Interrogation e Fond de cantine. Drieu La Rochelle (Parigi, 1893-1945), romanziere e saggista, fu uomo e intellettuale impegnato e contraddittorio, fragile e violento, vitale e infelice, che concluse prematuramente la sua esistenza, dopo due tentativi di suicidio, uccidendosi nel marzo del 1945 per sottrarsi alla cattura in quanto accusato di collaborazionismo con la Germania. Dichiaratamente reazionario, vagheggiava la fondazione di una “internazionale fascista” in grado di opporsi all’imbelle tatticismo delle democrazie europee, simpatizzando sempre più platealmente con il nemico tedesco. Secondo Louis-Ferdinand Céline, tuttavia, non fu mai un vero seguace di Hitler: “Non è un venduto: non ne ha il comodo cinismo. È venuto al nazismo per affinità elettiva: al fondo del suo cuore come al fondo del nazismo c’è l’odio di sé”.

Nel corso della prima guerra mondiale, mobilitato a Charleroi, Drieu fu ferito a Verdun e ricoverato in ospedale: leggendo Nietzsche, Rimbaud, Verlaine e le Cinq grandes odes di Claudel volle cimentarsi nella scrittura in versi, animato da un sentimento eroico di grandezza, amor di patria, disprezzo verso le abitudini borghesi di un occidente decaduto.

La prima sezione di sedici poemetti suddivisi in quattro capitoli, si apre con un verso programmatico: “E il sogno e l’azione”, interrogandosi (come indica il titolo) sull’ambivalente realtà di guerra e pace, sacrificio e riposo, desiderio amoroso e ferocia bellica, rivoluzione e tradizione. Lo fa utilizzando versi lunghi, privi di sorveglianza metrica, altisonanti e volutamente retorici, inneggianti alla virilità, alla giovinezza, alla forza militare: “Guerra, rivoluzione del sangue, /  poderoso flusso al cervello, guerra, progresso, fatalità della moderna / pulizia e rimessa a nuovo della nostra casa”.

Più prose liriche che poesie, vibranti di scherno e passione, esaltano la guerra come slancio vitale e forza redentrice, il cameratismo tra commilitoni, il passato glorioso della Francia insieme alla speranza di un riscatto futuro. L’autocelebrazione è costante ed esplicita: “Mi occorre la potenza totale dell’uomo… Non posso collocarmi tra i deboli. Devo misurare la mia forza”. Il richiamo della morte ha qualcosa di epico e seduttivo: “Fra le illusioni della forza militare di cui s’inebria un adolescente, mi sei apparsa, oh morte: buia bocca da cui erompe lo strillo luminoso della tromba. Da allora, sono stato colui che sa”. Apoteosi della propria audacia e insieme consapevolezza di un’umanità ferita da condividere in trincea con i compagni: “Oh, miei fratelli! Miei affetti! Siete distesi nella terra che conosco…Sì, un po’ del mio sangue si è già mischiato con il vostro nella terra sventrata che il tempo richiuderà sulla nostra oscura semenza”. Il disprezzo per “la folla indegna” che non merita il sacrificio di tante giovani vite, è soprattutto disprezzo per la viltà degli anziani, delle autorità, dei generali, degli imboscati, dei neutrali. Insomma, di tutti i non-combattenti: “Ci sono due ordini di maschi: i guerrieri e gli altri”. Il mito della Patria da ricreare si fonde a quello dell’Idea: “La Francia è. Ognuno la porta negli occhi. È una bella ragazza che somiglia alla Repubblica. È la Repubblica stessa”. “L’idea vuole distruggere il mondo per poi ricomporlo con un nuovo artificio… E l’idea è la superbia dell’essere, la superbia del mondo. L’idea è esplosiva, l’idea è deflagrante”. Anche la folla, come la Francia e l’Idea, assume sembianze femminili, sensuali, adescatrici, di “donne con la bocca di carne rossa”.

