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KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, IL SUONO DELLA MONTAGNA – BOMPIANI, MILANO 2002

Il suono della montagna (Bompiani, 2002) è un romanzo che non esce dai confini della famiglia, e dai tesi rapporti che si instaurano all’interno di essa, mantenendo nel corso di tutta la narrazione un suo ritmo pacato e lineare, risolto in frasi brevi ma non perentorie, bensì modulate quasi seguendo la pudica circospezione con cui i personaggi esprimono i loro sentimenti. I dialoghi sembrano alludere a emozioni taciute o rimosse; le descrizioni attente, eppure mai troppo dettagliate o pedanti.
È lo stile magistrale del grandissimo Yasunari Kawabata, qui esibito in una delle sue rese migliori: la trama, ridotta a scarni e poco più che banali avvenimenti, viene messa in secondo piano dalla delicatezza con cui lo sguardo del narratore si sofferma sulle sfumature di gesti, discorsi, moti dell’animo dei protagonisti.
Shingo è un professionista sessantenne, che negli anni ’50 vive in un sobborgo di Tokyo con la sua famiglia. Si trova a fare i conti sia con l’invecchiamento fisico (sordità, insonnia, cali di memoria), sia con la trasformazione dell’ambiente che lo circonda (perdita di parenti e amici, problemi economici, ricostruzione postbellica, deterioramento dei rapporti sociali), sia soprattutto con le problematiche irrisolte all’interno della suo nucleo familiare. La moglie gli è sempre più estranea, chiusa in un ottuso e rassicurante egoismo: l’unica confidenza tra loro è quella della vicinanza nel sonno, tormentato però dal russare di lei, e dal contatto con i suoi piedi ghiacciati. La figlia, indisponente e rancorosa, tornata nella casa paterna con le due bambine piccole dopo il fallimento del matrimonio, non gli nasconde la sua ostilità.
Il figlio, alcolizzato e violento, tradisce la giovane moglie con crudele ostentazione.
È solo con questa sua dolcissima nuora che Shingo riesce a vivere la tenerezza di un rapporto fatto di reciproca dedizione, cura, e riconoscente adesione alla bellezza della natura: questo affetto casto e profondo unisce i due in un nobile e consolatorio riscatto dal mondo circostante.

 

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www.sololibri.net/Il-suono-della-montagna-Yasunari.html    21 gennaio 2016

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KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, IL MAESTRO DI GO – EINAUDI, TORINO 2012

Il più grande scrittore giapponese del secolo scorso, evocatore di atmosfere e tradizioni, Yasunari Kawabata si è misurato nel 1938 con l’arte di un gioco di tradizione millenaria, ricavandone un romanzo fuori dagli schemi, nato da un’esperienza giornalistica: Il maestro di go (Einaudi, 2012).
Un quotidiano l’aveva incaricato di documentare quella che sarebbe stata l’ultima, importantissima partita di go tra l’anziano e invincibile campione Shusai e l’emergente Otaka: sfida che si protrasse per sei mesi, e si concluse con la sconfitta e la morte del maestro. La cronaca dell’avvenimento venne trasfigurata poi da Kawabata, nella stesura del romanzo che richiese sedici anni di lavoro, in un omaggio al Giappone che stava sparendo, alla saggezza della vecchiaia, all’eleganza silenziosa delle donne, al rispetto per la vita in ogni sua manifestazione, all’obbedienza mansueta alle leggi inesorabili del trascorrere del tempo.
Cos’ è il go? «In Giappone è  ‘una via’, un’arte che trascende la nozione stessa di forza e di gioco. In essa confluiscono la mistica e la nobiltà dell’Oriente».

Kawabata non solo descrive minuziosamente ogni mossa della partita, ma segue i due giocatori nelle loro espressioni facciali, nei rituali che accompagnano i loro gesti, nelle diverse filosofie che esprimono con le loro contrapposte esistenze. Il vecchio ascetico, solenne, solitario, parco di parole e movimenti, piccolo e ossuto; il giovane robusto, vitale, nervoso, conviviale, pur nell’ammirazione ossequiosa del maestro.
A noi occidentali rimane ostico penetrare il fascino meditativo dell’attesa, della sospensione, dell’introspezione che emana dal gioco del go, e non ci è sempre facile seguirne la descrizione attenta e scrupolosa nella pagine di questo romanzo. Rimaniamo tuttavia incantati dalla raffinata leggerezza con cui Kawabata ci racconta questo universo in via d’estinzione, e la sua malinconia nel comporne l’epitaffio.

