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RECENSIONI

GALGUT

DAMON GALGUT, LA PREDA – E/O, ROMA 2024

Dello scrittore sudafricano Damon Galgut (Pretoria 1963), autore di libri di grande successo come The Good Doctor e The Promise, la casa editrice E/O ha pubblicato uno dei primi romanzi, La Preda del 1995, che certo non demerita rispetto alle opere successive.

I suoi 56 capitoli brevi, a volte brevissimi, e lo stile steinbeckiano, paratattico, seccamente oggettivo, rendono facile e veloce la lettura, in modo tale che è soprattutto l’accavallarsi rapido degli avvenimenti ad assorbire ogni curiosità di chi legge, direzionandola verso la conclusione, forse intuibile ma non scontata.

“Li guardò e loro lo guardarono e poi entrambi si guardarono l’un l’altro”; “Erano in un capannone attiguo alla casa. Erano Valentine e Small. Erano fratelli”; “E il caldo. E l’attesa. E gli occhi”. Due esempi tra in tanti che si potrebbero fare del metodo di scrittura, scarno nei dialoghi ridotti all’osso ritmato e contenuto dalla frequenza dei punti fermi, con cui Galgut procede scandendo la narrazione. Eppure, il suo studio dell’ambiente, dei personaggi, degli oggetti, è comunque attento e vigile. Le strade sterrate tra erbacce e canneti bruciati dal vento; il litorale sabbioso che scivola verso il mare appena increspato; il veld brullo, spezzato da fossi; il mondo animale in genere abbrutito o comunque disgustante (corvi, manguste, termiti, scarafaggi, cani randagi, pipistrelli); gli esseri umani perlopiù sovrappeso, sudati, oppure scheletriti, con le mani screpolate, il viso macchiato di nei e brufoli; suppellettili sformate, finestre e porte sgangherate. Tutto, insomma, sembra voler sottolineare la desolazione del mondo circostante, su cui implacabili si abbattono improvvise piogge torrenziali oppure arde un sole “giallo e costante”.

Su questo sfondo si stagliano poche, memorabili figure. La vicenda si apre con il protagonista senza nome che cammina, impaurito e stravolto dalla stanchezza, lungo una strada polverosa, probabilmente fuggendo da qualcosa: piange, ha mani e bocca piene di vesciche. Lo affianca un furgone guidato da un uomo tarchiato e quasi calvo: è un prete diretto verso una parrocchia rimasta temporaneamente vacante. Si chiama Frans Niemand, gli offre un passaggio, pagandogli una doppia colazione in una sala da tè. Quando in seguito tenta un maldestro approccio sessuale, lo sconosciuto gli spacca le testa con una bottiglia e trascina il cadavere in una cava. “La cava era nera, un’assenza nella superficie del mondo”. La cava, il burrone, la buca, la miniera dismessa, tornano spesso nell’arco della storia come metafora del nascondimento, del rimosso e del sepolto, così come il continuo lavarsi le mani, la faccia e il corpo di tutti i personaggi indica il tentativo di liberarsi di qualsiasi sporco possa essersi incrostato sulla pelle e nell’anima.

L’assassino decide di sostituirsi al sacerdote ucciso, dirigendosi verso la missione che gli era stata assegnata con il veicolo stipato di valigie, paramenti e testi sacri. “La città era piccola e dispersa e brutta. Prevaleva una sterilità di cemento. Le strade principali erano state asfaltate molto tempo prima, ma le strade secondarie erano di ghiaia. Niente era più alto di un piano”. Una donna in vestaglia lo accoglie in canonica, indicandogli con indifferenza la camera da letto. Svegliatosi nel tardo mattino, scopre che il furgone è stato svaligiato, e alla stazione di polizia dove si reca per la denuncia fa la conoscenza con il Capitano Mong. Tra i due inizia da questo momento un duello fatto di reciproci sospetti, pedinamenti, fughe, in uno scambio di ruoli tra preda e predatore, vittima e carnefice, in cui i confini di colpa e rettitudine, perdono e punizione si confondono.

Nel paesino di pescatori “taciturni e diffidenti”, il falso prete si investe del ruolo religioso usurpato dicendo messa e preparando le omelie, mentre intorno a lui l’atmosfera si incupisce sempre più opprimente quando nella cava viene ritrovato il corpo del sacerdote assassinato.

La seconda parte del romanzo assume una struttura sempre più concitata, in cui episodi violenti e inattesi si susseguono, accompagnati da uno stile ansimante, franto, punteggiato da dialoghi confusi di protagonisti e comparse, in una narrazione che continuamente ripercorre e ricostruisce il già detto. Processi farsa, poliziotti maldestri, incendi dolosi, arresti ed evasioni, inseguimenti ed esecuzioni sommarie, vengono accompagnati dalla musica euforica diffusa da un circo di saltimbanchi straccioni. L’inseguimento tra il Capitano esausto e il falso prete fuggiasco diventa emblematico dell’eterna contesa tra verità e finzione, bene e male, quando il reale sfrangia i suoi contorni in filamenti ingarbugliati, e le sembianze concrete di corpi e oggetti si trasformano in allucinazioni ossessionanti. Lo sfondo in cui si colloca lo scontro finale incombe minaccioso tra dighe e dirupi, paludi e alture, nella solitudine spettrale in cui i due uomini si fronteggiano. “Quando il poliziotto risalì fuori dalla diga, anche lui si rialzò e proseguì. Non era più sicuro che ci fosse una differenza tra loro o che fossero separati l’uno dall’altro e si spostarono insieme sulla superficie del mondo e il sole tramontò e si fece buio e continuarono a duettare. Si muovevano nella notte in vaghi contorni come i sogni che il suolo stava facendo”.

