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RECENSIONI

AIRA

CÉSAR AIRA, IL MARMO – SUR, ROMA 2014

Dovremmo sempre affidarci e fidarci dei consigli di amici più colti di noi, riguardo a letture da fare, musica da ascoltare, film da vedere. Un amico coltissimo, a me che lamentavo la banalità formale e contenutistica di troppi romanzi presenti sul mercato, ha suggerito di indagare tra i narratori argentini, citando in particolare César Aira. Aira è uno dei più famosi, originali e prolifici scrittori sudamericani, nato nel 1949 in provincia di Buenos Aires. Pubblica dai due ai cinque volumi all’anno, perlopiù racconti e romanzi brevi, ma anche commenti critici e traduzioni da diverse lingue. In un’intervista ha dichiarato di essere fedele da tre decenni allo stesso sistematico metodo di lavoro. La mattina scrive una sola cartella, seduto al tavolino del bar sotto casa, poi assembla i fogli e li consegna al suo piccolo editore senza rielaborarli. Ha uno stile particolarissimo, sperimentale e visionario nei contenuti, conciso e lineare nella forma, che utilizza sia il gergo sub-letterario delle soap opere televisive, dei fumetti, del pulp, sia la reinvenzione dei classici e la fantascienza, creando situazioni spesso illogiche e prive di una conclusione razionale, in un flusso di scrittura continuo ed esorbitante, eccitato, inventivo.

Il marmo, scritto nel 2009 e pubblicato in Italia da Sur nel 2014, ben esemplifica il carattere della produzione di questo narratore “estrovertito… debordante… conturbante”, come lo definisce nella prefazione Giuseppe Genna, giustamente intuendo nella costruzione del plot romanzesco un parallelo con la paradossalità kafkiana.

Il personaggio voce narrante è un sessantenne argentino corpulento, di salute cagionevole, disoccupato o in prepensionamento, sposato con un’attivissima e sfibrata psicologa che lo mantiene. Complessato dalla propria inattività lavorativa e inefficienza sociale, frustrato per la dipendenza economica dalla moglie, si rifugia in un mondo onirico, meditativo e auto-riflessivo, in cui le persone vive hanno lo stesso rilievo e importanza degli oggetti, delle immagini, della fantasia.

Il volume si apre sulla descrizione del protagonista che osserva se stesso seduto su un blocco di marmo, con i pantaloni abbassati, mentre si guarda cosce polpacci e genitali, traendone una sensazione di ilare conforto, quasi di felicità, nel constatare la materialità del proprio corpo: “in me era sempre vivo l’elemento animale, il dato biologico, la rappresentazione individuale della specie, un promemoria di potenza d’azione, una promessa di tempo e movimento… Basta così poco per sollevarci al di sopra del lavoro triviale e assillante di negoziare il giorno-per-giorno”. Nella volontà di ricordare il motivo per cui si trovava seduto sul blocco di marmo con i calzoni calati, e perché ne abbia derivato una tale sensazione di serenità, l’uomo cerca di ricostruire nella memoria attraverso quali azioni fosse arrivato a vivere quell’ inspiegabile circostanza. Ricorda quindi che il giorno prima, delegato dalla consorte a occuparsi della spesa settimanale, si era recato nel supermercato cinese del quartiere, e si era trovato a pagare il conto con due banconote.

L’uomo alla cassa, non avendo da dargli il resto, l’aveva invitato a servirsi di piccole cianfrusaglie tenute a disposizione dei clienti per saldare il credito. A caso, aveva scelto allora una serie di “mercanzie lillipuziane” assolutamente inutili: una confezione di pile AAA, un occhio di gomma che a schiacciarlo sprigionava una luce rossa, una tabella delle proteine, una forcina dorata, un cucchiaio-lente di ingrandimento, un anellino di plastica, una macchina fotografica grande quanto un dado e infine una manciata di globuli di marmo. Tutti questi oggettini, e in particolare le minuscole palline marmoree, avranno nel corso della narrazione un’importanza strategica, trasformandosi in chiavi per aprire le porte del mondo reale ed entrare nell’iperreale, in un continuo alternarsi di spazi temporali e di incontri con personaggi misteriosi. In particolare con un adolescente cinese di nome Jonathan che conduce il protagonista in una serie di imprese travalicanti il mondo terrestre per approdare tra gli alieni. Concorsi televisivi, compravendite di negozi, baratri che si aprono minacciosi sotto le case, luci e suoni allucinogeni si rincorrono in una mappa infinita e insensata di luoghi e contesti stranianti, di universi paralleli che i personaggi tentano vanamente di ricomporre, ma in cui vengono trascinati per poi perdersi. Fino alla conquista finale dell’unica realtà possibile: quella del recupero concreto del proprio corpo, da realizzare magari abbassando i pantaloni, e controllando che tutto sia a posto.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 25 ottobre 2022

 

RECENSIONI

AKBAR

KAVEH AKBAR, IL MIRACOLO – IL SAGGIATORE, MILANO 2025

Kaveh Akbar (Teheran, 1989) è un poeta ed editor iraniano-americano, autore acclamato di due volumi di poesie e di un romanzo (Pilgrim Bell, Calling a Wolf a Wolf, Martyr!) che hanno ottenuto premi e riconoscimenti internazionali. Si è trasferito negli Stati Uniti quando aveva due anni, crescendo tra New Jersey, Pennsylvania, Wisconsin e Indiana.

