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RECENSIONI

FATICA

OTTAVIO FATICA, VICINO ALLA DIMORA DEL SERPENTE – EINAUDI, TORINO 2019

Ottavio Fatica, nato a Perugia e tornato a vivere in Umbria dopo lunghi anni trascorsi a Roma, è considerato tra i maggiori traduttori italiani dall’inglese e dal francese. Collabora con molte case editrici, e ha curato testi classici e contemporanei (Melville, Poe, James, Kipling, London, Fitzgerald, Joyce, Tolkien, Auden, Cassian, Céline, Girard…), vincendo importanti premi nazionali. Oggi, consulente editoriale per Adelphi, insegna pratica del tradurre letteratura. Nella collana bianca di Einaudi aveva pubblicato nel 2009 un primo volume di versi, Omissioni, e ora propone questo funambolico Vicino alla dimora del serpente. Funambolico non solo perché la figura dell’acrobata e la metafora dell’equilibrismo siano ricorrenti nelle poesie, ma perché stile e temi si susseguono compositi e frammentati, poliedrici e provocatori, sempre sul fil di lama – per dirla in termini montaliani – di una soluzione prima perseguita e poi raggirata. L’illusione di una ricomposizione contenutistica e formale viene irrisa continuamente: a ragione nella quarta di copertina si fa riferimento alla poesia di Ripellino come antesignano di questa inventività ironica e spiazzante. Soprattutto sembra venir presa di mira la coerenza stilistica, poiché le sei sezioni di cui si compone il volume utilizzano timbri poetici diversi e persino discordanti.

In alcune pagine iniziali la finalità che si propone il poeta appare principalmente etica: una riflessione sconfortata sul destino dell’uomo, in bilico tra bene e male, volontà di purificazione e di espiazione da un lato, attrazione verso la colpa e la dannazione dall’altro. Il lettore si trova davanti a un continuo moto ascendente e discendente, a un innalzarsi e a un precipitare nell’abisso: la metafora dell’affondamento, del diluvio, dell’alluvione rovinosa che si abbatte e non lascia scampo, travolgendo tutto, fa da pendant al volo in un empireo sconfinato e indifferente, per nulla protettivo, in «cieli senza rete»: «l’arduo / gioco che dalla base terra / avrà l’ardire e l’ardenza / del cielo come meta», «Poi in un baleno / viene giù il Diluvio e poi / il lutulento / lento decorso, la / conta dei danni e / dei condannati», «l’universo / favo ronza e bulica / sulfureo in un via vai di fuchi / e di operai spersi / per i buchi sporchi di morchia / di materia oscura / di materia losca / del bugno».

I sostantivi utilizzati esprimono perlopiù minaccia e aggressione (squarcio, schianto, sbrago, torchio, graticola, rovi, lama, forbici, crepaccio, gabbia), inganno e sporcizia (morchia, mucillagini, catrame, crosta, ragnatela). Chi scrive avverte «tutto il peso del mondo», e come suggerisce il titolo, si riconosce Vicino alla dimora del serpente. Frequenti sono i rimandi alla Sacre Scritture, mai con intenzioni consolatorie, poiché prevale invece l’immagine demoniaca di un Lucifero spaesato, quasi vittima di se stesso più che di una divinità indecifrabile: «e io da scuro / a scuro scorribanderò / anima scalza / di balza in balza», «come / faremmo senza fuoco o morte?», «pure una sera / insieme al gregge reduce / allo speco / non mancherò al raduno / ad uno ad uno in tempo / per soffriggere».

Ma aldilà della pregnanza metafisica dei versi, si avverte in Ottavio Fatica la lusinga dell’esibizione linguistica, la giocosità della sorpresa nell’uso ossessivo delle rime e delle allitterazioni, negli enjambement imprevedibili, nella vistosa negazione della punteggiatura, nel flusso di associazioni visive e sonore, nei sapienti arcaismi e neologismi. Il gusto del grottesco lo avvicina a una poetessa da lui tradotta recentemente, Nina Cassian, che si era addirittura inventata una lingua tutta sua (lo “spargano”), con l’evidente volontà di stupire il lettore, in uno pseudo-surrealismo basato sulla fascinazione della parola recitata, canzonatoria e sarcastica: «come il roggio / in ruggine si strugge / la ragione / la vita che rifugge», «per questo quello / invoca invano invidia / inventa Tazio / o no?», «quand’è tutt’un / mondo che duole / che vuole far male / e che può (si salvi / chi può) non va più / non va proprio giù», «per entro uno sghembo pertugio / ridotto o rifugio / per tutti e anzitutto / per me sotterfugio / perché quest’assolo spergiuro / perento / che indugia al centro».

Proprio riguardo al suo apprezzatissimo “mestiere” di traduttore, paventando di non possedere parole proprie, e temendosi esiliato dalla sua stessa esistenza e lingua, scrive: «come una spia un ipocrita / un transfuga un liberto / come tutti il traduttore / lotta per avere ragione / della ragione / della ragione e lascia / il certo per l’incerto e torna / schiavo e come tutti più / di tutti muore irrassegnato». L’idea di esclusione e autoesclusione dal mondo è spesso ribadita, e riconosciuta come colpa personale e collettiva, che chiude il genere umano in un’autoreferenzialità autistica («A bordo dello scafo / non si scorge nessuno / che ami nessun altro / più di sé», «Risucchiato / ti avviti su te stesso», «c’è mondo e non / c’è modo di smentirlo / con la vita»). Tuttavia la salvezza può insperabilmente arrivare dall’istintività ingenua del mondo animale, da un abbandono più disarmato e fidente alla vivezza del sentimento amoroso, o al ricordo dell’infanzia e di luoghi cari. Così nelle ultime sezioni del libro prevalgono temi più docilmente affettivi (l’immagine di una «gattina smarrita», un «bestiario onirico» aggirantesi in boschi fiabeschi, una gara ciclistica, la memoria di Natali trascorsi, una «musichetta stenta», i fiocchi di neve, il primo amore degli undici anni), e toni che corteggiano la filastrocca, la cantilena, lo stornello, l’aforisma moraleggiante o perfino l’elegia: «Qui sotto la mia cupola / di cielo i panni stesi / indorano al tramonto / sanno d’aria / di luminosità».