La vicenda narrata da Damon Galgut si fa allora metafora di una condizione esistenziale in cui tutti diventano malvagi torturatori e insieme pietose vittime, e il finale livellante non libera nessuno dalla colpa di vivere.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 15 gennaio 2025

 

 

 

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GALLO JARRE

PAOLA GALLO JARRE, LA DONNA DAL QUADRO SOTTOBRACCIO – LA LUNA,  PALERMO 1989

Il premio letterario per narrativa inedita La luna. Città di Palermo, giunto alla sua seconda edizione, è stato assegnato lo scorso 3 marzo a Paola Gallo Jarre per il volume di racconti La donna dal quadro sottobraccio. Paola Gallo Jarre, nata a Torino ma residente a Zurigo da più di quarant’anni, è stata prescelta tra 350 concorrenti e invitata alla cerimonia di premiazione, cui era presente anche il sindaco Orlando, per ritirare il volume pubblicato appunto dalla casa editrice La luna. I quattro racconti che compongono il libro fanno parte di un gruppo più ampio di novelle zurighesi, già segnalate in una scorsa edizione del premio Ascona, e hanno come comune denominatore l’ambientazione in una Zurigo soffusa e sognante, guardata attraverso gli occhi malinconici e rassegnati di personaggi in qualche modo sconfitti e comunque sempre lontani dagli stereotipi che inchiodano svizzeri e immigrati in una sorta di museo delle cere. Imprevedibilmente, la solare e letterariamente esasperata Sicilia, così realistica e barocca nella sua narrativa, ha scelto di premiare questi racconti tanto nordici, non solo negli sfondi e nei personaggi, ma soprattutto nello stile di scrittura, lieve e quasi sospeso, lontano da declamazioni ed esclamazioni, quasi pudico nella sua descrizione. I racconti, piuttosto brevi, scanditi in capoversi staccati anche graficamente, propongono al lettore storie (brandelli di storie), stralci di esistenze, squarci di paesaggi mai definiti a tutto tondo: Paola Gallo Jarre rifugge dal rilievo, sembrando invece più attratta dall’acquerello e dalle tinte pastello, più dall’eco spenta dei sentimenti che dalle forti passioni. Il racconto che dà il titolo al libro narra la vicenda di una donna che in diverse fasi della sua vita attraversa enigmaticamente l’esistenza della protagonista, segnandone le tappe fondamentali, dall’adolescenza alla maturità, complice un quadro futurista che appare e scompare come traccia, spia di qualcosa di misterioso e indicibile. La stessa funzione allusiva che in questa storia ha il quadro, nell’ultimo racconto è affidata a una coppia formata da un elegante e maturo signore legato da un sentimento che si intuisce delicato e profondo a un giovane dagli occhi chiari. I due vivono insieme in una villetta di un quartiere residenziale di Zurigo, e il loro originale e ambiguo rapporto, fatto di dedizione e dolcezza, li rende simbolo di una nobiltà d’animo non sempre condivisa dagli altri abitanti della via, ponendoli su un piano di inavvicinabile superiorità. Non appartengono alla classe borghese i protagonisti degli altri due racconti del libro: Maia (una giovane che vive di fragili espedienti, vendendo oggetti usati al mercato delle pulci e affidandosi ad amicizie e amori instabili) accoglie con un’indifferenza quasi animalesca nella sua innocenza anche la nascita del suo biondissimo bambino, cui affibbia il nome pomposo e “remagesco” di Baldassarre: con lui tra le braccia riesce a trovare nella gelida Zurigo una culla di tepore nel giardino dell’Istituto di Agraria, ai piedi di un fico cresciuto quasi per miracolo o per sfida. Nel racconto forse più riuscito, L’astronave non atterra fra le capre, sono invece due immigrati – il greco Salonichì e il calabrese Squalo – a dover fare i conti con l’universo, per loro affascinante e incomprensibile, del consumismo svizzero, osservato dall’alto di un’astronave un po’ particolare: il camion della nettezza urbana, a cui restano appesi tutto il giorno, testimoni impietosi e arrabbiati della crudeltà cittadina, vittime di un progresso che li stritola insieme ai suoi rifiuti.

 

«Agorà» (Svizzera), 12 luglio 1989

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GARBOLI

CESARE GARBOLI, TARTUFO – ADELPHI, MILANO 2014

Carlo Cecchi, nella postfazione a questo volume che raccoglie alcuni saggi di Cesare Garboli su Molière, scrive: «… attraverso traduzioni, saggi, prefazioni, cronache teatrali, interviste, interventi radiofonici… Cesare Garboli si è fatto interprete accanito e quasi maniacale di Molière e ha fornito al teatro italiano dei copioni, nella presunzione che il teatro di Molière sia portatore di un sistema di idee, di un messaggio che ci è oggettivamente contemporaneo».

In Tartufo specialmente, commedia rappresentata nel 1664 e poi censurata, rielaborata, corretta per cinque anni, Garboli scopre una rappresentazione archetipica delle debolezze e dei fariseismi umani, estensibili a tutte le epoche e latitudini. In questo servo infido e scaltro, che ambisce a farsi padrone attraverso calcolatissime truffe, Garboli svela l’inganno eterno e diabolico del potere. E non del potere nato da privilegi di casta, bensì di quello sorto «dalla frustrazione, dal nulla, dallo zero sociale, in cui il massimo della malafede va a combaciare con il massimo dell’intelligenza».

Tartuffe (falso devoto, falso benefattore, falso amministratore, falso amante: conformista e servile, astuto e stupido, untuoso e strafottente), diventa l’emblema di chi sa camuffarsi per «scivolare nelle anime altrui», e assoggettarle. Quindi: preti, medici (e in specie psicanalisti), politici. Garboli scrive pagine feroci, utilizzando Molière e il suo personaggio più emblematico per stigmatizzare profumatissimi papaveri della cultura contemporanea «l’impostura di Lacan, sfuggente, misteriosa, e quasi necessaria all’intelligenza, diventa in Verdiglione un imbroglio miserabile…» che ritiene ambiguamente pericolosa, e asservita al potere. Caustico e severo, Garboli sferza gli intellettuali come eterni tartufi dell’ideologia dominante, chiedendosi però alla fine: «Chi è Tartufo? Un piccolo servo, o un giustiziere implacabile? Un miserabile truffatore, o la coscienza di tutti?»