 

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www.sololibri.net/Il-maestro-di-go-Yasunari-Kawabata.html     8 febbraio 2017

 

 

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KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, IL LAGO – GUANDA, MILANO 2015

Ginpei Momoi, protagonista del romanzo Il lago, che Yasunari Kawabata scrisse nel 1954, quattordici anni prima di ricevere il Nobel, è un professore trentaquattrenne di Tokyo, ossessionato da tutte le figure femminili che incontra, al punto di sentirsi costretto a pedinarle, a spiarle, a sognarne non solo il possesso, ma addirittura l’annientamento. Alla base di questa sua nevrosi erotica (tratteggiata dall’autore, come in ogni suo libro, senza alcun cedimento alla volgarità, o alla descrizione esplicita del rapporto sessuale), Ginpei riconosce in se stesso un trauma infantile, risalente al difficile rapporto con la madre, e al rifiuto sentimentale impostogli dalla cugina Yayoi, molto amata e desiderata, con cui usava passeggiare sulle rive gelate del lago del paese. «Sulle acque si addensava la nebbia, celando il mondo fatto di ghiaccio che pareva estendersi all’infinito, al di là della riva». Il gelo introiettato di quel rapporto e di quelle lontane giornate, porta il giovane a reiterare perpetuamente una ricerca di rispondenza affettiva, proprio laddove si suppone inevitabilmente sconfitto. Il complesso insuperabile di avere piedi ossuti e sgraziati, al limite della deformità, lo induce ad attribuire alla scarsa avvenenza del suo fisico qualsiasi sconfitta in campo sentimentale.

Il romanzo si apre, con pagine straordinarie, sull’arrivo di Ginpei in un bagno turco, e sulle cure, attente ma professionalmente neutrali, offertegli da una delicata massaggiatrice: cure che lui accetta con pudore misto a gratitudine, vergognandosi del suo corpo così poco attraente, e senza riuscire a stabilire con la ragazza un rapporto che superi le convenzioni abituali. La stessa cosa gli succede quando casualmente si imbatte in altre donne per strada, arrivando ad aggredirle verbalmente, seguendole con insistenza, o addirittura derubando una delle sue vittime della borsa che lei, spaventata, gli getta contro. L’abilità narrativa di Kawabata consiste nell’accompagnare il lettore alla scoperta dell’esistenza quotidiana di queste figure femminili, rivelandone cause ed effetti, antefatti e necessarie conseguenze: così veniamo poco a poco a scoprire sia una giovanile ed ipotetica paternità indesiderata di Ginpei, sia la seduzione di una sua allieva minorenne che l’aveva portato all’allontanamento dal lavoro e alla sua esclusione – in parte volontaria – dalla società. Attraverso l’interpretazione empatica dell’autore, il protagonista si ritiene autorizzato a giustificare le sue azioni ideologicamente, in modo da potersi assolvere da qualsiasi senso di colpa: «Come sarebbe possibile nell’essere umano il piacere di chi agisce se non esistesse quello di chi subisce?». (Teoria, tra l’altro, avallata dal sociologo Bourdieu nel suo “Il dominio maschile”). La dichiarazione in pectore che Gunpei rivolge alle fanciulle bramate risuona quasi patetica: «Nella prossima incarnazione sarò un giovane con i piedi belli. Tu dovrai rimanere così come sei. Danzeremo insieme un balletto luminoso». Il finale ansiogeno e caotico del romanzo ci sprofonda nella psiche allucinata del protagonista, nelle sue visioni che confondono presente e passato, ricordi veri e incubi: conducendoci verso un epilogo di straniante banalità.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Il-lago-Yasunari-Kawabata.html    12 gennaio 2017

 

 

 

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KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, LA DANZATRICE DI IZU – ADELPHI, MILANO 2018

Racconto scritto da Yasunari Kawabata nel 1926, La danzatrice di Izu è la storia dell’iniziazione sentimentale di uno studente che, per vincere i suoi “tormenti di ventenne”, si mette in cammino lungo la penisola di Izu. Il suo viaggio autunnale attraverso una natura incontaminata e suggestiva lo segnerà per sempre, convertendolo alla magia della bellezza, ovunque essa si annidi: nel paesaggio, nei gesti, nelle parole altrui, in sentimenti prima sconosciuti.
Una giovane artista girovaga, Kaoru, leggera ed elegante nei movimenti, nelle gambe e nei piedi affusolati, dolce e seduttiva nello sguardo, con un sorriso stupito e candido che le illumina il volto ed emana una totale e fiduciosa ingenuità, diventa per il protagonista il tramite – folgorante e miracoloso – della rivelazione di un nuovo e diverso approccio all’esistenza.

“La danzatrice, che giaceva proprio lì ai miei piedi, arrossì e si coprì il viso con le mani. Divideva il futon con una delle ragazze più grandi. Era ancora truccata dalla sera prima. Le restavano tracce di rosso sulle labbra e intorno agli occhi. Vederla appena svegliata, e così emozionata, mi diede una strana tenerezza. Forse infastidita dalla luce, si girò dall’altra parte, quindi, con le mani sempre sul viso, scivolò fuori dal futon e si sedette sul pavimento del corridoio. «Grazie per ieri sera» disse, poi si inchinò con delicatezza verso di me, che ero ancora in piedi, confondendomi”.