Se l’esperienza della scrittura appare spesso incomunicabile («Il cieco scrive / e dovrà farsi leggere / quello che ha scritto / se altri capirà / o capiranno / le zampe d’uccelletto / sulla neve»), resta salda la vocazione all’innamoramento fugace, alla comprensione della bellezza nell’altro da sé («noi / nostalgici ostaggi / un mondo d’ansie e primule / fatto per struggerci», «Vita diletta, anima / finitima alla mia / cuore pulsante / d’intima estraneità / mi duole di tristezza / tutto il corpo»). E rimane il dovere di esprimersi comunque: «io lancio sassi / contro i vetri del cielo / così imparo / a fare sempre meglio / quello che / non si può fare e che / pure va fatto». Ottavio Fatica in questo suo libro così pieno di immagini, voci, echi letterari, sapienza meditativa, ci ricorda continuamente la nostra caducità e la nostra immortalità, corpi animaleschi e angelici come siamo: «la vita è un piede a terra / e uno al piano nobile».

 

© Riproduzione riservata                             «SoloLibri», 18 giugno 2019

 

 

 

 

 

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FATICA

OTTAVIO FATICA, LOST IN TRANSLATION – ADELPHI, MILANO 2023

Nel tradurre un testo ci si perde, e si perde qualcosa (del testo stesso, e di sé nell’immersione di parole altrui). Altro si recupera, si ricrea, si offre a chi parla una lingua differente. Lost in translation, titolo ripreso dal famoso film di Sofia Coppola, è un libriccino pubblicato da Adelphi nella collana Microgrammi. L’autore è Ottavio Fatica, poeta (ha pubblicato da Einaudi Le omissioni e Vicino alla dimora del serpente) e leggendario traduttore di capolavori: Il Signore degli Anelli e Moby Dick, tra i più citati. Inoltre, traghettatore in italiano e acuto interprete di romanzieri come Kipling, London, Celine, Joyce Nabokov e poeti come Byron, Yeats, Edward Lear, Auden, Frost, Nina Cassian.

In sei brevi capitoli, “sei appuntamenti al buio con lo straniero”, Fatica ci illustra l’improba ed esaltante arte del tradurre, e il ruolo (la vocazione!) di chi la esercita. Kipling, il primo narratore a essere da lui omaggiato, è stato anche il primo a iniziarlo ai misteri della giungla e al gusto di imboscarsi nella selva intricata dei significati, dei suoni, delle allusioni, delle metafore. E di sagaci metafore si serve l’autore per introdurci alla propria competenza tecnica: come i piccoli protagonisti di Kipling (Mowgli, diviso e conteso tra due mamme, e Kim, protetto da due diverse figure paterne) anche il traduttore soffre di inquietudine e di un timoroso senso di inappartenenza, sapendosi “creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere”, “san Cristoforo in sedicesimo” che trasporta da una sponda all’altra il carico di una parola.

Metafore diverse ma altrettanto incalzanti sono quelle utilizzate nel capitolo dedicato al Signore degli Anelli, in cui lo hobbit Sam, caricatosi Frodo sulla schiena, lo sostiene lungo l’ardua e scoscesa salita verso il monte Fato: così fa il traduttore, novello sherpa che si mette al servizio di un altro scrittore, sottoponendosi con abnegazione a ogni difficoltà interpretativa, e infine, giunto “all’agognata meta, ecco – si ferma un passo prima, un passo indietro, e lascia allo straniero il dubbio privilegio di piantare la bandiera sulla vetta”. Illuminato di riflesso, esattamente come la parrucchiera delle dive, che si entusiasma del premio loro attribuito se solo per un attimo viene inquadrata dalle telecamere la sua acconciatura.

Quella di chi traduce è quindi un’arte umile, misconosciuta, vicaria, suppletoria? Ottavio Fatica rivendica con risolutezza e orgoglio straordinarie conquiste personali. Animato dallo stupore del fanciullino di fronte al mistero racchiuso nello scrigno del “verbo”, incalzato dall’interesse dello psicanalista che penetra nei sogni del suo paziente, infervorato nella comprensione della poesia più criptica, si riconosce parimenti ermeneuta e creatore. Soprattutto per ciò che riguarda la poesia che, intraducibile per definizione – poiché prigioniera di ritmi, misure metriche, rime –, richiede una resa rigorosa e circostanziata. Poeta egli stesso nella decodificazione e nella restituzione dei poeti, “poeta del poeta”, sa che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”. “Se tradurre è masochistico, tradurre poesia in poesia è disciplina da fachiri e da contorsionisti, da aspiranti suicidi”, in quanto si deve non solo ottenere una versione il più possibile fedele, ma anche “ridestare l’eco dell’originale, la tonalità affettiva, la sostanza sonora”.