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Tartufo-Cesare-Garboli.html    14 gennaio 2016

 

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GARCIA MARQUEZ

GABRIEL GARCIA MARQUEZ, DODICI RACCONTI RAMINGHI – MILANO, MONDADORI 2005

Questi splendidi  Dodici racconti raminghi (Mondadori, 2005) sono stati chiamati così perché scritti e pubblicati dal Nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez in epoche e luoghi diversi, lontani tra loro, e concepiti per motivi occasionali, traendo ispirazione in genere da fatti di cronaca in seguito rivisitati e nobilitati con una prosa asciutta ed elegante, e un’empatia ironica e insieme commossa.
Distanti da un certo compiaciuto barocchismo sudamericano che talvolta trapela dalle pagine dei romanzi maggiori, qui Garcia Marquez riesce a trovare un equilibrio perfetto tra distacco del narratore e coinvolgimento emotivo dello spettatore, evitando sempre qualsiasi retorica, qualsiasi pedanteria descrittiva.
I racconti sono del tutto disomogenei per gli ambienti e le località rappresentate, e questo forse ne sottolinea la particolare originalità: ci troviamo i Grand Hotels delle capitali europee come i bastimenti degli emigranti, l’aristocrazia intellettuale e il più umile proletariato suburbano, giornalisti e ambasciatori accanto a ruffiani, ladri e prostitute.
Così ci intenerisce la struggente storia della vecchia puttana comunista che insegna al suo cagnolino la strada per la tomba dove si farà seppellire sapendo che sarà l’unico a visitarla con rimpianto; ci turba la fine tragica e inaspettata della giovane, ricca e bellissima sposina durante il suo favoloso viaggio di nozze; ci sorprende la conclusione dell’estate fuori dagli schemi di una rigida istitutrice tedesca raccontata dai due turbolenti ragazzini che le sono affidati; ci angoscia l’equivoco pazzesco che condanna alla reclusione manicomiale una donna affacciatasi all’istituto «solo per telefonare».

Marquez è come sempre maestro nel fare delle vicende individuali dei suoi protagonisti un affresco corale, e nel trovare nelle abitudini locali di paesi diversi quello che li rende universalmente comuni: amore e morte, fede e superstizione, ingenuità e cattiveria. Perennemente in balia dell’imprevedibilità del caso o della crudeltà dei fenomeni naturali.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Dodici-racconti-raminghi-Gabriel.html

26 febbraio 2016

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GARDINI

NICOLA GARDINI, TRADURRE E’UN BACIO – GIULIANO LADOLFI, BORGOMANERO 2015

«Tradurre è cucinare…Tradurre è una corrente…Tradurre è uscire dal contorno…Tradurre è lasciar dire…Tradurre, infatti, è capire…Tradurre è fare rima…Tradurre è un atto critico…Tradurre è un atto mitico…Tradurre è un’alchimia…Tradurre è un’armonia…La traduzione è danza…La traduzione è sogno…La traduzione è un bacio…».

Sono alcune definizione che Nicola Gardini (poeta, narratore, critico, pittore, professore di letteratura comparata a Oxford e, appunto, traduttore) dà di quest’arte trascurata, mal pagata, contestata, che è la traduzione. Arte di per sé umilissima, perché mette il sordina la voce personale di chi la esercita dando invece voce a un altro da sé: «(La traduzione è un bacio. / E’ avere nella bocca / Non una, ma due lingue / Contemporaneamente)», e insieme superbamente presuntuosa, perché pretende di interpretare stili e sentimenti che non le appartengono: «(Tradurre per avere un solo punto / Da cui tenere tutto, / Suddiviso e congiunto. / Ricostruire l’ordine distrutto)».

Gardini ha scritto un centinaio di poesie (Tradurre è un bacio, edito da Giuliano Ladolfi) nell’arco di un mese, all’inizio del 2015, pressato dall’esigenza di comporre un omaggio in versi, e in qualche modo anche un pamphlet saggistico, in onore e difesa non solo della traduzione, ma anche del traduttore. Nella nota finale così argomenta la sua arringa poetica: «Tradurre si fa, è possibile, e va capito nella sua complessità umana, artistica e civile, e nella sua bellezza. Non ci sono, per me, schemi, griglie, ipotesi, ma solo prassi e stupori, e una molteplicità di punti di vista»,

Si traduce per amore, per volontà di conoscenza, con meraviglia nei riguardi della bellezza: «Io non ho lingua, io sto all’erta, / A bocca aperta, / Come i bambini quando nevica / O come il pesce»; «Non c’è, per quanto scaltra, / Parola sufficiente. / Può vincere sul niente / Se vive per un’altra». Si traduce per riempire i propri vuoti, per colmare le mancanze, per arricchirsi emotivamente: «Proprio non so la sete di cui vive / Questo mio cuore vuoto e, come il bruco / Che ha già finito il filo, ecco, traduco».

E Nicola Gardini ha tradotto tanto, già dall’adolescenza, scrittori antichi e contemporanei, greci-latini-tedeschi-francesi e soprattutto anglosassoni, incontrando i suoi poeti nei libri e di persona, mettendosi in competizione con altri traduttori, rivendicando orgogliosamente la legittimità artistica dell’interpretazione soggettiva, difendendo l’artigianalità raffinata del suo lavoro dai boriosi criticismi accademici. Ma anche proponendo un aspetto ludico e leggero della traduzione (come nel divertissement quasi scialojano L’uomo, in cui si interroga sulla capacità traduttiva degli animali). Difendendo l’uso della tanto bistrattata rima («La rima innanzitutto. / Dovunque e purchessia, / Non solo in poesia»). E contestando il luogo comune dell’isolamento del traduttore: «La gente crede che tradurre / Sia un lavoro solitario: / Tu e il dizionario. / Ma se è il massimo della compagnia! / Uno che ti insegna a produrre, / Uno che ti fa fare una poesia».