I dieci capitoli in cui si suddivide il suo ultimo volume di versi, Il miracolo, sono introdotti da un esergo che suona come un precetto: “Ogni testo che non è un testo sacro è un’apostasia”, ben esemplificante il senso dell’intera raccolta, tesa tra sacro e profano, ritualità religiosa e prosaicità quotidiana, memoria e profezia. L’abisso che separa il sovrumano dall’umano viene straordinariamente rappresentato dalla composizione che dà il titolo al volume, in cui l’arcangelo Gabriele inchioda lo “schiacciabile corpo” di un misero “analfabeta, solo e digiuno”, obbligandolo a diventare imbuto della volontà divina. Creatura miserevole, “grumo” che non sa né pregare né ribellarsi, vuoto di ogni verità, l’uomo è un essere piccolo, “formaggio su un cracker”, illuso di potersi salvare riempiendo il suo tempo “con padri, madri, amanti, lingue, droghe, soldi, arte, lode”. Ma destinato all’irrilevanza, al non ascolto, per cui crudele e inesorabile risuona la condanna meritata: “Gabriele non viene per te”.

L’aspirazione all’assoluto e la volontà ascetica di purezza si scontrano sia con la banalità della vita di ogni giorno, sia con il ricordo di un passato familiare inibente e sofferto: il poeta, scisso tra la fedeltà alla tradizione persiana e le tentazioni offerte dalla smaliziata mentalità occidentale, è consapevole che “La chiave, resa liscia per entrare in ogni serratura, non ne apre alcuna”.

Il contrasto tra ieri e oggi, arcaicità e modernità, è trasposto anche stilisticamente nell’alternarsi delle composizioni: il ritmo sincopato della frase e gli insistiti punti fermi che spezzano la continuità del discorso esprimono affanno, respiro che manca, timbro strozzato: “La lunga fessura nel mio muro. S’intreccia. / In una rete. La differenza tra. / Una vera voce e l’altro tipo. / Il modo in cui la sua aria vibra. / Attraverso te. Il modo in cui l’aria. / Vibra. La violenza”. Invece l’espressione armonica, cullante e carezzevole appartiene tutta al respiro calmo e confidente della preghiera del muezzin nella moschea ormai deserta: “La parola di Dio è una melodia, e melodia richiede ripetizione”. La Persia, nel ricordo di chi scrive, esibisce orgogliosamente la propria storia millenaria di magnificenza temporale e spirituale: “Il mio impero mi rendeva / felice perché era impero / e mio”, ma oggi è succube di forze militari disumane, distruttive: “I nuovi missili possono intercettare il battito del / cuore di una mosca / in cima a un mucchio di / macerie da 6000 miglia di distanza”.

L’esilio della famiglia Akbar negli USA diventa salvezza e castigo, con il padre despota infelice, che conosce solo l’inglese dei Rolling Stones, pieno di rabbia per aver perso la salute lavorando trent’anni in allevamenti di anatre, e sente se stesso e i figli brutti e scuri in un lindo paese di bianchi sopraffattori. Con la madre “così grossa e triste… grembiule imbrattato di farina”, angosciata per il figlio poeta, alcolizzato e omosessuale. Il fratello maggiore con cui condividere risate irriverenti durante la preghiera serale, inginocchiati sul tappeto, scissi tra devozione ed eresia, mentre i parenti rimasti in Iran vengono imprigionati e uccisi. Famiglia-trappola in cui non riconoscersi, famiglia da amare e rinnegare: “Riesco a fare. / Sparire. / Un’intera famiglia. Lo so. / Così tanti. / Sono stati orribili con te. / Ho dato a ciascuno. / Un numero”. Cosa rimane, dopo l’abiura delle origini? “Sottomissione, resistenza, resa”, “Abbiamo perso / tutto ciò / che bisognava perdere”, “Lasciami piangere il perduto”.

Non più iraniano, non ancora e forse mai americano, con il paese che gli ha offerto una nuova lingua, una diversa cultura, un lavoro prestigioso, stabilità matrimoniale, benessere economico, riconoscimenti e successo, Kaveh Akbar sente di avere poco in comune. Non l’etica, non la fede, non la visione politica: “Essere americano vuol dire essere? Cosa? / Un cacciatore? / Un cacciatore / che spara solo ai soldi. No, non ai soldi –/ ai soldi”. E si sente sempre nel mirino: “Nella sua scuola elementare in un sobborgo americano, / sulla maglietta di un bambino c’è scritto: / “Lo abbiamo fatto a Hiroshima, / possiamo farlo a Teheran!”

Solo un miracolo potrebbe ricomporre la frattura. Anche i riferimenti intellettuali citati nei versi riflettono una dicotomia insanabile. Ci sono Maometto e il Corano, la mistica sufi Rabi‘a al-Basri e Sant’Agostino, Seneca e John Donne, Gertrude Stein e Walter Benjamin: fonti di ispirazione che approfondiscono il baratro interiore, non aiutano a ricostruire. “Come vivere? leggendo poesie, / facendo respiri poco profondi, / centrifugando la lattuga”. Non basta, e il poeta iraniano-statunitense ne è consapevole: ““La sua illusione più inebriante – / che il male sia solubile nell’arte”.