Il ragazzo, incantato dalla visione della leggadria di lei, la segue nel peregrinare della compagnia di danzatori ambulanti lungo sentieri di montagna, sotto la pioggia che imbianca i boschi di cipressi, i torrenti, il profilo del mare all’orizzonte; si ferma con i suoi compagni d’arte nelle locande e nei teatri improvvisati dei villaggi, partecipa ai loro giochi serali o legge ad alta voce un libro per intrattenerli prima del sonno notturno. Sempre sperando di potersi accompagnare a Kaoru, accontentandosi tuttavia anche solo di uno sguardo di lei. Infine, durante una sosta in una stazione termale, la scopre mentre tutta nuda si tuffa con gioia infantile nell’acqua, avvolta dal vapore caldo, rivelando nella fragile figura la sua reale essenza di bambina.
Il distacco inevitabile, per il giovane che deve tornare alla sua scuola di Tokyo, avviene in una umida mattina davanti al molo dove lo aspetta la nave che lo riporterà in città: la ragazza, accovacciata in silenzio sulla banchina e volgendo gli occhi altrove, si limita a sventolare un fazzoletto bianco in direzione di lui, che imbarcatosi, non riesce a trattenere le lacrime: “Mi sono appena separato da una persona… La mia mente era diventata acqua limpida che colava goccia a goccia, lasciandomi alla fine solo la dolce, piacevole sensazione che non restasse più nulla”.

Il delicato racconto proposto da Adelphi è il più celebre di Yasunari Kawabata, e tuttora nella penisola di Izu l’immagine dello studente in uniforme e della danzatrice è effigiata ovunque, su cartoline e calendari, sui souvenir, sulle scatole di dolciumi e sulle fiancate dei treni. La danzatrice di Izu riporta anche due famosi saggi che l’autore giapponese scrisse sulla cultura nipponica, elencando i temi più famosi della sua produzione letteraria: il rapporto con la tradizione, la purezza femminile, la solitudine, l’amore e la morte, la spiritualità dell’arte, la ricerca assidua della bellezza. Argomenti che Yukio Mishima citò in una lettera, quando propose Yasunari Kawabata per l’assegnazione del Nobel nel 1968: “In tutti i suoi scritti, dalla giovinezza ai giorni nostri, si ritrova, come un’ossessione, lo stesso tema: quello del contrasto tra la solitudine ineluttabile dell’uomo e l’inalterabile bellezza che si può cogliere in maniera intermittente nelle folgorazioni dell’amore, nello stesso modo in cui una luce può svelare, nel cuore della notte, i rami di un albero in piena fioritura”.

 

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https://www.sololibri.net/La-danzatrice-di-Izu-Kawabata.html                    8 gennaio 2018
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KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, BELLEZZA E TRISTEZZA – EINAUDI, TORINO 2007

In questo romanzo che Yasunari Kawabata pubblicò nel 1964, Bellezza e tristezza si intrecciano fondendosi a vicenda, quasi trascolorando l’una nell’altra, come evidenzia efficacemente il titolo. L’incanto e l’eleganza dei luoghi e della natura, dei visi e dei gesti, sembrano compenetrati di malinconia, sia nei lunghi silenzi dei personaggi (carichi a volte di rassegnazione, a volte di tensione se non addirittura di violenza), sia nelle loro azioni, determinate spesso da un fato imperscrutabile e severo. Gli interni delle abitazioni, degli alberghi, dei templi, dei treni sono oppressi da un senso di fredda immobilità, e si impongono con costrizione su chi li occupa: mentre tutte le descrizioni degli ambienti esterni mantengono una loro rasserenante e protettiva ariosità, quasi invitando i protagonisti a uscire da se stessi e dalle prigioni sentimentali in cui si sono volontariamente rinchiusi. Si tratta infatti di una storia di amori e rancori, tradimenti e vendette, in cui però anche la crudeltà morale riesce ad assurgere a una dimensione di rispettabile grandezza.

Ōki Toshio è uno scrittore cinquantacinquenne che a trent’anni, già sposato e padre, aveva avuto una tormentosa e appassionata relazione con un’adolescente, Otoko. Da quell’amore era nata una bambina, morta subito dopo il parto, e la giovane madre in conseguenza dello scandalo e della separazione forzata dal compagno, aveva tentato il suicidio ed era poi stata ricoverata in una clinica psichiatrica. I due protagonisti della vicenda non erano riusciti nei venticinque anni successivi a dimenticarsi, nonostante vivessero in città diverse e avessero intrapreso entrambi carriere di successo. Ōki, reso famoso soprattutto dal romanzo autobiografico La sedicenne, era diventato un rispettabile padre di famiglia e un celebrato autore; Otoko, nota pittrice, conviveva con la giovane e affascinante allieva Keiko in un morboso rapporto di reciproca dipendenza sentimentale e sessuale. Dopo un incontro piuttosto formale avvenuto tra i due ex amanti, il romanzo prende una piega inaspettata: si inserisce infatti nella storia la gelosia di Keiko, ossessivamente votata all’idea di vendicare l’antica sofferenza dell’adorata maestra. Il piano di rivalsa messo in atto dalla ragazza è pressoché diabolico. Puntellato da una continua schermaglia verbale e fisica tra lei e l’insegnante (intrisa di amore e odio, di accuse e richieste di perdono), il progetto di Keiko si concretizza in un crescendo di ostilità e di persecuzioni nei confronti di Ōki e della sua famiglia, nell’intento di far pagare allo scrittore gli errori commessi in passato nei riguardi di Otoko.