Insomma, questi versi di Gardini recitano una dichiarazione d’amore a un mestiere ingrato e appagante, duro e generoso, ingordo e delicato, come risulta evidente da questo ultimo esempio: «Per certi il paradiso è luce, / Per altri leggere da mane a sera…/ Per me la beatitudine vera / È un posto dove si traduce».

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Tradurre-e-un-bacio-Nicola-Gardini.html             20 febbraio 2016

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GARDINI

NICOLA GARDINI, IL LIBRO È QUELLA COSA – GARZANTI, MILANO 2020

Mi sono imbattuta nelle pagine de Il libro è quella cosa con tre anni di ritardo, e mi dispiace perché si tratta di un volumetto prezioso, da leggere e da regalare: ai bibliofili, anzi meglio, ai bibliomani. A tutte le persone che amano spiare nelle vetrine delle librerie, cercare le novità editoriali sui giornali, spulciare le recensioni, ascoltare le ormai rare trasmissioni radiofoniche e televisive che suggeriscono imperdibili tesori cartacei.

Nicola Gardini, nato nel 1965 in Molise ma cresciuto a Milano, professore di Letteratura Italiana all’Università di Oxford, autore di decine di volumi (poesia, narrativa, saggistica), ricercato traduttore dall’inglese e dal latino, appassionato sostenitore dell’importanza di studiare le lingue antiche, presidente della casa editrice Salani, e infine pittore, nutre un rapporto d’amore esclusivo, quasi ossessivo, forse addirittura feticistico per i libri. Si dichiara affascinato non solo dal loro contenuto, ma anche dalla loro forma esteriore: copertina, dorso, rilegatura, pagine, colore e odore. “Un libro è una cosa da avere; cosa con cui si abita e si viaggia, da cui magari alla fine ci toccherà separarci, ma che occorre far di tutto per conservare e tenere vicino”.

Gardini ammette di essere un acquirente compulsivo, attratto dai titoli, dalle immagini, e spinto al possesso dell’oggetto anche quando non gli è necessario. Confessa la sua dipendenza, quasi fosse una droga: “Quanti libri ho…? Io mi domando: quanti libri non ho?”. Senza nemmeno conoscere autori, argomenti e trame, compra e colleziona volumi, li accumula, li impila, se ne circonda ovunque, pur sapendo che mai arriverà a leggerli tutti. Diventano un alibi, un patto, una lusinga, un rammarico. “Il libro che si deve ancora leggere ci sta davanti con una promessa e con un rimprovero; e poi, se non ci decidiamo mai a leggerlo, con un rimpianto”. Perché ammassarli, allora, sapendo che non si arriverà nemmeno ad aprirli? “Che cosa ci fanno, infine, tutti quei libri sugli scaffali? Ci danno fiducia”. Viene da chiedersi cosa provochi la felicità di stringere tra le mani un volume appena acquistato, e perché tanta nostalgia per uno perduto, uno sulle cui pagine ci si è addormentati da bambini, un altro studiato con devozione al liceo. Gardini dà a sé stesso una spiegazione filosofica, ben sapendo quanto sia relativa: “un libro è l’unica cosa che non minacci di toglierci nulla”. Anzi, offre parole e insegnamenti, e accoglie le nostre annotazioni, date, sottolineature, ciò che verghiamo sulle sue pagine a matita, a penna, con l’evidenziatore, per farlo più decisamente nostro. Conserva all’interno bigliettini, cartoline, ricevute, fotografie dimenticate da anni: è un amico fedele, non butta via niente, ha una memoria di ferro e ricorda l’età in cui l’abbiamo letto. È uno specchio di noi, un diario implacabile.

Gardini racconta le relazioni che ha intrecciato con altre persone grazie ai libri: con la mamma che li nascondeva nell’armadio perché non si sciupassero, con il padre in pensione che glieli catalogava rimproverandogli lo spreco di denaro, con l’ex-insegnante malato terminale che svendeva la sua biblioteca per lasciare più soldi ai figli, con la cugina o i compagni di scuola che glieli prestavano. Lo scambio e il commento reciproco di letture crea una rete di rapporti che mette in comunicazione con la società, sopravvivendo anche alla messaggistica di internet e agli e-book, su cui il giudizio dell’autore è severo: “La comunicazione elettronica è rapida, distratta, imprecisa… estromette del tutto il ragionamento, la riflessione, il ripensamento, il piacere dell’immaginazione, la proiezione nell’altro, l’attesa, la considerazione di più possibilità, la sospensione fantastica”. Leggere è invece un’arte paziente, che si impara stando con le parole, innamorandosene, lasciandosi penetrare da esse, smarrendosi in loro, viaggiando con loro.

Una intensa dichiarazione d’amore espressa in paragrafi stringati, aforismi, citazioni, che Nicola Gardini rivolge a “quella cosa” che si chiama libro, in un’epoca come la nostra abituata a leggere poco e male, con superficialità e fretta, ignara della ricchezza a cui sta rinunciando.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 gennaio 2024

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GARLAND

HAMLIN GARLAND, L’AMORE È UNA STRADA SECONDARIA – ELLIOT, ROMA 2017

Hamlin Garland (18601940), romanziere e saggista statunitense, Premio Pulitzer nel 1922, conobbe nella prima metà del ’900 grande notorietà per i suoi racconti e romanzi ambientati nelle fattorie e tra i cercatori d’oro del Midwest americano. Fu tra i più apprezzati esponenti del naturalismo statunitense, corrente letteraria caratterizzata dall’interesse scientifico verso l’ambiente, dall’empatia per le classi lavoratrici, da uno stile chiaro e discorsivo teso a riprodurre il lessico popolare e dall’attenzione realistica per i particolari. Il libro che lo rese famoso fu Strade maestre del 1891, e proprio da questo volume le edizioni Elliot hanno tratto un racconto proposto nell’elegante collana Lampi, e intitolato L’amore è una strada secondaria.

