All’Universitätsstrasse, raggiungibile in metrò (linea 1, rossa), si doveva cambiare e prendere, appunto, il 38. Ma tardava, oppure (semplicemente) non era tra i più frequenti e frequentati, il 38 che finiva la sua corsa nel sobborgo di Grinzing. Così gironzolavo tra i negozi e le vetrine del sottopasso, in attesa. E mi guardavo intorno, e mi lasciavo guardare. Da un giovanotto che a tutti i costi voleva vendermi un giornale studentesco, da una truce fornaia che non si raddolcì nemmeno quando le comprai un krapfen, da uno spazzino cingalese che come un automa puliva e ripuliva pochi metri quadri del marciapiedi alla mia destra.

Sull’autobus (quando finalmente arrivò) c’erano pochi viaggiatori. Occupai subito un posto in fondo, vicino al finestrino. La giornata era luminosa, non troppo calda: l’avvio di un agosto clemente e solidale. Il traffico intorno al bus ordinato e silenzioso, in quella Vienna ritrovata dopo dieci anni: d’estate e non più a Natale, da sola e non più con la famiglia. Mi sentivo felice: stavo realizzando un desiderio a lungo covato nell’anima.

Grinzing godeva di una leggendaria fama. Era il paese del vino e delle osterie, delle bevute e della musica popolare, delle serate passate al fresco, sotto pergolati di pampini e grappoli violastri. In pochi lo conoscevano per la ragione per cui lo conoscevo io. Seguivo con attenzione sospesa tutte le fermate dell’autobus (chi saliva e chi scendeva, chi prendeva posto e chi preferiva rimanere in piedi): confrontavo sulla mia mappa ogni nome di via, ogni piazza, distratta solo, e per poco tempo, dall’irrompere eccitato e vociante di una classe elementare accompagnata da due maestre. Dovevo scendere prima del capolinea. Non sapevo bene se una o due fermate prima. Mi aiutò a decidere un’indicazione segnaletica: “Grinzinger Friedhof”. E lì scesi.

Percorsi un vialetto alberato in salita. In fondo, un cancello con un’iscrizione severa. Prima di entrare, mi fermai a comperare i fiori: «Tre rose bianche», chiesi alla vecchia fioraia, e poi, quasi scusandomi, quasi timidamente, indicazioni su dove potevo trovarlo. «Der Musiker?», rispose. A sinistra, fila n. 6.

Sul ghiaino i miei sandali scricchiolavano. Come sempre incerta, impacciata, domandai ancora a una donna che camminava energica e sicura tra le tombe. Non sapeva, non lo conosceva. Ma era invece proprio lì, a sinistra. Fila n.6: GUSTAV MAHLER.

Posai le tre rose sul marmo. Grazie per l’andante della sesta, per l’adagio della nona, per Das Lied von der Erde.

 

«I viaggi di Repubblica» n. 403, 2 febbraio 2006