Altri interessanti argomenti sono trattati nel volumetto adelphiano: quanta empatia occorra per sintonizzarsi realmente con la produzione letteraria di uno scrittore straniero, quando un romanzo o una poesia si possano definitivamente considerare conclusi e non più modificabili o migliorabili, per quale motivo veniamo sorpresi negativamente leggendo un testo italiano tradotto in una lingua non nostra, in che misura la conoscenza e l’uso di un unico codice linguistico contribuisca a rinchiudere gli esseri umani in confini angusti e soffocanti, aumentando gli attriti e i conflitti con chi si esprime diversamente.

Ma è soprattutto l’ultimo saggio che indica quale sia il trasporto di Ottavio Fatica verso gli autori di cui si occupa. In particolare, l’amatissimo Louis Ferdinand Céline. Solo con lui, e con Artaud, ha visceralmente desiderato di immedesimarsi: “Ricordo bene, ricordo come fosse ieri che, non appena mi mettevo a leggerlo, qualcuno ecco attaccava a parlare dentro me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi – parlava attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”. Lasciandosi trasportare dal parlottio celiniano, “sbracato, virulento, garrulo, sublime, grondante amaritudine, venato di lirismo, sotteso di pietà”, Ottavio Fatica ha rischiato spesso uno “stato di fuga irreversibile, cogente”, quello che teme o spera di raggiungere ogni traduttore appassionato: “la perdita del possesso, della disponibilità della lingua, di se stessi in fondo, lo smarrimento ultimo”.

Lost in translation, appunto.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 25 marzo 2023

 

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FAULKNER

WILLIAM FAULKNER, UNA ROSA PER EMILY – ADELPHI, MILANO 1997

Tre straordinari racconti di uno dei più grandi scrittori del ‘900. Asciutti e implacabili, nella loro durezza spietata, nella severa risoluzione dell’autore di non commentare le vicende narrate, né di esprimere qualsiasi giudizio di condanna o solidarietà nei confronti dei loro protagonisti. Una scrittura ossuta, quella di William Faulkner, e insieme paradigmatica: acuta nelle metafore, prive di qualsiasi compiaciuta sbavatura; originalissima nell’aggettivazione (“parola infrequente… scontrosa demenza… decadenza ostinata e civettuola… cimitero assorto): mai scontata. E con questi incipit memorabili, fatti di una sola frase scolpita: “Jim Grant faceva il mercante di bestiame”; “Non era originaria di questa zona”. E di altrettanto micidiali conclusioni: “Poi, quasi subito, svanì”; “Quella notte Mrs. Grant morì sulla sua sedia, eretta e tutta vestita”. Ma sono soprattutto i suoi personaggi, in particolare se donne, a rimanere inchiodati nella memoria del lettore. Come se le figure femminili raccontate da Faulkner avessero l’arduo e non ricompensabile compito di mandare avanti il mondo, e questo cadesse tutto, con le sue ingiustizie e la sua violenza, sulle loro spalle. Spalle forti, tuttavia, anche se piegate e piagate da sofferenze e abusi: spalle di donne che rendono triplicato il male ricevuto. E quindi la Mrs. Grant del primo racconto (“Miss Zilphia Grant”) affronta il suo destino di donna tradita e abbandonata vendicandosi sul marito e sulla figlia incolpevole, la quale perpetuerà a sua volta la stessa feroce follia materna. In Una rosa per Emily  l’anziana protagonista, volontariamente reclusa in casa per risentito orgoglio, si fa beffe dell’intera comunità cittadina, e il suo segreto viene svelato solo dopo la sua morte. Infine in Adolescenza si narra “il periodo felice” della selvatica Juliet, “con dei compiti da assolvere e l’orgoglio per il suo corpo piatto”, e il suo amore acerbo per un romeo disorientato e innocente.

IBS, 1 marzo 2014

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FAZIO

RAFFAELA FAZIO, MIDBAR – RAFFAELLI EDITORE, RIMINI 2019

Dopo aver indagato nelle sue ultime pubblicazioni il mito classico attraverso le figure femminili, e il tempo nelle sue scansioni materiali e inconsce, Raffaela Fazio (Arezzo, 1971) affronta nei versi di Midbar l’universo veterotestamentario, con competenza scientifica e lievità di stile, riuscendo a rendere coinvolgente un argomento di non facile assimilazione.

Già il titolo della raccolta rivela la consuetudine dell’autrice con l’ebraico: midbar significa deserto, termine che richiama le estese solitudini abitate dai profeti, i silenzi umani e divini tanto difficili da interpretare. Con un minimo scambio consonantico, può riallacciarsi al sostantivo dabar, indicante sia la parola sia l’evento. Ecco quindi che nel vuoto dell’assenza si iscrive l’incontro, il suono verbale emesso dall’altro da sé, l’esperienza di un avvenimento che sconvolge e trasforma, come suggerisce l’epigrafe di Heidegger posta in esergo a questo volume.

I protagonisti biblici narrati sono appunto tra coloro la cui vita è stata segnata da una sconvolgente epifania, a cui hanno risposto con un’affermazione o una negazione, con un’obbedienza o una ribellione. Prevalentemente si muovono all’interno della Genesi: Eva, Abramo, Isacco, Agar, Giacobbe, Rachele, Giuseppe. Mosè ci parla dall’Esodo, Rachab dal libro di Giosuè; altri personaggi hanno la voce dei profeti, Giobbe alza il suo grido di dolore e protesta in chiusura del volume: “Cos’è che crolla in me? / Cosa rimane / se stendi uguali i giorni / sul boia e l’innocente? / Chi mente / non vacilla. / Prospera il più forte / e il gregge dell’iniquo / non ha aborti. / Perché taci? / Dove il mio sbaglio?” Sono uomini e donne vissuti migliaia di anni fa, che si pongono le stesse nostre domande sulla vita e sulla morte, vivono la stessa nostra ansia nei riguardi del futuro, un uguale rancore contro l’ingiustizia e la sofferenza immeritata, attendendo una risposta, un’illuminazione e una guida da Dio.