Si tratta di una storia suggestiva e romantica, ambientata nella campagna assolata degli States di fine ottocento, con i cieli tersi e luminosi attraversati da falchi, merli e ghiandaie, tra covoni di paglia dorata, sentieri polverosi e boschetti di aceri, pioppi, querce. Uno sfondo che sembra preludere alle narrazioni di Faulkner e Steinbeck, soprattutto per la descrizione dei caratteri burberi e talvolta violenti degli abitanti. Contadini rozzi, braccianti incolti, fattori esigenti: «Erano individui grossi, muscolosi, sudici ma sani, che si nutrivano come gli antichi norvegesi ed erano capaci di lavorare come demoni». Tra loro ma ben diverso da loro, si muove il giovane protagonista Will Hannan che lavora nei campi osservando incantato le bellezze della natura, e cita il latino di Giulio Cesare e l’evoluzionismo di Darwin da assiduo e appassionato studente liceale nelle scuole serali del paese, deciso a proseguire negli studi di legge. Il racconto si apre con la descrizione del ragazzo che, in una serena mattina di settembre, canta «un’arietta popolare… con voce chiara e melodiosa»: è allegro, soddisfatto di sé e innamorato. La sua ragazza Agnes è bionda, dolce, compiaciuta (ma senza civetteria) di vedersi circondata da un nugolo di esuberanti ammiratori. I due innamorati (“Romeo e Giulietta nel villaggio”, per citare il famoso romanzo di Gottfried Keller di ambientazione simile), sono invidiati e presi in giro dagli altri lavoratori, con scherzi e motteggi che Agnes sa accettare con ingenua e innocente familiarità, ma che fanno infuriare il gelosissimo Will, pronto a sfidare a pugni i pretendenti più sfacciati.

Hamlin Garland si dimostra perspicace psicologo nel tratteggiare gli incubi rabbiosi che tormentano il ragazzo, i suoi esagerati sospetti, le sue paure di tradimenti a abbandoni, «la ferocia del selvaggio medievale che era in lui». Per un malaugurato equivoco, i due fidanzati non si raggiungono a un appuntamento, e Will, sentendosi ingannato, fugge lontano dal paese, abbandonando il lavoro, la scuola e l’amata. «Nel turbine delle passioni che lo stordivano, aveva una sola idea chiara: andar via, andare all’ovest, sottrarsi agli schemi e alle risate dei vicini, e farla finita di soffrire per tutto ciò». A prezzo di pesanti sacrifici, otterrà di fare fortuna in un altro stato, senza però riuscire a dimenticare Agnes. Tornando dopo sette anni, ricco e indurito, la troverà sposata con l’ammiratore di allora, madre di un bambino e costretta a una vita di fatiche e umiliazioni. Sempre innamorato e caparbio, le farà una proposta temeraria, aspettandosi da lei una decisione altrettanto coraggiosa e aperta a un futuro di riscatto: «Vedi il sole che splende su quel campo di grano? È là che ti porterò… fuori, al sole». Il racconto di Hamlin Garland, a dispetto di qualche ridondanza retorica e ingenuità espressiva, si offre nella sua naturale luminosità a testimoniare l’immiserito ambiente sociale e il conformismo mentale degli abitanti della provincia americana a cavallo tra 800 e 900.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/amore-strada-secondaria-Garland.html                  4 maggio 2017

 

 

 

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GARY

ROMAIN GARY, TEMPESTA – NERI POZZA, MILANO 2024

I sette racconti di Romain Gary, inediti per il pubblico italiano, che compongono il volume La tempesta, vengono definiti dall’editore “sfavillanti”, anche se in realtà sembrano più “strabordanti di un dolore antico”, con “la morte quasi sempre dietro l’angolo”, come scrive nella postfazione Éric Neuhoff. Composti nell’arco di decenni, dal 1935 fino al 1975, hanno attraversato l’intera e avventurosa esistenza dell’autore, prendendo spunto sia dalle sue esperienze militari e diplomatiche (presso l’Onu e a Los Angeles), sia dalla sua tormentata vita sentimentale.

Romain Gary, pseudonimo di Roman Kacew (Vilnius 1914Parigi 1980), scrittore, sceneggiatore, regista, aviatore e funzionario lituano naturalizzato francese, pluridecorato con la Legion d’Onore per meriti di guerra nelle Forces aériennes francaises libres durante la campagna contro il nazismo, ha vinto il Premio Goncourt nel 1956 e nel 1975. Dopo il suicidio della seconda moglie, l’attrice americana Jean Seberg, profondamente depresso, si è ucciso sparandosi alla testa. Dai suoi numerosi romanzi, spesso firmati con pseudonimi, furono tratti tre film di successo: Chiaro di donna, La vita davanti a sé e La promessa dell’alba del 2017, con Charlotte Gainsbourg. L’editore Neri Pozza sta meritatamente ripubblicando dal 2008 tutti i suoi romanzi, l’ultimo dei quali, Gli aquiloni, ha riscosso grande interesse da parte della critica e del pubblico.

Il titolo di questo nuovo volume, Tempesta, allude al clima incombente di tensione, sospetto e pericolo, ribadito dallo stile di Gary, conciso e talvolta datato nella forma (soprattutto nell’utilizzo di una terminologia “politically uncorrect”), e nelle trame sospese tra brutalità e dolcezza, indirizzate a conclusioni mai realmente definite.

Eccoli, quindi, i sette racconti, di cui due sono in realtà bozze inedite di romanzi incompiuti. Tempesta è anche il titolo del racconto di apertura. Su un’isoletta tropicale semideserta vivono da quattro anni il dottor Partolle e la splendida moglie Hélène, uniti più da una pigra abitudine di convivenza che dall’amore: “il sole tropicale aveva ucciso l’uomo che era in lui, l’amore in lei”. Improvviso e inquietante approda sull’isola, “nel tremolio di un’aria infernale”, uno sconosciuto dal fisico atletico e dagli occhi selvaggi, chiedendo del medico. Attratto da irrefrenabile sensualità, aggredisce brutalmente Hélène, che dapprima respinge la sua violenza ma poi gli si concede, mentre finalmente l’uragano tanto atteso si scatena in una pioggia torrenziale, metafora dell’agghiacciante rivelazione che il medico fa alla moglie sulla malattia di cui lo sconosciuto è infetto.