L’uomo è piccolo, indifeso e irredimibile, “sputo nel fango”: “Io, uomo, sono ciò che non dico”. Qualcosa dice, in realtà, ed è un grido “Pietà. Pietà”.

 

«Gli Stati Generali», 3 dicembre 2025

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AKUTAGAWA

AKUTAGAWA RYUNOSUKE, LA SCENA DELL’INFERNO E ALTRI RACCONTI

ATMOSPHERE, Roma 2015

 

Akutagawa Ryunosuke, nato a Tokyo nel 1892 e morto per overdose da barbiturici a trentacinque anni nel 1927, era stato adottato dopo la nascita da una nobile e colta famiglia di samurai, a causa di una grave malattia mentale della madre. Di salute cagionevole, ebbe un’esistenza tormentata da frequenti crisi psichiche, che segnarono profondamente anche la sua pur ricca produzione letteraria. Akutagawa fu uno strenuo oppositore del naturalismo che dominava la narrativa giapponese di inizio Novecento, preferendo attingere nei suoi scritti ai temi fiabeschi dell’antico Giappone, e a tradizioni popolari reinterpretate in chiave moderna. Dalle sue novelle e dai romanzi sono stati tratti film di Kurosawa, Sydney Lumet e Martin Ritt.
La casa editrice romana Atmosphere propone ai lettori una raccolta di sedici racconti di questo ormai classico autore nipponico, parzialmente presentati la scorsa estate nella rubrica di Radio3  Ad alta voce: introdotte da brevi prefazioni di alcuni giganti della letteratura giapponese (Mishima, Kawabata,Tanizaki), queste storie mantengono dopo quasi un secolo un loro fascino gentile, impregnate come sono di un’atmosfera elegante e incantata.
Si tratta appunto di storie assimilabili ad antiche favole, in cui appaiono personaggi truci e violenti (veri orchi del male, stregonesche femmine ossute, fantasmi dell’oltretomba), insieme a generosi cavalieri dall’animo nobile, a leggiadre ed eteree fanciulle, ad animali parlanti. Angeli e demoni, inferno e paradiso, castelli e oscure prigioni, templi buddisti e chiese cattoliche, foreste minacciose e laghetti idilliaci: nello scenario di un Giappone antico, medievale, popolato da samurai e geishe, monaci e assassini. In Akutagawa la colpa non è mai imperdonabile, il peccato trova sempre un suo riscatto, il lutto e il dolore vengono alleviati da insperate, spirituali consolazioni.
Un ancestrale cristianesimo (preti, miracoli, resurrezioni, rosari, inferno e paradiso) si fonde con il buddhismo più rasserenante, che tutto giustifica e perdona con lievità: la crudeltà dei gesti e dei pensieri di alcuni viene vendicata dalla magnanimità e finezza del compatimento di altri. «Anche quando gli uomini credono di aver vinto una tentazione, non hanno in realtà perso qualcosa?»

Come suggerisce nella postfazione il traduttore Alessandro Tardito, in Akutagawa troviamo “un atteggiamento privo di obblighi moralistici”, che vede la sua massima espressione nelle frasi conclusive dei racconti, stemperate da ogni categoricità, mai perentorie, pietosamente constatanti la complessità dell’esistenza e della natura umana.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/La-scena-dell-inferno-e-altri.html         9 marzo 2016

 

 

RECENSIONI

ALCOTT

LOUISA MAY ALCOTT, LA TEIERA DI MRS. PODGERS E ALTRE STORIE DI NATALE

GARZANTI, MILANO 2025

 

Mi chiedo se oggi le bambine e le adolescenti tra i sette e i dodici anni leggano ancora la quadrilogia di Louisa May Alcott: Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I ragazzi di Jo, un classico della letteratura dell’infanzia, presente in tutte le librerie delle famiglie con figlie femmine. Noi eravamo tre sorelle, e ci passavamo le storie di Meg, Jo, Beth e Amy litigando sulle loro affinità con i nostri caratteri. Io, sessant’anni fa (ma come è possibile sia passato tanto tempo, senza che in pratica me ne sia accorta?) non ho mai fatto segreto delle mie preferenze. Jo, ovviamente, era la più amata, per la sua indipendenza, l’insofferenza dei ruoli, il desiderio di avventura. E poi Beth, così dolce e mite da palesare subito il suo destino di soccombente. Le altre due protagoniste mi sembravano più scontate e tradizionali, prevedibili nei comportamenti, nei desideri, nelle scelte di vita.

Se le nostre adolescenti non leggono più le vicende della famiglia March, trovandole lontanissime dalla loro sensibilità e dal loro mondo, il cinema internazionale continua però a recuperare il capolavoro ottocentesco, riadattandolo con nuovi maquillage. Forse dipende dall’attrattiva che il nome della Alcott mantiene tuttora (con il suo bagaglio di buoni propositi, di affetti parentali, di sana educazione e di valori rispettati) se Garzanti ha quindi deciso di proporre nella sua collana economica I piccoli grandi libri una raccolta di tre racconti della scrittrice americana ambientati durante le feste natalizie: La teiera di Mrs. Podgers e altre storie di Natale.