Kawabata è abile nel far risaltare soprattutto il meccanismo psicologico che imprigiona la giovane giustiziera in una sorta di godimento sadico. Keiko tormenta Ōki perché in realtà vuole torturare psicologicamente la sua amante Otoko, da cui teme di non essere abbastanza ricambiata nella dedizione incondizionata dei sensi e degli affetti. Preda di una passione accecante, sedotta dall’idea di conquistare e annientare, annullandosi, chi considera suo rivale, Keiko raggiunge il proprio scopo, programmando la vendetta in ogni particolare. Suo obiettivo sarà la distruzione dell’unico personaggio innocente tra i protagonisti del romanzo, il più puro e indifeso: perfetta vittima sacrificale.

 

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https://www.sololibri.net/Bellezza-e-tristezza-Kawabata.html      18 ottobre 2018

 

 

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KEATS

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KEATS

JOHN KEATS, LA VALLE DELL’ANIMA. LETTERE SCELTE 1815-1820 . ADELPHI, MILANO 2021

Di John Keats (Londra,1795 – Roma,1821), unanimemente considerato uno dei massimi poeti romantici, Adelphi pubblica, con il titolo La valle dell’anima, la più ampia scelta delle lettere mai edita in Italia, a cura di Alessandro Gallenzi.

Cinque anni, dal 1815 al 1820, di vertiginoso, febbrile epistolario, che – oltre a documentarci nella maniera più completa e veritiera sull’esistenza quotidiana del poeta – ci fornisce preziose indicazioni sulla sua produzione poetica, e sull’estetica che ne è sottesa. In esso Keats rivela, attraverso una prosa contraddittoriamente raffinata e colloquiale, frizzante e ponderata, compita e familiare (talvolta addirittura approssimativa nella sintassi e nella grammatica), ogni emozione, paura e aspirazione, l’amore tormentato e passionale per Fanny Brawne, l’affetto per i fratelli e gli amici, l’arguta considerazione per i poeti coetanei Hunt, Reynolds, Shelley. Ma non si limita a un colloquio circoscritto ai sentimenti, poiché spesso travalica la contingenza comunicativa per affrontare argomenti filosofici, valutazioni di profondo spessore critico, bozzetti satirici e resoconti di viaggi, inframmezzati da poesie di ogni tipo: ballate, sonetti, stralci di tragedie, canzoni, odi, epistole in versi. La grafia, costretta a sfruttare ogni spazio offerto dai fogli onde evitare lo spreco di carta, è fitta e nervosa; lo stile vigoroso, perennemente esaltato, ricco di intuizioni folgoranti. Egli stesso è consapevole di una certa trasandatezza formale, dell’eccitata incoerenza che lo porta ad affastellare vari temi e impulsi, e così se ne giustifica con gli amici: “Continuo a saltare di palo in frasca…”, “Quando scribacchio una lunga lettera, devo essere in grado di seguire i miei ghiribizzi… di essere pesantissimo o leggerissimo per pagine intere… di essere bizzarro e immune da tropi e figure… di poter giocare a dama come voglio…”.

I primi due anni di corrispondenza sono perlopiù dedicati all’esuberante e briosa descrizione dei viaggi intrapresi nel Galles, in Scozia, in Irlanda, nelle isole di Wight e di Staffa, in cui ammirate raffigurazioni naturali di boschi, laghi, brughiere si mescolano a osservazioni pungenti sugli abitanti e sui loro costumi, e all’elenco puntuale di incontri, cene, lunghe camminate. Al culto del sublime si contrappongono commenti più banali e il gusto di battute grossolane, ma anche la consapevolezza che quel lungo vagabondare a piedi avrebbe arricchito la sua anima e la sua scrittura: “Anche prima di vederli, si possono ben immaginare i grandi spazi, la vastità dei monti e delle cascate, ma la loro fisionomia, le loro tonalità spirituali superano ogni potere immaginativo e sfuggono al ricordo. È qui che imparerò la poesia… e d’ora in poi scriverò sempre di più, nel tentativo poco concreto di aggiungere un minuscolo contributo a quella mole di bellezza che le più eccelse menti traggono da questi grandiosi materiali, dando       vita a qualcosa di celestiale per dilettare i propri simili”.