All’ultimo respiro è un testo più complesso, scritto originalmente in inglese, con evidenti richiami autobiografici. Il protagonista, un elegante cinquantenne ex militare, forse mercenario, aspirante scrittore e diplomatico, è ossessionato sia dall’età che avanza, sia dai fallimenti della sua vita violenta. Un pomeriggio entra in una steak house di Los Angeles, per trascorrere le ore che lo separano da un misterioso appuntamento. Qui si imbatte in una giovane barista-entraîneuse che tenta di sedurlo, ultimo allettante richiamo a una vita che sta per chiudersi drammaticamente. Il bilancio della sua esistenza è infatti totalmente negativo: “Nei miei anni di lotta e di battaglie, ho visto così tanti posti e così tanto mondo, ho ucciso così tante persone, e per così poco… persone uccise e fucilate, le case che avevo bombardato, i bastardi che avevo finito con le mie stesse mani. E tutto per niente”. Nel motel in cui ha prenotato una camera lo aspetta un killer professionista da lui stesso assoldato per l’esecuzione, ma chi si presenta per finirlo non è sorprendentemente la persona attesa.

I tre brevi racconti centrali (Geografia umana, Dieci anni dopo ovvero la storia più antica del mondo, Sergente Gnama), scritti tra il 1943 e il 1945, rievocano le imprese di guerra attraverso le voci corali dei piloti di una squadriglia aeronautica operante in Africa. Nei ricordi comuni dei reduci si affacciano volti e parole di commilitoni caduti, il paesaggio desertico con la sua fauna, la voce di un servitore nero che cantava in francese senza conoscere la lingua, aneddoti curiosi e considerazioni più malinconiche: “Tante speranze sono svanite, tanti sogni sono andati in fumo, tanti amici hanno tradito, non c’è più nulla di certo: il mondo stesso ha forse cambiato volto. Ma nel 1941 la speranza era viva, i sogni ardenti e puri…”

Il sesto racconto, Una donna minuta (del 1935), è più drammaticamente e ironicamente movimentato rispetto ai precedenti. Narra della giovane moglie di un ingegnere francese che raggiunge il marito durante i lavori di disboscamento della foresta amazzonica, portando con sé una quantità di bagagli, un cagnolino pechinese, il fonografo e molti dischi di svenevole qualità. I quaranta uomini dell’accampamento ne rimangono insieme abbagliati e infastiditi, assumendo nei suoi confronti atteggiamenti alternativamente protettivi e repulsivi. “Senza fare nulla di particolare, quella donna aveva fatto girare la testa a tutti. Perché era estremamente carina, con quel suo visino, il naso sempre arricciato e lo sguardo limpido”. L’infantile e ingenua curiosità della ragazza verso la natura selvaggia e i nativi Moïs del villaggio vicino, condurrà tutta la spedizione e lei stessa a un epilogo sanguinoso.

A chiudere il volume è un romanzo incompiuto, Il greco, risalente alla metà degli anni ’70, in cui la scrittura dell’autore si è resa più raffinata, avendo fatto tesoro di decenni di pregevoli esperienze narrative. Il protagonista Billy è un ex nuotatore di fondo americano, che vive in Grecia all’epoca della dittatura dei colonnelli, bazzicando una base aerea britannica frequentata da miliardari, armatori, collezionisti d’arte, dame dell’alta società: “gente che da cinquant’anni giocava a bridge con la storia… strani esemplari dell’era coloniale… completamente convenzionali o tipicamente eccentrici”. Billy si industria a vivere senza lavorare, trafugando statue, vasi e cimeli antichi in fondo al mare da rivendere al mercato nero. Il talento di Romain Gary si manifesta non solo nella vivacità dei dialoghi, nelle descrizioni degli ambienti e nella caratterizzazione fisica dei personaggi (dove un qualsiasi dettaglio si presta ad acute interpretazioni psicologiche), ma anche nella felice rappresentazione dei colori e dei profumi di cielo, mare, spiagge greci: “Sembrava che l’Egeo e il cielo non avessero mai sentito parlare delle nebbie, della luce soffusa in cui le onde e l’azzurro si fondevano in una specie di gigantesca confusione di confini indistinti tra l’acqua e l’aria; era un mare classico, se classicità significa precisione e chiarezza dei contorni”. Billy viene contattato da un misterioso giornalista inglese, che gli propone una missione segreta in appoggio alla Resistenza contro il regime dei colonnelli: nuotare per trenta chilometri fino a raggiungere l’isola di Dervos per fotografare il campo di concentramento in cui sono rinchiusi decine di prigionieri politici, sfidando i posti di vedetta e le mitragliatrici posizionate ovunque. Il racconto si conclude in maniera brusca, lasciando in sospeso sia l’azione intrapresa da Billy, sia il progetto di romanzo che Gary non porterà mai a termine, uccidendosi pochi anni dopo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2025

 