“Ogni parola è un passo. / Cambia nel dirsi e nell’ascolto”: così, con questi due versi intensamente asseverativi si apre la prima poesia, a indicare che proprio nel doppio binario della comunicazione l’essere umano si propone come alterità all’assoluto, relazionandosi con gli altri e con la storia, facendosi lingua e orecchio che esprime e attende la parola, la quale “Nasce dal deserto e non lo lascia: / mentre lo attraversa / ne spinge il confine più lontano”. Gli elementi naturali (luce e vento, sabbia e pietra, terra e cielo, acqua e fuoco), eterno sfondo a ogni presenza animata, partecipano al miracolo dell’esistente: ma è solamente il parlare che li vivifica, è con la presenza della creatura che diventano eco, domanda e risposta. Eva nell’Eden parla con l’albero della conoscenza, l’una attribuendo all’altro la responsabilità della scelta del male e del peccato che gravano sull’umanità: “Da me si passa / per morire. / La donna lo sapeva: per generare / barattò l’eterno con la storia / s’iscrisse nella fine / e offrì un inizio”.

Nella dotta ed esauriente prefazione, Massimo Morasso dà atto a chi scrive di aver saputo rendere nella semplice linearità del suo poetare la risonanza solenne del testo sacro, osando “la sfida del confronto fra teologia e letteratura”. L’autrice ha intessuto un dialogo tra umano e divino privo di ambizioni spiritualistiche, lontano da ogni aspirazione alla trascendenza, ma decisamente terreno, impastato di un epos che supera la soggettività, e si fa invece portavoce di una vicenda storica diventata simbolica e universale. Calandosi e insieme celandosi negli eventi che racconta, Raffaela Fazio partecipa a una ricerca condivisa, incardinata nel tempo eppure fuori dal tempo, e l’accompagna con la presenza discreta, sensibile e indulgente della testimonianza poetica.

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Midbar-Fazio.html      17 dicembre 2019

 

 

 

RECENSIONI

FEBBRARO


PAOLO FEBBRARO, I GRANDI FATTI – PENDRAGON, BOLOGNA 2016

I brevi racconti, gli aforismi, i ritratti che Paolo Febbraro (Roma, 1965), poeta e critico letterario, ha scritto tra il 1994 e il 2015, spesso appuntandoli su taccuini e fogli volanti come fossero improvvise illuminazioni, sono stati raccolti nel volume I grandi fatti per l’editrice bolognese Pendragon.

Il titolo, recuperato dal ricordo adolescenziale di una pubblicazione divulgativa in fascicoli sulla storia del ’900, allude all’intreccio dei contenuti oscillanti tra il commento – spesso ironico o amareggiato – dei grandi avvenimenti pubblici e il loro riflesso, tutto intimo ed emotivo, nella sensibilità dell’autore. Ci ritroviamo quindi testimoni, come lettori, di un continuo e vibrante movimento tra realtà e finzione, dentro e fuori, privato e pubblico, alle prese con miti biblici (Eva, Caino e Abele, Abramo), letterari (Dante, Kafka, Proust), storici (scoperta dell’America, rivoluzione francese e nazismo) ma anche con tutta una costellazione di mitologie personali: l’affettuoso ritratto del padre, gli amori piccoli e il grande amore, incidenti e tragiche malattie di amici, irridenti autobiografie.
Nella consapevolezza che «Una comunicazione vera si basa sull’interruzione e sull’intermittenza» e che«l’emozione produce rumore e crea distorsioni, cavità, corpi solidi e sondabili».

Paolo Febbraro rivendica una sua lettura molto umbratile e ricettiva della realtà, sia di quella immanente e incarnata nei giorni, sia di quella interiore e fantastica. I rapporti sentimentali si situano sempre in una zona fluttuante tra vicinanza e lontananza, adesione ed estraneità, quasi timorosi di esprimersi se non attraverso sguardi sfuggenti, gesti trattenuti, parole misurate. Nessun giudizio presuntuoso o prevaricante sugli altri, né tanto meno sui destini dell’umanità: «darsi ragione della Storia è impossibile. Chiamiamo stranezza del caso solo ciò di cui più difficilmente sappiamo ricostruire l’origine apparente. Il tempo ha così un prima e un dopo, ma non ha una direzione… Da sempre costruiamo castelli e non sappiamo il vento, il sasso, il topo».

Perciò, se la prima sezione del libro ne condivide il titolo – I grandi fatti – quella conclusiva recupera ciò che si intravede nelle pieghe della storia: Le cose dietro. Perché il vero si annida e si mimetizza anche o soprattutto nella cronaca quotidiana (il lavoro a scuola, la famiglia, l’ambiente urbano e naturale), ma si può intuire persino nelle invenzioni stralunate del fantastico e dell’assurdo, in una scrittura in bilico tra Pirandello, Buzzati, Borges, Kafka e Asimov, nel passato reinventato o in un futuribile angoscioso e sghignazzante.
Nel mezzo, i Lampi di cinque paginette aforistiche che riflettono con disincanto e amarezza sulla caducità dell’esistenza, sul contrasto tra essere e apparire, sull’irrecuperabilità dell’innocenza: «Era così grande che fu osannato dai suoi contemporanei e ignorato dai posteri; La amava a tal punto che spesso se ne dimenticava; Ci sono le persone oneste, e le persone normali».

Paolo Febbraro osserva e commenta, rivelando un suo sguardo di clemente ed empatico “compagno di strada” dei fatti grandi e minuti che ci riguardano tutti, ben sapendo che «la verità è una somma, ed è impossibile escluderne qualcosa».