Molto diversi sono stile e temi della seconda sezione del libro, “Fondo di cassetta”, in cui le poesie – scritte a guerra conclusa – assumono forme più tradizionali, con versi brevi, strofe misurate, utilizzo di rime e assonanze. Gli argomenti, più eterogenei, risentono di evidenti influssi del futurismo trionfante in Europa, con la celebrazione della modernità rappresentata dalle automobili, dallo sport, dalle nuove espressioni artistiche e musicali, pur nel persistere dell’orgoglioso sciovinismo francese contro l’arrogante volgarità dell’invasione yankee. Lo spirito della guerra alleggia ancora in quest’ultima parte del libro, non più nell’odore del sangue e del sacrificio, quanto nel perdurare di una inebriata mitologia virile: “È tempo di adirarsi / Oh folla! Oh donna! / O il maschio o la morte”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 9 febbraio 2023

 

 

 

 

 

 

 

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DRIGO

PAOLA DRIGO, MARIA ZEF – MINIMUM FAX, ROMA 2022

Nel 1936, in piena epoca fascista, la scrittrice Paola Drigo ((Castelfranco Veneto, Treviso, 1876 – Padova 1938) pubblicò con l’editore Treves il romanzo Maria Zef, premiato a Viareggio l’anno successivo. Secondo Claudio Magris si tratta di “Un vero piccolo capolavoro, uno di quei libri capaci di lasciare un segno indelebile nella memoria. Paola Drigo ha la forza di raccontare una vita indicibile”. Non una, ma diverse vite indicibili, segnate da miseria e violenza, da degradazione fisica e morale nella Carnia contadina del primo Novecento, in cui non esisteva alcuna possibilità di riscatto sociale e la sopraffazione maschile dominava incontrastata e opprimente.

Attraverso una scrittura dura e scarna, priva di retorica, Paola Drigo racconta il dramma vissuto da una famiglia composta da tre donne, la madre Catine e le due figlie Mariute e Rosute, di quattordici e otto anni. Già la frase di apertura, nella sua icasticità, introduce a un’atmosfera di faticoso squallore e desolata solitudine: “Erano due donne un carretto ed un cane”. In realtà, oltre alla madre, alla figlia maggiore e al bastardino Petoti (presenza affettuosa e fedele compagnia dei protagonisti in tutto il libro), all’interno del carretto dormiva la bambina più piccola, dolorante a un piede. Le tre donne durante la stagione clemente spingevano il carretto per le strade del basso Friuli vendendo utensili in legno, fermandosi a dormire in ricoveri improvvisati, nelle stalle, o là dove famiglie contadine offrivano ospitalità e un po’ di cibo. Mariute allora ritrovava la sua gaiezza adolescenziale intonando villotte per rallegrare lo scarso pubblico. Stornelli che Paola Drigo trascrive nella scabra lingua carnica (mai chiamarla dialetto!), insieme ad altri termini sparsi qua e là nelle pagine. “Càndole, candolini, sculièri, menèstri, donne!”, era il richiamo ripetuto attraversando le contrade. Le strade e i torrenti d’estate erano secchi per la siccità, e poi subitamente travolti da piogge torrenziali che li trasformavano in paludi. La fatica del cammino, il peso delle gerle sostenute sulle spalle, i pochi denari ricavati dalla vendita dei loro arnesi, rendevano ancora più desolato il loro gravoso mestiere.

Paola Drigo descrive sia gli ambienti esterni sia il paesaggio in cui si muovono le tre protagoniste con partecipazione attenta e sensibile: “Di giorno, le case, gli alberi, emergevano grigi e spettrali dal fango, ma verso sera la nebbia li avvolgeva, prima lieve e ondeggiante come un velo, poi sempre più greve e floscia, pareggiando tutto nella sua opaca infinita malinconia”.