RECENSIONI

GATES-FRANCO

BILL GATES-MASSIMO FRANCO, SONO UN OTTIMISTA GLOBALE

IL SAGGIATORE, MILANO 2017

Le sei fotografie poste a conclusione del volume-intervista che Massimo Franco dedica a Bill Gates sembrano voler confermare le veridicità del titolo, Sono un ottimista globale: tutte ritraggono infatti l’ultramiliardario sempre sorridente, già da quella segnaletica scattatagli dalla polizia nel 1977 per violazione del codice della strada, fino all’ultima che lo immortala mentre il presidente Obama gli cinge al collo la Medal of Freedom nel novembre dell’anno scorso.
Un vincente assoluto, il ceo di Microsoft, che ama definirsi “innovatore radicale” nel colloquio avuto mesi fa con il giornalista del Corriere all’hotel parigino Four Season: né imperatore né rivoluzionario, ma intellettuale organico della globalizzazione, capitalista filantropo, campione della positività. Massimo Franco, nell’introduzione che riassume e commenta puntualmente l’ora di conversazione tenuta con l’uomo più ricco del mondo (novanta miliardi di dollari di patrimonio), ci dà di lui una descrizione accurata ed empatica: di una semplicità disarmante, vestito senza ricercatezza, concentratissimo in ogni risposta, schematico e preciso nell’esporre con voce metallica le sue tesi, oscillante sulla sedia in un dondolio continuo, abitudine che pare appartenergli dalla prima infanzia.
Bill Gates è nato a Seattle nel 1955 da una facoltosa famiglia di avvocati, ha abbandonato ventenne gli studi di legge ad Harvard per creare una propria società di produzione di software per computer, la Microsoft, che in breve tempo è divenuta leader mondiale nel campo dell’informatica. Nel 1994 ha sposato la sua collaboratrice Melinda French, da cui ha avuto tre figli: con lei ha fondato nel 2000 un’associazione benefica che si occupa di aiutare le popolazioni più svantaggiate del mondo. Nell’intervista concessa a Franco ripercorre le tappe significative della sua vita e tratteggia la propria visione ottimista e propositiva del periodo che stiamo vivendo, sottolineando il dovere che tutti abbiamo di guardare al futuro in modo costruttivo e fiducioso. Secondo Gates, negli ultimi vent’anni l’umanità ha compiuto progressi giganteschi nel combattere povertà, fame, analfabetismo, malattie, sfruttamento e schiavitù anche nei paesi sottosviluppati, e deve continuare a coordinare capitali e talenti intellettuali per progredire ulteriormente in questo senso, aiutata proprio dalla diffusione capillare della cultura digitale. Nella sua visione utopistica del futuro, non saranno le guerre diffuse ma controllabili, né l’immigrazione selvaggia (che se organizzata può anzi costituire un incredibile vantaggio per le nazioni occidentali avanzate) a costituire un pericolo universale, quanto piuttosto l’imprevedibile e poco arginabile propagarsi di epidemie, di virus e infezioni letali. Proprio per combattere questo pericolo, l’imprenditore ha deciso di investire in beneficienza (attraverso la Bill & Melinda Gates Foundation e il Global Fund) il 95 % del suo patrimonio, con l’obiettivo di sconfiggere malattie quali l’AIDS, la malaria e la tubercolosi, attraverso infrastrutture sanitarie adeguate e una corretta educazione sanitaria. Solo accelerando l’innovazione tecnologica, incrementando le tecniche agricole, ottimizzando l’istruzione si possono arginare i flussi migratori verso l’Occidente e convincere singoli e famiglie non abbandonare il loro paese d’origine. Gates confessa a Massimo Franco di essere rimasto traumatizzato nel 1993, durante un viaggio in Africa Orientale, dalla visione dell’estrema povertà di quelle terre, e di avere deciso allora di volersi dedicare all’encomiabile scopo di aiutare il terzo e quarto mondo a uscire dal suo stato endemico di deprivazione: supportato in questa sua decisione non solo dalla moglie, dai collaboratori e da altri generosi magnati americani, ma anche dalla lettura di libri illuminanti come quelli dello psicologo Steven Pinker, o di economisti, scienziati e mental trainer. Cambiare in senso positivo il proprio approccio alla quotidianità, impegnarsi con disciplina a migliorare se stessi, sforzarsi razionalmente e con volontà di raggiungere mete sempre più ambiziose, aiuta ad arricchire non solo la nostra individualità, ma anche il mondo che ci circonda.

 

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www.sololibri.net/Sono-un-ottimista-globale-Gates.html        18 aprile 2017
RECENSIONI

GENET

JEAN GENET, POESIE – GUANDA, MILANO 2018

Su Jean Genet si è scritto di tutto. Lui stesso ha scritto di tutto sulla sua vita memorabile, oscena, truffaldina, illegale, blasfema, autodistruttiva, vagabonda, fuori controllo. Nato a Parigi da padre ignoto nel 1910, affidato dapprima all’assistenza pubblica, quindi adottato da una famiglia contadina premurosa e attenta, già dall’infanzia manifestò atteggiamenti antisociali e ribelli, macchiandosi di piccoli furti ed esibendo provocatoriamente la sua attrazione per uomini più adulti, specialmente se violenti o emarginati. I frequenti arresti e la detenzione in diverse prigioni, cristallizzarono in lui sia le inclinazioni omosessuali, sia una morbosa fascinazione verso le manifestazioni di brutalità fisica.  Arruolatosi nella Legione Straniera, furono i paesaggi africani e mediorientali, e l’indigenza dei popoli oppressi dal colonialismo occidentale, ad acuire il suo già risentito disagio verso la civiltà e i costumi francesi. Tornato a Parigi, si avvicinò a posizioni filonaziste e collaborazioniste, diventando l’amante di un SS, e continuando a vivere di stratagemmi e di furti, soprattutto a danni di biblioteche, musei e negozi di antiquariato.

Negli anni 40-50, iniziò a pubblicare, spesso in forma anonima e clandestina, poesie (Il Condannato a Morte, 1942), romanzi (Il miracolo della rosa, 1944; Nostra Signora dei Fiori, 1946; Querelle de Brest, 1947; Diario di un ladro, 1949), opere teatrali (Le serve, 1947; I negri, 1958): testi ritenuti pornografici e iconoclastici, che gli procurarono successo e pesanti critiche, censure e prestigio. Apprezzati in particolare dall’intellettualità francese più impegnata, vennero celebrati per il loro ingenuo ma eversivo primitivismo da Jean Cocteau, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre. Proprio a quest’ultimo Genet dovette la sua consacrazione letteraria, determinata dalla pubblicazione del saggio Santo Genet. Commediante e martire, del 1952. In esso, Sartre innalzava a paradigma l’intera esistenza dello scrittore capace di trovare nella bassezza e nell’abbrutimento un’ascesi verso la libertà del pensiero e della creazione, persino contraffacendo la sua stessa biografia, in un camuffamento trasgressivo del guitto che brama fare di sé una leggenda vivente, un mito, e appunto un santo. Gli ultimi anni di Jean Genet furono votati alla lotta politica in favore dei movimenti progressisti e rivoluzionari: le Pantere Nere negli USA, i Palestinesi dell’Olp, la Rote Armee Fraktion, gli sfruttati e i diseredati. Visse deliberatamente ai margini della società, alloggiando in alberghi di quart’ordine, o facendosi ospitare da compagni di lotta in giro per il mondo: infine, debilitato dall’abuso di droghe e psicofarmaci, morì di cancro in un hotel parigino nel 1986 e fu sepolto per suo volere a Larache, in Marocco.