Louisa May Alcott (1832-1888) – figlia di un filosofo trascendentalista e di una attivista politica che si batteva per i diritti degli schiavi di colore –, visse con le tre sorelle in una comunità agricola del Massachussetts, studiando privatamente sotto la guida di eccezionali maestri come Ralph Waldo Emerson, Nathaniel Hawthorne e Henry David Thoreau. Per aiutare economicamente la famiglia si adattò a lavori molto umili, scrivendo nel poco tempo libero e impegnandosi nelle lotte abolizioniste e del nascente femminismo. Il successo letterario arrivò con la pubblicazione di Piccole donne nel 1868, seguito dagli altri tre volumi della saga familiare, ben presto tradotti in molte lingue con un successo crescente di anno in anno.

Il volumetto garzantiano propone tre racconti: La teiera di Mrs. Podgers, Il Natale di Tilly, Che cosa può fare l’amore. Il primo, che dà il titolo al libro, ha come protagonista la vedova quarantenne di un uomo anziano, severo e taccagno, che le ha lasciato in eredità una casa confortevole, “in ordine, luminosa e calda”. Dopo la morte del loro figlioletto, vive con una domestica e un inquilino, Mr. Jerusalem Turner, dall’animo semplice e generoso, che lentamente riesce ad aprirle il cuore verso chi si trova nel bisogno, in particolare nei riguardi dei bambini abbandonati. Non solo Mrs. Podgers si lascia convincere ad accogliere presso di sé un orfano intirizzito e denutrito, ma allestisce per lui e i suoi piccoli amici una grande festa di Natale, con regali, dolci, canti e giochi per rendere quella giornata la più felice della loro triste esistenza. Verso sera, ritornata la calma e l’ordine nell’appartamento, il maturo inquilino rivela con parole tenere e appassionate il proprio amore alla vedova troppo rigida con se stessa, che finisce per cedere, mostrando maggiore indulgenza verso i propri simili. Sulla teiera d’argento che troneggia nel centro del tavolo è incisa la frase “Coloro che danno ai poveri prestano al Signore”, rivelatrice di una grande verità: “la carità, l’innocenza e la gioia sono le forti e dolci virtù che benedicono e abbelliscono il mondo”.

Se la fiaba di Louise Alcott può apparirci oggi edulcorata e volutamente edificante, dobbiamo contestualizzarla non solo nell’epoca in cui fu scritta, ma proprio nella disposizione pedagogica dell’autrice e nel suo carattere di partecipe generosità verso il genere umano. Anche gli altri due racconti si muovono sulla stessa linea di pensiero del primo: sempre attenti alle figure femminili, tanto accuratamente esplorate nella produzione letteraria della scrittrice americana. Il Natale di Tilly narra di tre compagne di scuola – Kate, Bessy e Tilly – che aspettano il Natale con umori diversi. Tilly è poverissima, sa che non potrà ricevere alcun regalo, né godere insieme alla mamma di un pranzo abbondante. Ma è l’unica delle tre a soccorrere un pettirosso ferito semicoperto dalla neve. Il suo gesto pietoso verrà insperabilmente ricompensato dalla munificenza di un ricco vicino, il quale regalerà a madre e figlia “una gran pila di legna da ardere pronta all’uso. C’era anche un gran fagotto e un cesto con un meraviglioso mazzo di rose d’inverno, di agrifoglio e di sempreverdi legati fra loro… e sui fiori c’era un bigliettino che diceva: «Per la ragazza che ama il suo prossimo come sé stessa»”.

In Che cosa può fare l’amore sono ancora quattro sorelline, orfane di padre, alle prese con le aspirazioni a un’esistenza più agiata economicamente e con il rammarico per la sconfortante indigenza che non concede loro di festeggiare il Natale come vorrebbero. Sarà di nuovo la benevolenza dei vicini, inaspettati angeli scesi dal cielo per portare serenità alle ragazzine, ingiustamente provate da molte avversità, a regalare loro la gioia di una festa lieta e rimunerante. Chissà, forse all’epoca di Louisa May Alcott i vicini non erano così lontani come adesso…

 

«La Poesia e lo Spirito», 6 dicembre 2025

RECENSIONI

ALVI

GEMINELLO ALVI, ECCENTRICI – ADELPHI, MILANO 2015

«Gli ingenui ritengono che la propria biografia consista in un racconto di sé o peggio in un tirar fuori i propri sentimenti, come se il meglio di noi, nostro io più alto, consistesse in un raffinamento interiore. Questa pessima mistica trascura che sono gli eventi, quanto è esterno al corpo e alle anime, la vera materia nella quale l’io di chiunque viene tessuto. E perciò i più autentici e migliori libri autobiografici sono, per un solo apparente paradosso, dei libri di biografie altrui».