Qualsiasi esperienza vitale serve a Keats da arricchimento e sprono alla produzione poetica. La riflessione sulla poesia è infatti il tema più appassionatamente ribadito, poiché nella sua visione ideologica ed esistenziale, scrittura e vita si identificano completamente; alla propria opera il poeta ha il dovere e il compito di dedicare ogni attimo delle sue giornate, sacrificando qualsiasi soddisfazione materiale, anche pagando con la solitudine, il fallimento professionale, l’incomprensione sociale, la povertà, pur di farsi portavoce dell’Assoluto, della Bellezza, della Verità. Nelle due composizioni in versi che aprono l’epistolario, dirette all’amico George Felton Mathew e al fratello George così scrive: “Potessi dedicare ogni mio istante        /       alla musa restia, vivrei distante / da questa città buia e insieme a lei   /         senza riserve mi diletterei”, “Ma a chi ama l’alloro a volte avviene /   di riuscire a scordare le sue pene: / abbagliato, non pensa che ci sia – / nell’acqua, in terra e in aria – che poesia”. Il poeta, devoto all’immaginario, all’estasi e alla trascendenza, annulla se stesso nell’invenzione. Solo così la poesia può nascere sorgiva, spontanea, naturale: “La mia immaginazione è un monastero, di    cui io sono il monaco”, “Ho pensato così tanto e così a lungo e di continuo alla poesia che la notte        non riuscivo a dormire”, “Sento di non poter esistere senza poesia… senza la poesia eterna”, “La cosa bella della poesia è che rende interessante tutto, tutti i luoghi”.

Sacerdote di un esperire visionario, di una verità archetipica nell’ombra, Keats si dichiara pronto a immolarsi sull’altare della poesia (“Ammiro la natura umana, ma non mi piacciono gli uomini… voglio scrivere cose che facciano onore all’uomo, ma su cui non possano mettere le grinfie gli uomini”). Lo anima ed esalta un ardente desiderio di gloria e fama immortale, nella compiaciuta consapevolezza della propria grandezza: “Considererò sempre gli altri   debitori verso di me per le mie poesie, non   io verso di loro per la loro ammirazione… cosa di cui   posso fare a meno”. Eppure, le difficoltà della vita materiale e la fragilità fisica spesso minano le sue sicurezze, angosciandolo: “Dentro di me spunta di tanto in tanto un terribile temperamento morboso… Sono convinto che se ne avessi avuto la possibilità sarei stato un angelo ribelle”.

Fonte principale d’ispirazione è l’amore per Fanny Browne, cui indirizza trentasette lettere, tra il luglio del 1819 e l’agosto del 1820, ribadendo ossessivamente i suoi sentimenti di dipendenza affettiva, di ansia di possesso e fusione, di gelosia: “Non avevo mai conosciuto un amore come quello che mi hai fatto provare. Non       credevo che esistesse: lo immaginavo con terrore, te mendo che potesse consumarmi del tutto”, “Non riesco a vivere senza di te. Dimentico ogni altra cosa… penso solo a rivederti… Mi assorbi del tutto. Sarei pronto a morire per te. Il mio credo è l’amore, e tu sei il suo unico dogma”, “Mia adorata, io ti amo di un amore eterno, senza riserve. Più ti conosco e più ti amo… Persino la mia gelosia è un tormento d’amore: persino quando ne ero accecato avrei dato la mia vita per      .te…Tu sei sempre nuova ai miei occhi. Il tuo ultimo bacio è sempre il più dolce, il tuo ultimo sorriso il più splendente, il tuo ultimo gesto il più    grazioso”, “Rassicurami, amore mio. Se non avrò qualche rassicurazione, morirò di dolore. Se è vero che ci amiamo, non dobbiamo vivere come gli altri uomini e le altre donne”. L’ultima commovente missiva così si conclude: “Il fatto è che non posso lasciarti, e non potrò mai assaporare un minuto di gioia se il destino non mi consentirà di vivere insieme a te per sempre… Nonostante questo, sono contrario a incontrarti. Non posso sopportare di essere abbagliato e poi tornare di nuovo nelle mie tenebre… Vorrei tanto stare fra le tue braccia pieno di fiducia o essere colpito da un fulmine. Che Dio ti benedica, J.K.”.

Sentimenti di profondo affetto, stima e confidenza uniscono il giovane letterato agli amici più cari: Brown, Bailey, Haydon, Taylor, Dilke, Severn (“Ho molti buoni amici disposti ad aiutarmi… e quindi sono tenuto ancor di più a stare attento ai soldi che mi       prestano”). Degli amatissimi fratelli George, Tom e della sorellina Fanny scrive: “L’amore per i miei fratelli, a causa della prematura perdita dei nostri genitori e anche di sventure precedenti, si è trasformato in un sentimento più dolce dell’amore delle donne”.