 

© Riproduzione riservata   www.sololibri.net/I-grandi-fatti-Febbraro.html      17 maggio 2016

 

RECENSIONI

FEBBRARO

PAOLO FEBBRARO, PRIMO LEVI E I TOTEM DELLA POESIA –  ZONA FRANCA, ROMA 2013

Il critico letterario e poeta Paolo Febbraro dedica questo approfondito a appassionato saggio a Primo Levi, e in particolare alla sua produzione in versi, limitata a un unico volume di 93 liriche, composte tra il 1943 e il suo suicidio avvenuto nel 1987 (e pubblicate in Ad ora incerta nel 1998 da Garzanti). Con la poesia Primo Levi ha avuto un rapporto “non sistematico e tutt’altro che pacifico”, ma sempre improntato a un severa fedeltà verso la sua “speciale trasparenza e condensazione”, che lo portava a diffidare – pur ammirandoli – di poeti oscuri come Pound, Trakl e Celan, convinto che ” è poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”. Chiarezza come “radicale onestà” verso il pubblico dei lettori, ma addirittura come rigorosa promessa fatta a se stesso di una “solennità anche violenta, inaggirabile”, che alcuni notissimi critici ( Cases, Fortini, Mengaldo) hanno bollato come “classica, marmorea… buona per le lapidi”. Paolo Febbraro indaga con finezza il rapporto che i versi di Levi hanno avuto con la sua ben più ricca e apprezzata produzione narrativa, contrappuntandola quasi didascalicamente, fieri del proprio “tono biblico-dantesco”, ma anche di tutte le ascendenze culturali che li hanno nutriti: dal Midrash ai racconti Yiddish, da Lucrezio a Leopardi, fino a Coleridge, Poe, Eliot. Una poesia pregna di storia, di amore per la scienza, di indignazione civile, di rabbioso dolore, di memoria lacerata e di un mai superato e angoscioso senso di colpa per essere riuscito a sopravvivere allo sterminio nazista. Con ferma delicatezza Febbraro esplora anche aspetti meno conosciuti della vita privata di Levi, sottolineando con forza la sua grandezza “inappariscente e sobria,… di candida spregiudicatezza, di non adulterato coraggio”.

IBS. 25 aprile 2013

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FECHNER

GUSTAV T. FECHNER, IL LIBRETTO DELLA VITA DOPO LA MORTE – ADELPHI, MILANO 2014

Cosa rimane dell’uomo dopo la morte? E cos’era egli prima di nascere? Esiste solo il buio, prima e dopo la cosa contingente che chiamiamo vita, o c’è dell’altro? Ed è recuperabile un qualsiasi rapporto con i defunti, o dobbiamo rassegnarci ad averli perduti per sempre? Questo “libretto” pubblicato nel 1836, e oggi riproposto da Adelphi, tenta di tracciare alcune risposte, e lo fa con il pudore quasi incantato del suo autore, il fisico e filosofo tedesco Gustav Theodor Fechner (1801-1887). Non uno sprovveduto, questo originale personaggio spesso deriso in vita e snobbato dai posteri, se il suo nome è rimasto legato a importanti studi sulla percezione e alla legge Weber-Fechner sulla sensazione, e se per decenni fu titolare della cattedra di fisica all’Università di Lipsia. Autore di molti volumi, non solo scientifici, ma anche letterari e umoristici, fu il fondatore di una particolare scienza, la “psicofisica”, che cercava di conciliare la materia di cui siamo fatti con l’identità spirituale che caratterizza la coscienza di ognuno, ed è indistruttibile, immortale. Appassionato di botanica, Fechner era convinto che anche le piante, e tutto ciò che vive, avessero una coscienza, e l’intero cosmo fosse animato e in armonia, esplicandosi in un rapporto di bellezza e accordo con il divino. Una filosofia, la sua, che oggi potrebbe venire recuperata da qualche tendenza di pensiero new-age, e che forse può avere ancora una certa attrattiva sotto un profilo estetico-romantico. L’idea che esista un filo magico che collega ciò che respira a ciò che si è decomposto fisicamente, e che tuttavia solo per il fatto di essere esistito ha lasciato traccia di sé in uno spazio-tempo spirituale, è indubbiamente poetica e consolante: “colui la cui piccola casa, dove per lungo tempo si è aggirato, viene distrutta, se ne va lontano per sempre e comincia una nuova peregrinazione… il campo delle sue migrazioni è solo indicibilmente più ampio, le vie più libere e i punti di vista più alti…”.

IBS, 2 giugno 2014

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FELDER

ANNA FELDER, LA DISDETTA – CASAGRANDE, BELLINZONA 2002

Anna Felder (Lugano, 1937), autrice svizzera di madre italiana, ha scritto romanzi, racconti e poesie, molto apprezzati dalla critica e premiati con prestigiosi riconoscimenti.  La disdetta fu pubblicato da Einaudi nel 1974, grazie al convinto sostegno di Italo Calvino che lodava dell’autrice: “lo humor sommesso e trattenuto e continuo”, aggiungendo “Il suo modo di raccontare attraverso oggetti, quasi nature morte; o comunque organizzazioni visive dello spazio, o ‘messe in scena’ di momenti della vita quotidiana è interessante e compiuto e richiama esperienze della poesia contemporanea”.