Questa che parrebbe una vera e propria dichiarazione di principio, Geminello Alvi la confina nell’ultima delle vite raccontate in questo interessante volume adelphiano, Eccentrici. Quindi, se dovessimo basarci su tale affermazione, ecco che le 42 biografie proposte dall’illustre economista diventerebbero in qualche modo autoritratti, magari parziali, magari informali, ma pur sempre riflettenti qualcosa di chi li ha tracciati. E in effetti, Alvi non riesce a celare la sua simpatia per i personaggi di cui racconta l’esistenza: tipi strani, estrosi, “eccentrici” appunto, cioè lontani non tanto dal centro (sono quasi tutti noti al pubblico, se non addirittura famosissimi), quanto da ogni aurea mediocritas, da qualsiasi livellante conformismo.
L’elenco dei protagonisti compreso nell’indice ad apertura del libro non segue nessun ordine, né alfabetico né cronologico, spaziando in luoghi ed epoche diverse. Ad ogni nome, l’autore affibbia una definizione, talvolta puramente denotativa (George Trakl, poeta), altre volte fuorviante o ironica: Keaton, imperturbabile; Andersen, ispirato; Salgari, orientale; von Stroheim, bugiardo; Legrand, lussurioso; Bordiga, settario; Artusi, benefattore…
Cosa racconta, Geminello Alvi, di questi signori (solo tre sono donne)? Fatti. Azioni. Peripezie. Viaggi. Fortune o disgrazie economiche. Matrimoni. Lutti. Tradimenti. E attraverso gli episodi salienti che hanno segnato le loro vite, ricostruisce e ci restituisce pregi e difetti, inclinazioni caratteriali, propensioni culturali e politiche. Così veniamo a conoscere insopportabili vezzi di qualche celebre attore, ammiriamo la nobiltà d’animo di un monaco buddhista nel Giappone del dopoguerra, deprechiamo le bassezze di un malandrino nel Nebraska dell’800, o ci interroghiamo stupiti sulle doti soprannaturali di una mistica tedesca degli anni ’30.
In questi medaglioni, scritti per lo più in terza persona, più raramente rivestendo i panni del protagonista, Alvi utilizza un linguaggio raffinato, orgogliosamente démodé, in uno stile che rimane sempre asciutto, monocorde e distaccato, sia quando descriva efferatezze sia quando celebri comportamenti elogiabili.
Cronista imparziale di vite vissute eccentricamente, l’autore sa che in ognuna di esse si confonde l’aspetto pubblico e quello privato, il volto e la maschera, l’indole naturale e il ruolo costrittivo: convinto che in generale gli esseri umani siano «persuasi che la vita sia improba recita, eppure intenti a recitarla con decoro»

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Eccentrici-Geminello-Alvi.html     9 febbraio 2016

RECENSIONI

AMBROSI

ROSANNA AMBROSI, I BAGNI DI CALDIERO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1991

Rosanna Ambrosi, veronese emigrata in Svizzera a vent’anni, ben conosciuta nel mondo dell’emigrazione italiana per il suo impegno culturale e politico a favore degli stranieri, ha pubblicato in dicembre presso le Edizioni Casagrande di Bellinzona un romanzo-diario, I bagni di Caldiero, in cui ripercorre anni e atmosfere comuni al ricordo e alla sensibilità di molti di noi. Con tratto leggero e piacevolezza di stile, la Ambrosi recupera il rapporto doloroso ma fecondo che la legava ai genitori: una madre repressa e repressiva, dolente e pudica, che mai neanche in punto di morte riesce a trovare il modo di comunicare con la figlia al di là delle convenzioni, e un padre più amato, se non altro per l’aura di mistero che avvolgeva i suoi anni giovani, passati in carcere per attività antifascista. La bambina Rosanna viene fatta rivivere nella sua selvatichezza istintiva di animaletto mai del tutto addomesticato, impaurito e pronto a mordere: si veste da maschiaccio ma è affascinata da ogni preziosismo e raffinatezza femminile (appena accennato, ma intenso, è il richiamo subìto dall’elegante figura della nonna materna, che, sola, la sa introdurre ai misteri incantati della fiaba e della poesia); patisce presto il richiamo imperioso del sesso, occultato ferocemente da cattolicissimi sensi di colpa; conosce l’umiliazione di frequenti rovesci di fortuna della famiglia, il confronto penoso con ambienti più ricchi, più colti, più raffinati. Dapprima Verona, in seguito Padova, provinciali nella loro affettazione pseudoculturale, offrono alla sua adolescenza inquieta uno sfondo solidamente tradizionale su cui formarsi e affinare le armi per le prime, importanti, ribellioni. E’ l’incontro con Bernardo, poeta comunista più anziano ed esperto di lei, ad agire come miccia, a far esplodere i contrasti fino ad allora censurati in famiglia. Questa lunga e meticolosa carrellata di avvenimenti del passato, ripercorsi da una memoria mai ironica o risentita, a tratti anzi troppo lucida e distaccata, vengono inframmezzati da pagine diaristiche (esternamente rese riconoscibili anche da un diverso carattere tipografico) “al presente”, in cui Rosanna Ambrosi ormai adulta, divorziata e madre di due problematici adolescenti, si analizza e ridiscute i ricordi alla luce dei loro sviluppi concreti; racconta l’agonia dei genitori e, con essa, la morte, la non recuperabilità di una parte di sé; si giudica come madre, moglie, ex moglie, tenendo però sempre a bada la sua sofferenza, non scoprendosi mai troppo nelle fibre più intime: forse proprio perché finisce per “raccontarsi” eccessivamente negli accadimenti esteriori. E’ un po’ come se a noi lettori venisse proiettato sotto gli occhi il veloce film di una vita: un film girato con competenza e completezza, ma senza primi piani, senza pause per la riflessione. Un esempio tra i tanti, queste poche righe, liquidatorie, sul funerale della madre: «Infilata la cassa nel loculo, dei muratori l’hanno richiusa alla meglio. Più tardi vi verrà applicato un marmo. Mi faceva una ben strana impressione vedere murare mia madre».