Altro motivo affiorante con la stessa trepida insistenza e affezione è quello della morte, percepita come vicina e inevitabile. Struggente ci appare l’ultima lettera diretta all’amico Charles Brown da Roma, il 30 novembre 1820: “Ho la costante sensazione che la mia vita reale sia già passata e che stia vivendo un’esistenza postuma… continuo a pensare che moriremo tutti giovani… Se dovessi guarire, farò il possibile per rimediare a tutte le cose che ho mancato di fare durante la malattia… in caso contrario, mi verrà tutto perdonato…. Riesco a malapena a dirti addio, persino per lettera. Sono sempre uscito con un goffo inchino. Che Dio ti benedica!”

Queste lettere, che T.S. Eliot definì “le più straordinarie e importanti che siano mai state scritte da un poeta inglese”, costituiscono secondo il curatore del volume Alessandro Gallenzi “un’autobiografia spirituale”, da cui emerge “la figura di un giovane generoso, socievole, in continuo fermento e in costante trasformazione, insoddisfatto e consapevole dei propri limiti, incessantemente alla ricerca del bello e della perfezione poetica”. Il letterato classicheggiante, solenne, marmoreo dell’Endimione e dell’Iperione, trova in esse una dimensione più profondamente umana e spontanea, ricca di sfaccettature, incongruenze e idiosincrasie. Un epistolario privato che, forse aldilà delle intenzioni dell’autore, ha assunto in due secoli la levatura e l’importanza di capolavoro, al pari della sua celebrata produzione in versi. Tanto maggiormente opportuna, quindi, la proposta di Adelphi, che ha saputo valersi dell’ottima traduzione (particolarmente felice nelle versioni poetiche) di Gallenzi, che in sessanta pagine di note puntuali e scrupolose ha fornito al lettore vitali strumenti di conoscenza e interpretazione.

 

© Riproduzione riservata              «L’Indice dei Libri del Mese” n. 5, maggio 2022

 

 

 

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KELLER

GOTTFRIED KELLER, LETTERE D’AMORE TRADITE – ELLIOT, ROMA 2015

Di Gottfried Keller (1819-1890), il più famoso scrittore svizzero dell’Ottocento, l’editore Elliot ha pubblicato nel 2015 un romanzo breve molto godibile, Lettere d’amore tradite, che unisce in sé i caratteri dello studio sociale, dell’introspezione psicologica e della commedia degli equivoci.

Il racconto esplora ironicamente i meandri dell’animo smanioso e risentito del protagonista, il commerciante Viktor Störteler, chiamato da tutti Viggi, sposato con una signora semplice e gentile, Gritli, soddisfatta del tranquillo ménage domestico e dell’esistenza piccolo borghese nel paesino di Seldwyla.

A differenza delle scarse ambizioni sociali della moglie, Viggi nutre tormentanti aspirazioni letterarie, una smodata brama di successo e di riconoscimenti culturali. Inizia a redigere alcuni saggi di costume, che invia a riviste locali, senza riceverne alcun riscontro. Passa allora a scrivere con lo pseudonimo di Kurt Dalbosco racconti che di tanto vengono pubblicati sui giornaletti della provincia, gonfiandolo di borioso orgoglio. Frequenta circoli di aspiranti artisti, riuniti nei locali pubblici della zona, tutti impegnati a commentare reciprocamente le proprie composizioni, con la speranza di ottenere imperitura fama nel mondo delle lettere. Nel tempo libero dal lavoro che lo porta spesso a girare per il cantone di Berna, Viggi si dedica all’osservazione puntuale delle persone, dei luoghi, della natura circostante, cercandovi ispirazione e prendendo appunti su un taccuino per una successiva rielaborazione formale. Si fa crescere i capelli e inforca sul naso occhiali con lenti di vetro, convinto così di assumere un aspetto più intellettuale. Ovviamente, diventa senza accorgersene oggetto di scherno per gli abitanti del paese, ma continua imperterrito a produrre articoli e novelle, nella convinzione di poter ottenere la meritata popolarità.

Improvvisamente gli attraversa la mente una luminosa idea: quella di includere l’ingenua mogliettina Gritli nella sua attività letteraria, utilizzando la formula dell’epistolario amoroso. Cerca pertanto di coltivare l’istruzione della sua sposa, imponendole approfondite letture filosofiche. Alla spaventata e sprovveduta donna il compito risulta da subito arduo e deprimente, in particolare quando il marito inizia a inviarle pretenziose lettere d’amore pretendendo da lei risposte stilisticamente adeguate.

Sentendosi incapace di esaudire le pretese di Viggi, Gritli escogita quindi un sotterfugio per uscire dall’umiliante situazione in cui si trova costretta. Il vicino di casa Wilhelm, un giovane maestro timido e introverso, affascinato dalle donne che non riesce ad avvicinare per un opprimente complesso di inferiorità, le sembra lo strumento più appropriato cui ricorrere per salvarsi. Ricopiando le lettere del marito e modificandone intestazione, suffissi e pronomi, fa credere al giovane che siano messaggi d’amore diretti a lui, e ne riceve di rimando risposte eleganti e appassionate. Di nuovo intervenendo sui testi, invia l’epistolario, sempre più fitto e intenso, a Viggi, che rimane commosso e grato.