Voce narrante del romanzo è quella di un gatto che osserva sornione, allarmato, complice o ironico il nucleo familiare con cui da molti anni condivide l’abitazione: un vecchio, il figlio e la nuora, una figlia giovane con un amante mal tollerato dalla cerchia parentale. La casa a tre piani, con un grande giardino alberato, è adiacente a un asilo gestito da suore: il gatto si aggira tra le due fatiscenti costruzioni a cui è stato imposto uno sgombero prima della inappellabile demolizione, viziato da tutti gli inquilini e anche un po’ temuto, a causa del suo occhio vigile e giudicante, con cui coglie ogni tic, debolezza e trasgressione degli esseri umani con cui viene a contatto. Il felino antropomorfizzato assurge così a coscienza rimproverante di qualsiasi avvenimento di cui venga a conoscenza.

È un gatto paziente, che sa aspettare l’evolversi delle situazioni, mentre in casa cresce l’ansia e l’agitazione per il futuro trasloco che costringerà i familiari a dividersi, o comunque a trovare una nuova e più costosa sistemazione in città. Lui mantiene le sue abitudini animalesche: caccia mosche, vermi, topi e uccellini, appostandosi con geniali strategie d’assalto nell’erba o negli angoli delle stanze. Contemporaneamente non rinuncia però a esprimere le sue ponderate opinioni sulle stranezze del nonno, sull’irrequietezza sessuale della giovane figlia, sulla pedantesca abitudinarietà del figlio e sulle isteriche lezioni di canto della nuora; commenta poi le notizie dei giornali, i concerti radiofonici, le trasformazioni architettoniche determinate dall’urbanizzazione capitalistica, il traffico e il consumismo, evidente soprattutto nell’avvicinarsi delle assillanti feste natalizie.

L’originalità del testo non risiede solo nella particolare e inusuale prospettiva dell’io narrante, e nella caratterizzazione della sua indole mansueta eppure acutamente critica e sentenziante, ma nello stile con cui Anna Felder segue i labirintici percorsi visuali e mentali del gatto: in una lingua sempre inventiva ed echeggiante, con il filo del discorso che segue quello dei pensieri, sospeso a volte e poi subito riacciuffato ed espanso, in una sintassi franta e poi elegantemente ricomposta. Di cui è interessante dare qui un piacevole esempio: “Eppure, dentro la caligine più densa, da arricciare le narici anche tra le piante aromatiche tanto era insistente l’odore di cenere senza che se ne fosse mai visto il fuoco, in mezzo a tutto quel fiato grigio venuto a stagnare chissà da dove, da che branco di bestioni che per pigrizia o testardaggine non volessero più muoversi di lì; l’ultimo o il penultimo di dicembre, voglio dire, imbavagliati ancora nell’anno vecchio, con le pupille torbide di un chiuso sonno interrotto e i polpastrelli appiccicosi per i pavimenti trascurati durante le feste natalizie, noi di razza felina si era al di là: all’addiaccio, sulla linea dell’equatore: si era oltre il calendario gregoriano”.

 

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https://www.sololibri.net/La-disdetta-Felder.html           18 febbraio 2019

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FENEON

FÉLIX FÉNÉON, ROMANZI IN TRE RIGHE – ADELPHI, MILANO 2009

Félix Fénéon (1861-1944) fu un giornalista, critico d’arte, polemista e anarchico francese, che nel 1894 venne arrestato a Parigi per l’ideazione e la partecipazione a un attentato all’Hotel Foyot. Impiegato al Ministero della Guerra, scriveva allora recensioni sulle mostre e le esposizioni cittadine, occupandosi clandestinamente di politica, in maniera sovversiva. Nel 1906 il quotidiano Matin lo incaricò di scrivere una ventina di brevissimi articoli al giorno, di circa trenta parole, in cui riassumere il senso di un avvenimento di cronaca che stimolasse la curiosità e il divertimento dei lettori, quasi fosse la trama succinta di un romanzo. Fénéon inventò una formula di successo, nei suoi millecinquecento frammenti, che coniugava insieme realtà e invenzione: una riga per l’ambientazione, una per il resoconto del fatto, e una per l’epilogo, a cui riservava sempre un aculeus sarcastico e provocatorio. Queste tre righe erano in genere dedicate a episodi di cronaca nera, ad azioni dimostrative, a intrecci sentimentali piuttosto curiosi. Abbondavano omicidi e suicidi, aneddoti surreali con risvolti comici e demenziali, che l’autore stigmatizzava sapientemente attraverso l’uso di un solo aggettivo o di una sfumatura di sussiegosa ironia. L’editore Adelphi ne ha raccolto un florilegio in questo libriccino pubblicato nel 2009:

Ieri a Rouen il signor Colombe si è ucciso con un colpo di rivoltella. Nel marzo scorso sua moglie gliene aveva sparati tre. I due erano in attesa di divorzio.
Il curato di La Compote, un paese della Savoia, era andato in montagna, da solo. Dopo essersi spogliato nudo, si è coricato sotto un faggio, ed è morto. Di aneurisma.
Nel corso delle indagini sul mistero di Luzarches, il giudice istruttore ha interrogato la detenuta Averlant: che però è pazza.
Playnet, 14 anni, di Annonay, ha morso il padre e un compagno di scuola. Due mesi fa un cane rabbioso gli aveva leccato la mano.
A Dunkerque un certo Scheid ha sparato per tre volte alla moglie senza mai riuscire a colpirla. A quel punto ha rivolto l’arma verso la suocera. Centro.
A Djiajelli una vergine di 13 anni ha ucciso con tre coltellate un suo impudico molestatore, di anni dieci.
Ieri gara con la canna nella Sévre. 1900 concorrenti hanno gettato l’amo, mentre 15.000 spettatori incitavano il pesce ad abboccare.
Odette Hautoy, di Roissy, ha tre anni. Giovane, ma non troppo per L. Marc, che di anni ne ha trenta.
Un colpo apoplettico ha steso il signor André, 75 anni, di Levallois, nei paraggi del pallino. La sua boccia rotolava ancora, e lui non c’era già più.
Perronet, di Nancy, l’ha scampata bella. Mentre rientrava a casa suo padre Arsène, saltando dalla finestra, si è sfracellato a un passo da lui.
L’ex sindaco di Cherbourg, Gosse, era nelle mani del barbiere. A un certo punto ha lanciato un grido, ed è morto. Ma il rasoio non c’entra.
Conciso, beffardo, geniale.