Il linguaggio è pulito, lo stile scorrevole: e oggi poter scrivere ciò è già moltissimo. Ma se la sofferenza e la gioia fossero state in grado più spesso di aprire squarci, buchi neri, bagliori accecanti nelle pagine e nel lettore, Rosanna Ambrosi ci avrebbe fatto un dono migliore.

 

«Eco di Locarno», 22 febbraio 1992

RECENSIONI

AMBROSI

ROSANNA AMBROSI, GOMITOLI – HIBISCUS PRESS, ZURIGO 1991

Rosanna Ambrosi è arrivata a Zurigo dal nativo Veneto nel ’64, e da allora si è sempre occupata con competenza e dinamismo dei problemi dell’emigrazione, come insegnante e funzionaria sindacale. A tutt’oggi è membro eletto di due commissioni miste per i problemi degli stranieri nella città di Zurigo. Traduttrice e giornalista part-time (ricordiamo le sue collaborazioni ad Agorà nella rubrica «camera con vista»), per breve tempo ha tentato anche l’impervia via dell’editrice in proprio, coltivando sempre -al di là di tutte queste attività- l’ambizione e la passione per la scrittura. Con la poesia si era già cimentata una decina di anni fa, nel volumetto Diario discontinuo, in cui era pressante la materia esistenziale cui dare forma, ancora un po’ acerbo ma curioso di nuovi timbri risultava lo stile, febbrilmente franto in una ricerca non sempre coerente e rigorosa di suoni, e segni, e immagini a metà tra la post-avanguardia e un ungarettismo di maniera. Nel volume di versi che ha dato recentemente alle stampe (Gomitoli, Hibiscus Press), Rosanna Ambrosi è riuscita ad asciugare le più vistose sbavature di quella prima produzione, anche se talvolta persiste nel gusto per lo sperimentalismo più datato, con una consapevolezza che rasenta il masochismo: «Sì, lo so / spesso / scivolo nel banale // continuo a scivolare / in questo cunicolo / sdrucciolevole // chi verrà a ripescarmi / mettendomi manette ai polsi?».

I gomitoli del titolo sono composti da tanti fili (visioni, ricordi, emozioni), che indicano strade percorse e interrotte, rapporti intrecciati e strappati, matasse di vita da dipanare e ricomporre nella speranza di recuperare il bandolo iniziale, di cui servirsi per disegnare un arazzo armonioso: «riarrotolare / lentamente // (con pazienza) // i gomitoli interiori». Il più vivo tra questi «momenti di grazia poetici» mi pare quello rappresentato dall’ottava sezione di un breve poemetto senza titolo, che ha qualche cadenza montaliana: «finalmente / li trovammo / tutto un gruppo – una famiglia / non proprio porcini / ma parenti // bellissimi // li guardammo a lungo / con amore // decidemmo di lasciarli crescere / ancora un po’ // quando ripassammo / erano marci di pioggia».

Ma altri ancora si potrebbero citarne, di particolarmente felici, non tanto quelli in cui l’elegia è più spiegata e distesa, al punto da rasentare la retorica, quanto quelli più ironici e autoironici: «grande capacità / di fare / cose / alla rovescia / figli-lavoro-università»; «tre / quattro / cinque / (a volte sei-sette) / persone diverse / mi coabitano dentro // spesso / mi danno tutte fastidio».

Stilisticamente c’è da rilevare una propensione, non sempre formalmente giustificata, al pastiche linguistico, all’uso indifferenziato di francese, inglese, tedesco, lingue che certo contribuiscono a creare un’atmosfera di estraniamento e di sospensione del lettore, e che tuttavia non bastano da sole a fare poesia; un’evidente inclinazione all’uso-abuso degli avverbi, spesso tra parentesi, con l’esplicito proposito di riprodurre nei versi la prosaicità colloquiale di una poesia narrativa e “bassa”; la tendenza mediata ancora dal primo Ungaretti ad abolire qualsiasi segno di interpunzione, rime e metrica, in versi che si riducono per lo più ad un’unica parola e rifiutano quasi del tutto la coniugazione del verbo, come in questa poesia dell’ 80, una tra le migliori del libro: «al lume di una / candela / (una sola) // per / vedere meno // per lasciare / più spazio».

 

«Agorà» (Svizzera), 30 gennaio 1991

RECENSIONI

AMÉRY

JEAN AMÉRY, RIVOLTA E RASSEGNAZIONE – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2023

Assistiamo da un po’ di anni alla celebrazione e autocelebrazione della tarda età. Osserviamo anche l’inamovibile occupazione di ruoli istituzionali di altissimo prestigio da parte di ottantenni e novantenni, insieme alle performance artistiche, sportive, sentimentali e sessuali di chi si avvicina trionfalmente al secolo di vita. Rispolverando le quattro idee portanti del De senectute ciceroniano, diversi autori firmano articoli, saggi e volumi che esaltano i lati positivi dell’invecchiamento. Per questo mi sembra salutare rileggere le pagine che Jean Améry scrisse in Rivolta e rassegnazione, affermando schiettamente che l’essere anziani è triste, difficile, frustrante. In una parola: brutto.