La morte improvvisa della madre, stroncata dalla pleurite e da altre innominabili morbi, costringe le due bambine al ricovero presso un ospizio di suore. Sono sporche, analfabete, selvatiche. Viene mandato a chiamare lo zio, fratello del padre morto in America, che le ospitava da anni in un casolare sperduto tra le montagne. Barbe Zef (carbonaio, pastore, taglialegna, norcino) “era un uomo di pel rosso, dalla faccia coperta di lentiggini, dall’aspetto un po’ ottuso. Una cicatrice gli tagliava il sopracciglio e la palpebra d’un occhio costringendolo a strizzarlo in modo che pareva sempre che ridesse”. Rude e violento, si occupava delle due orfane solo per dovere, obbligandole a lavorare in casa e in campagna, incapace di esprimere qualsiasi affetto e comprensione. Inizia così la convivenza penosa con questo parente abbrutito dal lavoro e dall’alcol, che presto abusa della maggiore, come aveva fatto con la madre di lei.

La narrazione di Paola Drigo sottolinea l’aspetto tragico della vicenda, nei crudeli rapporti interpersonali, ma non solo: il lavoro sfibrante vissuto come maledizione, la malattia e la morte di adulti e bambini, una religiosità cupa e ostile che si concretizza soprattutto nella bestemmia, il sesso come sfogo di appetiti bestiali, l’incesto praticato usualmente nei piccoli borghi di montagna. E l’ambiente naturale, ombroso nei boschi umidi, bianco e gelido sotto la neve, immerso in un “silenzio senza misericordia”. Si piange poco, nel romanzo, e i momenti di leggerezza si limitano alle vaghe fantasie sentimentali di Mariute, al suo affetto per la sorellina, alle carezze sul muso delle pecore che custodisce, o al cagnolino Petoti che sembra volerla consolare dei molti dolori.

L’orco cattivo, Barbe Zef, è anch’egli vittima di miseria, ignoranza, aridità di cuore. La vendetta della nipote, che teme per la piccola Rosute lo stesso destino toccato a lei e alla madre, arriva del tutto giustificabile, nella sua spietata ferocia.

Dal romanzo di Paola Drigo il regista Vittorio Cottafavi ha tratto nel 1981 il film omonimo, recitato in friulano con sottotitoli in italiano. Sceneggiato e interpretato dal poeta carnico Siro Angeli, il film (presentato con successo nei Festival di Montreal, Cannes, Barcellona e ridotto in miniserie televisiva per Rai 3), nel 2019 venne restaurato e proiettato alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Contestato all’inizio da critica e pubblico in Friuli perché ritenuto troppo crudo e diffamatorio, è diventato un cult movie, al punto da essere definito da Cahiers du Cinema “il più bel film del realismo”.

 

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4 giugno 2023

RECENSIONI

DUBOSC-EDRES

DUBOSC-EDRES, PICCOLO LESSICO DEL GRANDE ESODO – MINIMUM FAX, ROMA 2017

Ottanta lemmi (limitati a 3000 battute ciascuno, in rigoroso ordine alfabetico, accompagnati da un’essenziale bibliografia di due-tre riferimenti di lettura; scritti da storici, psicologi, mediatori culturali, sociologi, insegnanti), offrono a noi lettori un Piccolo lessico del grande esodo. Dove per esodo si intende la migrazione epocale, biblica, che da decenni sta interessando tutto il mondo occidentale – benestante, colto, democratico, cristiano o laico – da parte di coloro che Frantz Fanon nel 1961 aveva definito “i dannati della terra”. Migrazione economica e migrazione politica, di migliaia di disperati (affamati o perseguitati), che singolarmente o con le loro famiglie affrontano incredibili difficoltà naturali e culturali con il miraggio di salvarsi, o perlomeno di migliorare la propria esistenza.

I due curatori, lo psicanalista Fabrice Olivier Dubosc e la docente di arabo Nijmi Edres, hanno voluto proporre con questo volume un agile strumento di consultazione a chiunque fosse interessato al fenomeno migratorio, ovviamente senza pretendere di esaurire gli argomenti presentati, ma suggerendo ipotesi e riflessioni che potessero invogliare ad approfondimenti ulteriori. Quindi troviamo lemmi filosofici (identità, memoria, nuda vita, l’altro…), politici (cittadinanza, diritti, immunità…), economici (costi, debito, risorse…), umanitari (aspirazioni, sgomberi, detezione, ospitalità…), amministrativi (centri di accoglienza, frontiere, pocket money…), poetici (i versi di Chandra Livia Candiani).