 

 

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www.sololibri.net/Romanzi-in-tre-righe-Feneon.html          29 settembre 2017

 

RECENSIONI

FENOGLIO

BEPPE FENOGLIO, EPIGRAMMI – EINAUDI, TORINO 2005

L’epigramma, di cui Leopardi indicava i tratti fondamentali nell’arguzia e nella brevità, ha una tradizione millenaria nella nostra letteratura. Il termine deriva dal greco ἐπί-γράφω («scrivere sopra») e originariamente indicava la breve formula posta sulle lapidi funerarie. In età classica, i pochi versi che lo caratterizzavano si indirizzarono verso composizioni poetiche di vario genere, assumendo toni burleschi, licenziosi, celebrativi o di aspra critica civile e politica.Testimonianza fondamentale dell’epigrammatica greca fu l’Antologia Palatina, una raccolta di autori cristiani e pagani composta a Bisanzio nel X secolo. Nel mondo latino, erano stati soprattutto due i poeti a distinguersi in tali composizioni: Catullo e Marziale, più elegante il primo, decisamente aggressivo e al limite dell’osceno il secondo, che giustificava la licenziosità con cui fustigava i costumi corrotti della Roma dei Flavi, affermando hominem pagina nostra sapit («la mia pagina ha sapore di uomo»): la sua spietata satira metteva in scena, sbeffeggiandoli, vizi pubblici e privati di nobili e plebaglia, senatori e schiavi, matrone e lenoni, soldati e sacerdotesse. La tradizione classica venne recuperata nel corso dell’Umanesimo da Poliziano e Lorenzo de’ Medici, che composero epigrammi in greco e latino; durante i secoli successivi si distinsero in queste fulminee composizioni Buonarroti, Machiavelli, Ariosto, Bembo, Marino, accentuando il carattere polemico dei loro versi. Tra i letterati successivi, questo stile divenne strumento di feroce critica letteraria (ricordiamo che Foscolo definiva Monti «gran traduttor dei traduttor d’Omero»!), e nel ‘900 non si risparmiarono vicendevoli e crudeli attacchi Montale, Ungaretti, Fortini, Sereni, Giudici, Caproni, Bassani, Arpino, Calvino, Ginzburg, Flaiano, Marchesi, Pasolini, Sanguineti, Eco… Anche oggi duelli rimati e non, comici o furenti, vengono combattuti da molti signori e signore della pagina scritta, non si sa con quanto reciproco gaudio.

I più originali e imprevedibili epigrammi scritti nel dopoguerra sono tuttavia quelli firmati da Beppe Fenoglio, celebrato autore di romanzi sulla Resistenza, nato nella cittadina di Alba (1922-1963), a cui fu legato da un viscerale rapporto di amore e odio, disprezzo e totale dipendenza. Proprio nella sua Alba degli anni del dopoguerra l’autore de Il partigiano Johnny ambientò questi versi, paludandoli (se così si può dire) in toghe e calzari dell’antica Roma, utilizzando un linguaggio arcaicizzante e aulico, latinizzando i nomi dei personaggi (che diventano Clodia, Rufo, Decio, Plautina, e così via), mimetizzando automobili e interni borghesi novecenteschi tra portantine e triclini, con la finalità esplicita di stigmatizzare il modus vivendi della comunità albese.

I 144 epigrammi che Fenoglio scrisse nell’arco del 1961 rimasero inediti per molti anni, per venire poi parzialmente recuperati, dopo la sua morte precoce, da Maria Corti nell’edizione critica delle Opere del 1978, ed essere quindi pubblicati nella loro interezza da Einaudi nel 2005, con una approfondita e coltissima introduzione di Gabriele Pedullà, che li ricolloca all’interno della produzione narrativa dello scrittore piemontese, svelandone le ascendenze più o meno remote. L’intento dissacratorio e polemico di Fenoglio era quello di prendere di mira l’ipocrisia, il cinismo e l’apatia dei suoi concittadini che, concluso il periodo dei generosi slanci e delle utopie rivoluzionarie vissuto durante la lotta al nazifascismo, sembravano essere stati risucchiati nel grigiore della routine abitudinaria e sconfortante della vita in provincia, ossessionata dal sesso, dai soldi e dal miraggio del potere. «Varron tribuno ammette che la legge / Passata grazie ai voti del suo gruppo / Lede la libertà, ma leggermente. / Avant’ieri Settimio mi diceva / Riguardo alla figliola signorina: / Lucilla mia è leggermente incinta», «Quel leguleio, che vedi servire / (Levando gloria e mancia a un chierichetto), Non più tardi di ieri a una vedova / Ha tolto anche la tavola e le sedie», «Caco lenone vedi porporato? / La porpora non spregi, stimi Caco», «Ti lagni non ti fruttano i poderi. / Aulo, qual meraviglia? Ari tu il Foro».