Améry (Vienna,1912 – Salisburgo,1978), nato da famiglia di origini ebraiche non praticante, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938, emigrò in Belgio unendosi alla Resistenza. Nel 1943 fu arrestato e torturato dalla Gestapo, quindi deportato ad Auschwitz e poi a Buchenwald e a Bergen-Belsen, dove venne liberato dall’esercito britannico il 15 aprile 1945. Trasferitosi a Bruxelles, pubblicò numerosi volumi su temi etici e filosofici, tra cui il più famoso rimane Intellettuale a Auschwitz. Morì suicida, e proprio sul finis vitae e la morte volontaria si era espresso laicamente sostenendo tesi scomode e molto discusse.

In Rivolta e rassegnazione, uscito in Germania nel 1968, in Italia tradotto e riedito più volte dal 1988 a oggi, lo studioso austriaco demolisce ogni falsa illusione, ogni consolazione retoricamente attribuita alla vecchiaia, che se in passato godeva ancora di rispetto e venerazione perché considerata portatrice di sapienza e autorità, adesso viene esplorata dal punto di vista sociale e medico nei suoi reali effetti di impoverimento fisico e mentale. “Tutti i mezzi raccomandati su come sia possibile accettare, addirittura attribuire valore al declino – nobiltà della rassegnazione, saggezza crepuscolare, tarda pacificazione – mi parevano ignobili inganni, contro i quali si doveva mobilitare ogni parola”.

Il primo, intenso e acuto capitolo introduttivo dedicato al concetto di tempo (“è il nostro nemico giurato e il nostro più intimo amico, l’unica cosa che possediamo in esclusiva totale, ciò che non siamo mai in grado di afferrare, il nostro tormento e la nostra speranza”) indaga l’essenza del tempo personale, interiore, vissuto nella quotidianità, in relazione con il tempo misurato dall’orologio e dal calendario, esterno, collettivo e storico. Il primo può essere segnato dalla noia, dall’esaltazione, dalla fretta, il secondo è implacabile, scorre nell’unica direzione di un futuro che rimane come prospettiva aperta per il mondo, ma va inesorabilmente chiudendosi per l’individuo singolo. Dallo “scatenato galoppo” vissuto nella giovinezza, si passa al “regolare piccolo trotto della maturità” e allo stanco trascinarsi degli ultimi anni. Se il giovane si proietta nel domani e nello spazio che gli si apre intorno, il vecchio vive le sue giornate interiormente, consapevole di quanto siano limitate quelle che gli restano da godere. Il suo è un tempo de-spazializzato, di attesa, di cui avverte pienamente l’irreversibilità, sapendo che presto il suo corpo non occuperà più nessun posto nell’esistenza concreta degli altri. Per lui il tempo torna ad avere senso solo nella memoria del vissuto, cronologicamente confuso, per cui “cinque anni fa” valgono quanto “vent’anni fa”, recuperabili entrambi solo nell’intensità del ricordo di avvenimenti fondanti, incisi nella gioia o nel dolore.

Il testo di Améry esamina il modo in cui la persona anziana trascorre gli anni che la separano dalla fine: diventando estranea a sé stessa, senza riuscire a trovarsi più in sintonia con la società che cambia, patendo lo sguardo indifferente e spazientito degli altri, vivendo con/per il morire.

Attraverso una lente lucidamente severa, l’autore racconta di come il senescente si osservi nel decadimento del corpo, arrabbiandosi con le rughe del viso, la presbiopia e la sordità, i muscoli non più tonici, la caduta di denti e capelli: “misera gamba, disobbediente cuore, stomaco ribelle: a me fate male, nemici, a me, che vorrei palparvi e proteggervi e compatirvi e al contempo strapparvi dal mio corpo, sostituirvi”. In una società che impone all’individuo di rimanere sano ed efficiente fino alla morte, agli imperativi esterni si somma anche l’umiliazione di chi si sente sempre più fragile e snervato. E gli altri (i figli, i nipoti, i vicini) con che indulgenza guardano le teste incanutite? Non le guardano, semplicemente. Le trovano imbarazzanti, perché riflettono un futuro problematico, di sofferenza, e di inutilità attuale. Viene in mente quello che ci hanno tramandato Strabone ed Eliano, (e ricordato da Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali), sulla legge in vigore nell’isola di Ceo, che obbligava gli anziani a suicidarsi con la cicuta, compiuti i sessant’anni, in quanto considerati di peso alla comunità. Qualcuno sorrideva, durante la recente pandemia del Covid, riflettendo sui risparmi dell’INPS nell’elargire pensioni…

L’individuo che invecchia, persino se ha avuto un’esistenza felice, ricca di soddisfazioni morali e successi finanziari, si ritrova comunque perdente, perché “il suo agire è già stato quantificato e soppesato” dall’ economia di mercato e del profitto. Ha prodotto, è stato utile, è vero: ma non produce più, non serve più. Le jeux sont faits.