Il libro di poesie recentemente pubblicato da Guanda, con testo francese a fronte, raccoglie versi che si riallacciano ai temi della produzione narrativa e teatrale, fortemente ideologizzati in senso antiborghese e anarchico. La critica totale al sistema sociale dell’Occidente trova qui una corrispondenza formale sia nel recupero di toni classicheggianti, quasi barocchi, sia nell’approdo all’oniricità fantastica del surrealismo. La tensione provocatoria si esprime nella scelta di un linguaggio crudo, di. termini gergali, di descrizioni che rasentano l’oscenità: i sei poemetti presentati, quasi tutti in quartine regolari, spaziano nei contenuti dalle esperienze carcerarie all’amore, dalle descrizioni dei bassifondi al rifiuto di ogni convenzione sociale. Il primo poemetto, forse il più noto, è Il Condannato a Morte, del 1942, dedicato a un giovane e affascinante compagno di prigione, giustiziato nel ’39 nel carcere di Saint-Brieuc. L’attacco manifesta una luminosa e inquieta visionarietà, che spesso ritorna, con metafore ispirate soprattutto alla natura, nei versi successivi: «Il vento che trascina un cuore sul lastrico delle corti; / Un angelo che singhiozza impigliato su un albero, / La colonna azzurra inquadrata dal marmo, attorcigliata, / Nella mia notte fanno aprire uscite di sicurezza». Ma i momenti idilliaci vengono subito corretti da insistite metafore erotiche, da esplicite esaltazioni di genitali maschili, da descrizioni di amplessi violenti: «Adora in ginocchio, come alla gogna sacra, / Il mio torso tatuato, adora fino alle lacrime / Il mio sesso che urta colpendoti come un’arma, / Adora il mio bastone che adesso ti penetra».

La traduzione meditatamente intensa del curatore Giancarlo Pavanello ha scelto di rendere in maniera sobria ed equilibrata l’alessandrino molto ritmato e rimato dell’originale francese, che invece evidenzia una cadenza quasi ossessiva, come ossessivamente tornano immagini e concetti legati al desiderio sessuale, all’esplorazione dei corpi, alla volontà di possesso, nel dominio e nella sottomissione. Genet, nella costrizione di una cella, esplode in inni panici alla libertà e alla fisicità negate, con una sensualità rabbiosa e irrefrenabile: «Divaga, mia Follia, per la mia gioia partorisci / Un consolante inferno popolato di bei soldati, / Nudi fino alla cintola, in braghe resèda, / Butta i pesanti fiori il cui odore mi folgora. // Strappa da non si sa dove i gesti più folli. / Rapisci giovanetti, inventa torture, / Mutila la Bellezza, sfregia i volti, / E ai ragazzi da’ appuntamento alla Guyana»; «Incolla il corpo estasiato sul mio che muore / D’inculare la più tenera e dolce canaglia. / Palpando incantato i rotondi biondi coglioni, / Il piolo di marmo nero ti entra fino al cuore».

C’è sadismo e terrore, brama e cupio dissolvi, in queste poesie, che mantengono evidenti reminiscenze di Villon, Sade, Rimbaud, Artaud. Muri, passaggi sotterranei, brande, cancellate, sbarre sono gli elementi oggettivi degli interni, insieme al buio, al tanfo, alla nausea: l’esterno è parimenti minaccioso, con i cieli in tempesta, nubi, folate fredde di vento e il richiamo imperioso del mare. Nel terzo poemetto, La Galera, quello di Genet è tuttavia un mare letterario e antico, che ricorda molto Coleridge, popolato da velieri e ciurme, masnadieri e galee, stive e furfanteschi mozzi, nella memoria mai sopita di amplessi giovanili con esuberanti marittimi, già celebrati in Querelle de Brest (1947), mito omoerotico portato sullo schermo da Fassbinder nel 1982: «Un ragazzotto  ben piantato fra onda e vento / Con la bocca scheggiata dove spesso vedevo / Impigliarsi la pipa alle mie femminee sottane / Questo mino passava terribile fra le orifiamme… La testa mi si impantanava fetida, solitaria, / Nel fondo del mare del letto del sogno degli odori / Fino a non so quale assurda profondità».

Il fascino seduttivo dell’acqua torna nell’ultima composizione, Il pescatore del Suquet, dialogo amoroso dedicato all’innocenza impudica di un ragazzo posseduto tra i canneti di una spiaggia: «Intorno a lui il tempo, l’aria, il paesaggio divenivano incerti. Steso sulla sabbia, ciò che scorgevo fra i rami divaricati delle gambe nude tremolava. La sabbia conservava la traccia dei suoi piedi, ma conservava anche la traccia di un sesso commosso dal calore e dal turbamento della sera. Luccicavano i cristalli… Da quella notte amo il fanciullo malizioso, leggero, lunatico e vigoroso il cui corpo fa fremere, avvicinandosi, l’acqua, il cielo, gli scogli, le case, i ragazzi e le ragazze. E la pagina sulla quale scrivo». Poeta del corpo e della fame feroce di corpi, Jean Genet ha trovato la sua santità nella celebrazione del male, come scrisse Sartre, a cui abbandonarsi senza coscienza e senza resistenza. Voluttà di perdersi perfettamente espressa negli ultimi versi di questo libro: «Perché scorro via diventando palude / Dove la notte va a illividire i fuochi fatui / Lingua di fuoco che veglia il mio passaggio».

 

© Riproduzione riservata                        «Il Pickwick», 11 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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