DORINDA DI PROSSIMO, QUADERNO MILLIMETRATO – INCERTI, LEGNAGO 2012

La carta a millimetri di un quaderno invita chi scrive alla precisione, a non sprecare spazi: ma è anche un richiamo umile e concreto a un’espressione concentrata e pulita. Senza le sbavature e gli eccessi a cui può indurre lo spazio bianco di un foglio immacolato.

La dichiarazione di poetica di Dorinda Di Prossimo è già esplicita in una delle prime poesie di questa intensa plaquette: «m’aggiusto coserelle senza ambiguità… Mi faccio chiara… Pitagorica, / direi». Non c’è approssimazione in questi versi, netti, decisi soprattutto negli incipit. Icastici perché assolutamente visivi, fissati da uno zoom fotografico: anzi, da una inquadratura filmica, che può richiamare, ad esempio, i primi piani di Antonioni. Sbalzati imperiosamente dal buio, e lì presenti, immodificabili, severi: «Ti scrivo come uscita dalla pioggia. Lenta / nell’impiccio delle mani». Oppure: «Restasse così il giorno. Due macchine quasi / per scherzo, tra un lampione e l’altro».

Insieme a questa presenza radicale, scarna, il senso di una certa non appartenenza al mondo, di una sostanziale estraneità, di un non addomesticamento dell’indocile protagonista-autrice, che non sa e non vuole conformarsi alle aspettative altrui (miopi, ingenerose): «– quella donna è troppo / spettinata. Disordina i saluti, inversi orecchini / porta, tosse, acquatiche respirazioni. Legge / copioni in macchina, dimentica la spesa per le / scale. E ha figli grandi come amanti – .O. amanti / rumorosi come figli», e ancora: «Ti è toccata a destino, padre, una figlia dispara / d’occhi, nel fuori quadro, pungolante / e disarmonica. T’è toccato vederla senza / preghiera invecchiare».

La scrittura di Dorinda Di Prossimo è nervosa, a scatti, ricca di una punteggiatura esibita e sottolineante: punti fermi, virgole, frequenti e cadenzati, a indicare decisione, volontà di costringersi al ribadire suoni, immagini, idee. E a volte invece negati, i segni di interpunzione finali, perché si perpetui un’apertura, la possibilità di un collegamento ulteriore, o di un’uscita di sicurezza. È una scrittura assolutamente femminile, intrisa di una femminilità addirittura sensuale, sebbene di sesso non parli mai, e poco anche di amore. Ma il mondo in cui vivono queste poesie è connotato fisicamente, sono poesie di donna, negli ambienti e nell’attenzione vigile ai particolari: «Vive così poco l’erba a casa mia. I petali / restano nel bicchiere, la direzione degli occhi, / sui rovi cade», «Ci provo a danzare. Quando le lenzuola pesano / meno della neve, la vicina non ha ancora tolto / l’elastico dalla busta del caffè e le ginocchia / tengono quella smorfia ridicola d’una tendina / inamidata», «Col chiarore, poi, / le mal educate cose. La tazza nel lavandino, / le foto, la rigida maniglia, il conto senza sconto, / i gesti andati a male». Poesie di donna soprattutto nella descrizione degli affetti. I ritratti dei due genitori, ritratti pieni di bene e di rancore, di ribellione e di perdono, quali solo una figlia femmina poteva scrivere e, appunto, su carta millimetrata, senza retorica o eccedenze. «La figlia che frutta non si fa / sbucciare, il padre che taglia il pane, dice – / Fiori ho comprato per la tomba – invisibile / invenzione d’un sospiro», «Ti dico madre che nell’infermità del ricordo, / a volte, perdo il debito dei tuoi occhi… / … La tua punta / eterna di rondine che non vola. Mi pronunciavi / tintinnosa, m’accentavi d’ago fino. E mi voltavo / indietro, ogni volta ripassavo la giaculatoria che / ti perdonava / … tu m’inchiodi nei vasi, a notte. / Nel cranio dei limoni, nella plastica sopra i / divani».

Infine, la ricostruzione di momenti magici dell’infanzia, nella loro memoria asciutta e riconoscente, svela una sensibilità avveduta, scalfita dalla puntura di dolori lontani, di nostalgie inevitabili, di profumi mai dimenticati. Allora può essere il padre giovane che prepara il presepe di notte per i suoi bambini, con una tenerezza concentrata, e lo preserva nel tempo e attraverso i numerosi traslochi della famiglia. O la tata Anna che provvede alla colazione per i tre fratelli, l’uovo sbattuto a neve, i primi turbamenti del corpo «E l’odore del gioco al piano di sopra. / Solitario. Colpevole. Una ciliegina per il mio / confessore». O le zie che assistono al parto difficile della sorella, snocciolando preghiere, programmando il corredino futuro per la nipotina che stenta a nascere. C’è quindi, in tutte queste poesie, una constatazione orgogliosa e fidente della propria concretezza, una fiera adesione alla pienezza del proprio sentire, che è il sentire consapevole di un poeta, capace di vibrare all’unisono con un sogno, un odore, un colore: «Insonne / come un collegio di debuttanti, come a bordo / d’una possibile nave. Danzare è viaggiare, mi / dico, il pugno appena serrato, le unghie / conficcate fra le cosce. È ricordarsi dell’aria, del / lusso lucido della foglia».

Ecco, in ogni verso di Dorinda Di Prossimo, anche l’aria ha una sua fisicità, una sua imprescindibile bellezza e assolutezza.

 

Prefazione al volume, settembre 2011