Nell’introduzione, Dubosc e Nijmi affermano: «Fuori da ogni compiacimento ed esotismo, e ben prima di kalashnikov e attentati, il mondo che arriva a casa nostra ci scombina, ci turba, rimescola le carte. Rimette in gioco l’antico fantasma dell’incertezza». Incertezza o più propriamente “paura”, timore di fronte all’altro che non conosciamo, che in qualche modo minaccia la nostra tranquillità ponendosi come diverso, chiedendoci qualcosa e forse togliendoci qualcosa che ci appartiene, minando le nostre certezze: il lavoro, la lingua, la cultura, le abitudini, la religione, addirittura la libertà. Non basta ricordare che l’immigrazione straniera porta linfa giovane nella popolazione occidentale invecchiata, salvando le pensioni di anzianità e garantendo nuove nascite, e nemmeno che «nel 2014 il «Pil dell’immigrazione», cioè la ricchezza prodotta dai 2,3 milioni di stranieri occupati in Italia, ha raggiunto i 125 miliardi di euro, una cifra pari all’8,6% del Pil nazionale».

La paura è un sentimento irrazionale, una difesa inconscia del nostro cervello di fronte a tutto ciò che non comprendiamo appieno: i recenti attentati terroristici la stanno acuendo, con il risultato di provocare reazioni estreme. Quello che dobbiamo accettare e a cui dobbiamo abituarci è che “il grande esodo” è una realtà strutturale, inevitabile, immodificabile del presente e del futuro dell’umanità, che nessun muro potrà mai fermare: va accettato, quindi, come una sfida socio-politica in grado di costituire un arricchimento generale.

 

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www.sololibri.net/lessico-grande-esodo-Dubosc-Edres.html;  25 marzo 2017

 

RECENSIONI

DUERRENMATT

FRIEDRICH DÜRRENMATT, LA MORTE DELLA PIZIA – ADELPHI, MILANO 1988

La Pizia raccontata da Friedrich Dürrenmatt in questo breve romanzo del 1985 non ha nulla di ieratico, solenne, sacrale. E’ invece piuttosto isterica, sardonica, irreligiosa: “vecchia e svampita… lunga e secca… assisa sul tripode e avvolta da una nuvola di vapori”, recita i suoi oracoli con impazienza e superficialità, prendendosi gioco di quei creduloni che la interrogano con ansia e timore. “Non che lei credesse alle cose che diceva, anzi vaticinava in quel modo proprio per farsi beffe di coloro che credevano in lei, col risultato però di destare nei suoi devoti una fede assolutamente incondizionata”. Un po’ come succede oggi agli astrologi mediatici, quando propinano agli ingenui spettatori i loro oroscopi improvvisati. Ma non è solo la Pizia ad assumere in queste pagine sembianze tanto irrispettose del mito e della tradizione: lo stesso santuario di Delfi si trova in condizioni deplorevoli, immerso nella sporcizia e nel degrado, “umido e pieno di correnti d’aria”. E persino il più famoso dei veggenti dell’antichità, Tiresia, viene sarcasticamente descritto da Duerrenmatt come “un tipo quanto mai sgradevole, di sicuro il più grande maneggione e politicante di tutta la Grecia, e, per Apollo, marcio e corrotto fino alle midolla”. L’ironia feroce dell’autore svizzero si fa gioco di dei ed eroi, di Edipo e Giocasta, svelando intrighi, incesti, brame di potere e denaro, superstizioni ed efferate violenze, omicidi e suicidi: una sorta di tragica farsa che accomuna vittime e carnefici sul palcoscenico del mondo, burattini che si agitano sotto “il cielo di piombo, la superficie di quel nulla assoluto in cui gli uomini, per poter tirare avanti, proiettano ogni sorta di cose, divinità e destini di ogni genere…”. Il ghigno amaro con cui l’autore commenta le intricate vicende dei suoi personaggi ha la sua giustificazione nella certezza che non esistano risposte o possibilità di fuga dalla crudeltà del destino cieco e casuale che domina la vita degli esseri umani.

IBS, 31 marzo 2014

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