Quando per un caso fortuito l’inganno viene alla luce, i rapporti tra i due coniugi diventano tesissimi, arrivando addirittura a un processo e al successivo divorzio. Ma mentre Gritli vive con dignitoso sollievo la separazione, Viggi sconta a caro prezzo il suo presuntuoso maschilismo. Finisce infatti per risposarsi con una donna avida e lagnosa, e per sfuggire dalle grinfie di lei si immerge con sempre maggiore testardaggine nelle sue insulse composizioni. L’unica persona che trae vero profitto da tutta questa vicenda è il giovane maestro Wilhelm, che allontanato dall’insegnamento per lo scandalo di cui era stato inconsapevole protagonista, finisce per dedicarsi con successo all’agricoltura e alla meditazione, creandosi nei dintorni la fama di eremita dispensatore di saggezza e spiritualità. E poiché tutto è bene quel che finisce bene, il romanzo di Gottfried Keller si conclude, secondo i canoni della narrativa popolare ottocentesca, in maniera inaspettata e romantica, che spetterà all’eventuale lettore scoprire.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        31 luglio 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KENNY

ANTHONY KENNY, UN AFFETTUOSO ADDIO ALLA CHIESA – CAROCCI, ROMA 2016

Anthony Kenny (Liverpool, 1931), figura di spicco del pensiero filosofico inglese, è stato presidente della British Academy e vicerettore dell’Università di Oxford. Su invito dell’editore romano Carocci ha scritto Un affettuoso addio alla Chiesa, un’autobiografia esplicitamente realizzata per il pubblico italiano. Non si tratta, in verità, solo della puntuale rivisitazione degli avvenimenti della sua lunga vita, ma anche di una riflessione approfondita e partecipe sul cattolicesimo contemporaneo e sul futuro della Chiesa.

Nella prima parte del volume l’autore si sofferma sulle vicende, piuttosto tormentate, della sua infanzia: presto orfano di padre, cresciuto dalla mamma e da uno zio prete, fu spinto dalla sua indole riservata e meditativa, e dai suoi interessi precocemente culturali, a entrare in seminario, dove percorse tutto il ciclo degli studi inferiori e secondari, in un regime educativo rigoroso e sessuofobo ma altamente qualificato.
Inviato dai superiori a Roma per completare gli studi di teologia all’Università Gregoriana, Anthony Kenny fu ordinato sacerdote a ventiquattro anni, e quindi indotto a specializzarsi ulteriormente con un duplice dottorato in linguistica sia in Italia sia a Oxford. Proprio in questo periodo, in cui era assorbito in studi di prestigioso livello, iniziarono a tormentarlo i primi dubbi sull’effettiva veridicità di alcuni dogmi della Chiesa (la transustanziazione nell’eucarestia, l’infallibilità del papa) e sulla sua dottrina sociale (le direttive sul comportamento sessuale), e addirittura sull’esistenza stessa di Dio, come essere onnipotente, onnisciente, onnipresente, secondo le cinque prove addotte da Tommaso d’Aquino. “Una mente divina sarebbe una mente senza storia. Nel concetto di mente che applichiamo agli esseri umani il tempo rientra in vari modi; ma in Dio non c’è variazione, né ombra di cambiamento. Dio non cambia idea, non impara, non dimentica, non immagina, non desidera… Se è solo alle creature corporee quali noi siamo che si può attribuire una qualunque attività mentale, come possiamo ritenere sensata l’idea di un ente divino, incorporeo e indifferente?”

Convintosi a soprassedere alle sue inquietudini spirituali, Kenny accettò poi l’incarico di curato presso una parrocchia di Liverpool, “famosa per il degrado urbano e il disordine civile”. Ma anche la frequentazione quotidiana sia del clero sia dei fedeli cattolici contribuirono a minare la sua fede, scossa dall’osservazione di un fariseismo e di un affarismo diffusi, ben lontani dall’insegnamento evangelico. Per tali motivi, nel 1964 chiese la riduzione allo stato laicale. “Avevo portato un tale sconquasso nella mia vita che sentivo di non potere più aspettarmi di essere felice. Ma almeno non ero più un ipocrita”.