Un numero sempre più consistente di “âgées” si ribella, vuole continuare a competere, va in palestra, si trucca, ricorre a diete e alla chirurgia estetica; altri si rassegnano, accettando con dignità il tramonto, l’inattività, la solitudine. In questo caso rischiano però l’arroccamento in un privato sempre più ristretto ed egoistico, il rifiuto snobistico di ogni novità, la retrograda ostinazione nel considerare il mondo irritante e incomprensibile, arrivando così a un’inevitabile alienazione culturale. Sebbene nel subconscio ciascuno di noi sia convinto della propria immortalità, come affermava Freud, il confronto con la grande nemica, l’innominabile falciatrice, diventa più pressante e minaccioso con l’avanzare degli anni. Per quanto cerchi di allontanarne l’idea, il vecchio sa di essere un moribundus, e come tale è preda di angosce e paure, vive in equilibrio precario, in “un’aspettativa vuota e fallace”, tormentata dal pensiero di quando e come arriverà il momento fatale. Jean Améry ha deciso di sceglierlo autonomamente, seguendo l’ammonimento nietzschiano del Crepuscolo degli idoli: “Si dovrebbe, per amore della vita, volere una morte diversa, libera, consapevole, senza alcunché d’improvviso”.

C’è chi non accetta la calata definitiva del sipario, soffre, si dispera: “Tutti i miei dominii per un attimo di tempo”, sembra siano state le ultime parole di Elisabetta I d’Inghilterra. Ma ‘a livella è decisamente democratica, non conosce privilegi.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 12 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ANDERS

GÜNTHER ANDERS, AMARE. IERI – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2004

Una sorta di diario steso in tre anni (dal 1947 al 1949) vissuti da Günther Anders nell’esilio newyorkese, per salvarsi dalla persecuzione nazista. Da incontri casuali, lezioni universitarie, riflessioni sull’arte e la letteratura, discussioni con amici e intellettuali, ma soprattutto da riflessioni personali (spesso angosciate o addirittura risentite) il filosofo tedesco trasse una metodologia antidogmatica di pensiero, “segnata dal rifiuto di ogni vincolo mondano e trascendentale, di ogni mito di progresso, di ogni pathos ontologico, di ogni falsa socialità”, come commenta nella postfazione a questo volume Sergio Fabian. Isolato, controcorrente, moralista, libertario e paradossale, Günther Anders anche in questi appunti occasionali e talvolta poco obiettivi, si mostrava radicalmente critico nei riguardi della modernità, intesa come acquiescenza al conformismo, ignavia, superficialità. La sua indagine contrastava polemicamente la negazione del sentimento, come è stata indotta dalla cultura pseudoscientifica e tecnicistica del ‘900, a parole indirizzata verso la liberazione delle coscienze e dei comportamenti umani, in realtà volta ad irretire soggetti inconsapevoli, rendendoli docilmente sudditi. Da un secolo viviamo, secondo Anders, in un universo eterodiretto, presi in giro da chi vuole distoglierci dalla storia, chiudendoci in un egotismo esibizionista. Espressioni di fuoco sono quindi riservate alla psicanalisi, “megafono delle potenze conformanti”, che vuole renderci tutti sani, vitali, efficienti, privi di complessi, ben funzionanti nella sessualità e nella produttività: togliendoci mistero e delicatezza, attenzione per l’altro e tenerezza: “Non c’è più alcun buco della serratura, perché non c’è più bisogno di chiavi. Non c’è più bisogno di chiavi, perché non c’è più la porta. Non c’è più la porta, perché la camera buia di ieri è oggi uno spazio come un altro”. Questo scriveva nel 1950. Fosse vivo oggi, tra grandi fratelli e isole dei famosi…

IBS, 17 luglio 2014

RECENSIONI

ANDERS

GÜNTHER ANDERS, L’ODIO È ANTIQUATO – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2006

L’odio è antiquato, non ha più alcun senso e utilità nel mondo contemporaneo dominato dalla tecnocrazia e “dalle leggi asettiche e fredde della coppia produzione-consumo”. E’ antiquato come l’amore e ogni sentimento semplicemente umano, divenuto superfluo per la sua non sfruttabilità. In questo acuto, intransigente e disperato libro, commentato intelligentemente da Sergio Fabian, Gūnther Anders (1902-1992), filosofo ebreo radicale e pensatore fuori dagli schemi, analizza questa antica disposizione dell’anima a partire dalla sua definizione: “L’odio è … l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro”. Nel momento in cui però l’altro non viene più conosciuto, è insieme troppo prossimo e vicino, e assolutamente distante e indistinguibile, ecco che l’odio perde ogni giustificazione. La guerra non viene più combattuta corpo a corpo, in un faccia a faccia crudele e sanguinario col nemico, bensì manovrando strumenti asettici, schiacciando innocentemente bottoni da una qualsiasi sala operativa, come fa l’operaio alla catena di montaggio, che rimane ignaro e inconsapevole del prodotto finale a cui lavora: così i soldati di oggi possono sterminare milioni di vite senza provare alcun odio, senza conoscere le loro vittime e il motivo reale per cui uccidono. Il nemico diventa succedaneo, interscambiabile, indotto da un potere per motivi per lo più inconfessabili, “con la demonizzazione di un qualche tipo, di un gruppo, preferibilmente di una minoranza inerme”: può essere l’ebreo, come il vietnamita o l’iracheno. L’odio si concretizza come ubbidienza a un canone interpretativo della realtà, nei confronti del “diverso esistenziale”, ma non ha più un oggetto concreto contro cui indirizzarsi, è smisurato e indifferenziato, astratto e reificato. Il Filosofo nel dibattito con il Presidente l’ha ben compreso: “Perché l’onestà percepisce la bassezza. Ma non il contrario”.

 

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www.sololibri.net/L-odio-e-antiquato-Anders.html       13 agosto 2017

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