Giustamente Gabriele Pedullà sottolinea quanto lo schermo dell’ambientazione romana sia servito a Fenoglio per esprimere tutto il suo sprezzante rifiuto verso il culto della latinità (pomposo, virile e vuoto) celebrato dalla retorica fascista. Tale riluttanza nei confronti della romanità, e quindi di un nazionalismo anche letterario, lo aveva condotto all’amore per la cultura d’oltremanica, a «una terapia intensiva di britishness», al punto da fargli scrivere direttamente in inglese sia Primavera di bellezza sia Il Partigiano Johnny, riconosciuto anche in qualità di straordinario traduttore di poesia inglese e americana. Un Marziale, il suo, risciacquato nello humor britannico, ad evitare la bolsa monumentalità della prosa del ventennio, con l’obiettivo di sferzare i costumi corrotti, ignavi e conformisti di un’italietta che aveva tradito gli ideali della Resistenza.    I vizi presi di mira dagli Epigrammi fenogliani sono quelli comuni a tante epoche e luoghi diversi: L’adulazione: «Secca hai la lingua, ma non ti daremo / Nemmeno un goccio per rifar saliva. / Aduli tu per vizio, non bisogno». L’invidia: «In mascherar l’invidia fai progressi: / Prima inverdivi come il lauro, adesso / Come l’ulivo». La cupidigia: «Dall’aurora al tramonto senza tregua / il gruzzolo ha palpato e numerato. / A notte fonda si risveglia e frigge / Per la necessità di ricontare. / Bussa da me: non gli regalerei / Appena un’oncia d’olio per lucerna?». La vanagloria: «Credete a me, Cepione con le donne / Non compisce al momento, ma compisce / L’indoman, quando a noi ne riferisce». L’avarizia: «La predica che hai fatto all’accattone / Valeva bei soldoni, per sorbirla. / Gli desti – non travidi – un quattrinello». La lascivia: «Come esperto di squillo torinesi / Getulio,almen da noi, non ha rivali. / Tutto sa e narra: le telefonate, / Gli ambienti, le bellezze, le tariffe». L’avidità: «Perdona se non faccio meraviglie, / Arrio, adeguate. Già lo prevedevo / Ai dì che fummo insieme scolaretti. / Mancavati lo stilo? Te ‘l donavo. / Mancava a me? Tre soldi ne volevi». La petulanza: «Nulla di sé mi tace; in pieno foro / Mi arresta per parlarmi dei suoi calli, / Di come vomitò la notte avanti, / Dei mestrui della moglie, e tutto questo / Perché mi stima, dice, sopra tutti». L’inerzia: «Sostiene Lentulo esser tutto vano: / Sposare, ambire, amare ed operare. / Util però ritiene il respirare», «Niente di niente si poteva dire / Avere Nonio fatto nella vita. / Ora ha ereditato. Ha fatto. Basta».

Lo scherno, il dileggio, il turpiloquio mantengono a volte il tono goliardico «dello scherzo tra compagni di classe», come scrive Pedullà, o degli avventori del bar che si danno di gomito vedendo passare uno o l’altro dei compaesani: «Hai, dicono, la bocca come il culo, / Ma di culo sei stitico, talvolta», «Tigellio d’esser calvo si dispera: / Certo, se il cranio col cul sostituisse, / In vantaggio sarebbe di capelli». Numerosi epigrammi appaiono decisamente misogini, rancorosi nei riguardi delle donne che si concedono troppo o non si concedono per niente, che tradiscono fingendo fedeltà. Spose per interesse, vedove falsamente inconsolabili, vergini pudibonde ma smaniose: «Ingiusta fama ha Licia di sgualdrina: / Non sa dire di no, semplicemente», «Serissima Licisca? Non contesto. / Si denudò, si dié supina e prona, / indi si rivestì, senza un sorriso», «A che s’aggira intorno alla palestra? / Partirono in tournée, ora fa un mese / I gladiatori. Restane l’odore», «E così se la son goduta in molti / la tua Drusa, tuissima Drusa. / Incauto Decio, troppo spesso e male / Affermavi che d’alito puzzava», «Tu invece sei per bene, estremamente: / Di te non si può dire proprio niente, / Salvo che ne patisci, Aurunculeia», «Fa’ come me, che da gran tempo tengo / Per vergini le donne che non hanno / Ancora partorito».

Eppure, tra tanta pletora di donnette e donnacce, Fenoglio recupera una figura altera e inavvicinabile, quella stessa Fulvia che avevamo amato leggendo della tormentosa passione di Milton, in Una questione privata. Eccola di nuovo, incubo e sogno, premio e condanna: «C’ero e non vidi. Stavasi in platea / Un’ignota fanciulla somigliante, / Nei sopraccigli, a Fulvia. Altro non vidi», «”Fulvia non è più qui”. Buona ragione / perché debba partirmene per dove / Fulvia mai fu?», «Se un tuo viaggio mi annunci, / Ecco sull’oceano / Un gabbiano stride / Coltello nella carne del mio amore», «Alfin ci riunivamo Fulvia ed io, / Giovani come allora, un po’ più saggi, / Ma di Fulvia apparivo assai più bello. / Morfeo non mi replichi un tal sogno».

Sempre recuperando gli stimoli offertici dall’acuta prefazione di Gabriele Pedullà, dobbiamo considerare quanto il Fenoglio degli Epigrammi abbia tratto ispirazione dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, di cui era stato pregevole traduttore. Ma se Masters sceglie un cimitero per rappresentare in ogni singolo epitaffio gli abitanti della stessa città, individuando nel momento della morte il disvelamento di un segreto, di una sofferenza, di una passione o di una colpa individuale, per Beppe Fenoglio è l’indole che si manifesta lungo tutta la vita privata e civile degli albesi che va presa di mira, e giudicata con ironia, indignazione o rabbia: in questo dichiarandosi vero erede dell’inclemente sogghigno di Marziale.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 20 aprile 2018

 

 

 

 

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