I suoi timori di aver deluso parenti, amici e la comunità dei credenti con la rinuncia al sacerdozio venne però smentita dai fatti, e la sua esistenza così rivoluzionata conobbe un’improvvisa, inaspettata felicità. Non solo ottenne un gratificante incarico di insegnamento a Oxford, ma iniziò a pubblicare saggi filosofici di successo, e soprattutto conobbe e si innamorò di una cantante americana con cui convolò presto a nozze, e da cui ebbe due figli. Immediatamente scomunicato dalla Chiesa, non si rinchiuse tuttavia in uno sterile e rancoroso atteggiamento di ribellione, rimanendo invece aperto al confronto e a una sincera constatazione dei meriti del cattolicesimo: “Una delle cose per cui ancora oggi sono grato dell’insegnamento ricevuto da giovane cattolico è la nozione di sistema morale, in contrapposizione a quell’economia del benessere che molti pensatori spacciano per moralità”.

Se già tutta questa prima parte del libro è scritta in uno stile pacatamente denotativo, quasi impersonale, nella seconda parte Kenny esibisce una scientificità argomentativa del tutto essenziale e obiettiva, sia quando tratta gli argomenti teologici più coinvolgenti (storicità di Gesù, resurrezione, veridicità delle Sacre Scritture, sacramenti, autorità pontificia), sia quando discute le indicazioni più concretamente politiche della Chiesa (contraccezione, aborto, omosessualità, pena di morte, eutanasia, ordinazione sacerdotale delle donne). Rimanendo sempre serenamente coerente con la sua dichiarazione di agnosticismo, “posizione di chi non sa se Dio esiste oppure no. Un’affermazione di conoscenza ha bisogno di essere verificata; l’ignoranza ha solo bisogno di essere ammessa”.

 

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www.sololibri.net/affettuoso-addio-Chiesa-Kenny.html               20 agosto 2016

 

RECENSIONI

KERANGAL

MAYLIS de KERANGAL, LAMPEDUSA – FELTRINELLI, MILANO 2016

Maylis de Kerangal, autrice francese di successo (Tolone, 1967), dopo i molti riconoscimenti ottenuti nel 2014 con il romanzo Riparare i viventi, storia dolorosa di un trapianto cardiaco, ha pubblicato questo pamphlet, Lampedusa, scritto su commissione per un festival turistico, che in francese si presentava con tutt’altro titolo (Á ce stade de la nuit): titolo senz’altro più indovinato di quello scelto dalle edizioni Feltrinelli. Sì, perché il nome dell’isola – che subito richiama emotivamente il lettore alla tragedia degli sbarchi dei migranti – e l’immagine del mare in copertina, in realtà c’entrano poco con il contenuto del testo, tutto ruotante intorno alle fantasie notturne (letterarie, visionarie e geografiche) dell’autrice. La quale, la notte del 3 ottobre 2013, mentre da sola sorbisce una caffè in cucina, rimane colpita dalla notizia radiofonica dell’affondamento di un barcone a due chilometri dall’isola siciliana, e dalla conseguente morte di oltre trecento persone.

La sua attenzione emotiva e intellettuale, tuttavia, più che alla strage di quegli innocenti, corre subito al film di Visconti Il Gattopardo, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e al suo protagonista Burt Lancaster («Corpo atletico, mascella squadrata, naso dritto, sorriso leggendario – pelle bianca, salute, ottimismo, volontà di potenza»). Da questa seduttiva immagine virile, si trasferisce poi per analogia a un altro film recitato dallo stesso attore, The swimmer, che condivide con la prima pellicola «lo stesso splendore del corpo». Di fantasia in fantasia, Kerangal, appena distratta dalla voce dello speaker che fornisce altri drammatici dettagli sul naufragio, si attarda a descrivere i propri viaggi, gli incontri, le letture, le riflessioni culturali e antropologiche, rimembranze giovanili, riservando alle ultime e scarne tre paginette finali qualche empatica considerazione sui disastri umanitari che hanno fatto di Lampedusa una martire mondiale della solidarietà umana.

E se c’è qualcosa da aggiungere sullo stile di questo volumetto, forse è la tendenza comune a molta narrativa (e, ahinoi!, poesia) contemporanea di attardarsi in sterili elencazioni o classifiche di oggetti, azioni, toponimi, personaggi letterari o cinematografici, quasi a voler colmare vuoti di interesse nel lettore, o cali di ispirazione in chi scrive. Ad esempio, quando la protagonista cerca affannosamente una sigaretta nel cassetto per placare la sua tensione, si sente in dovere di comunicarci tutto quello le capita tra le mani: «bottoni, pennarelli secchi, resti di Playmobil, campioncini di crema emolliente, bustine di zucchero raccattate al bar, un cucchiaio antico, biglie, gomme americane, un telefonino morto, Kleenex…», e così via per una paginetta. Oppure, ancora: «continente, oceano, nazione, mari, fiumi, capitali, catene montuose e vette celebri, deserti, città…». E di nuovo: «mi accovaccio, sollevo, giro, sposto, divido, riaccatasto, crolla tutto…». Infine: «Calipso, Napoleone, Capitan Nemo, Edmond Dantès, Marlon Brando, Finbarr Peary, Adele H…».

E la povera Lampedusa? Puro pretesto letterario.

 

«Lo Straniero» n.146, ottobre 2016

 

 

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