JEAN GROSJEAN, IL MESSIA – QIQAJON, BOSE 2024

Le Messie di Jean Grosjean uscì in Francia nel 1974: oggi lo ripropone la casa editrice Qiqajon di Bose nella limpida traduzione di Emanuele Borsotti, con prefazione del Cardinale José Tolentino Mendonça e un’appendice composta da sette “spigolature” di Christian Bobin.

Poeta, scrittore, teologo e traduttore (Parigi 1912 – Versailles 2006), Jean Grosjean fu ordinato prete nel 1939, tornando allo stato laicale dieci anni dopo. Pubblicò numerose raccolte di versi, principalmente di ispirazione religiosa, e innovative rielaborazioni di episodi biblici. Si cimentò in traduzioni impegnative, dai tragici greci a Shakespeare, dal Nuovo Testamento al Corano, ma il suo nome viene ricordato soprattutto per le originali interpretazioni dei testi sacri, tendenti ad approfondire ed espandere il loro significato letterale, esaltandone allo stesso tempo il valore letterario e l’atmosfera poetica. Proprio sul gioco ermeneutico instaurato tra scrittura, riscrittura e lettura si sofferma l’acuta introduzione al testo di Tolentino Mendonça, mentre Bobin sottolinea il carattere profondamente meditativo di Grosjean, il cui “cuore di cristallo”, “cuore sovra-illuminato” sapeva coniugare la sapienza teologica con uno stile elegantemente essenziale.

Nel Messia lo scrittore immagina, prendendo spunto dal materiale neotestamentario, in che modo Gesù possa aver trascorso i quaranta giorni tra la resurrezione e l’ascensione, traendone una narrazione sul filo del fantastico e del prodigioso. L’icastico e surreale incipit del romanzo presenta il Risorto accompagnato da altri morti tornati a vivere nelle sembianze di fantasmi, per rivedere i cari che hanno lasciato:Gesù camminava sotto le stelle. Doveva essere guardingo per riabituarsi a vivere. Si limitava a frequentare le tombe e il suo passaggio ne risvegliava gli ospiti. Per insignificanti che fossero stati, avevano avuto la sua stessa esperienza di naufragio. Si alzavano, pronti a fargli da scorta, ma lui li congedava gentilmente, lasciandoli impacciati nella loro resurrezione”.

Gesù sollevatosi dal sonno della morte si mette a sedere nel sepolcro e si libera dalle bende che lo avvolgevano, scavalca i corpi addormentati delle guardie e si incammina nella notte, “meravigliosamente malsicuro”, cercando di riambientarsi alla vita. Cammina a piedi nudi sull’erba rugiadosa di inizio primavera, ascolta le tortore tubare tra i cespugli, poi torna al sepolcro per spiare le donne e i discepoli che cercano il suo cadavere sparito, osserva Maria Maddalena angosciata davanti alla tomba vuota, e le rivolge parole di consolazione nella lingua dialettale che li accomunava in vita. Poi si allontana, senza lasciarsi toccare dalla donna che, dopo sua madre, aveva più amato.

Tornare a esistere, a confondersi con la gente, a godere nuovamente di ogni respiro, prima creatura risorta dal momento della creazione, è un’impresa vertiginosa nella sua unicità, richiede coraggio e prudenza: implica la solitudine più assoluta, perché oscilla tra il vuoto della morte e il troppo pieno di una vita che non offre appigli a cui aggrapparsi. Sulla strada per Emmaus il Messia incontra due viaggiatori, li riconosce ma non viene riconosciuto; parla con loro, cerca di scuoterne l’ottuso torpore. Non appena un vago turbamento li sfiora, forse un sospetto di verità, allora riprende il suo cammino solitario, invaso dallo stupore per la bellezza di ogni cosa che vede: fiori, sabbia, uccelli, rettili. Bellezza sconfortante, la civetteria della natura! Qualcuno si nasconde dietro l’incanto del paesaggio come fosse un’esca. È forse il Padre? “Gesù era solo, fra un Dio dalle tracce sfuggenti e una terra dalle apparenze ingannevoli”. Intanto gli apostoli raccolti nel cenacolo da tre giorni, rancorosi, si accusano a vicenda di aver abbandonato Gesù: quando lui si ripresenta, avverte in loro più imbarazzo che gioia, più timidezza che adesione. Anch’egli li sopporta a fatica, e tornato ad avvolgersi nella notte, viene illuminato dai bagliori delle armature di una schiera di arcangeli, mandati dall’alto a vegliare sul suo cammino. Umana realtà o sogno sovrumano, la sua figura è sospesa tra carne e spirito, concreta e immateriale nello stesso tempo. Dio tace, il Padre non si mostra.

Il Messia fa altri incontri, va in cerca di chi aveva preso parte alla sua vita terrena (Lazzaro con le sorelle Marta e Maria), ripete i miracoli che aveva compiuto durante i tre anni di missione pubblica, rivive la trasfigurazione sul monte Ermon, il rinnegamento di Pietro, lo strazio dell’abbandono nel Getsemani, rimmergendosi nel passato: “Così, senza mangiare né dormire, Gesù frequentava in segreto i luoghi che erano stati suoi e dove pensava di ritrovare il cammino verso il suo Dio, quel cammino che era stato doppiamente offuscato dai tormenti della morte e dalle sorprese della resurrezione”.

Grosjean inserisce nella topografia dei luoghi attraversati dal Risorto i nomi di piccole località della Borgogna (Montussaint, Crénu, Puessans), dove a lungo aveva abitato con la moglie, nel paese di Avant-lès-Marcilly, e introduce oggetti, architetture, suoni, cerimonie e personaggi sia novecenteschi sia di epoche lontane (il condottiero cartaginese Annibale, l’imperatore Tiberio), a significare che la Resurrezione è evento che si produce e rimane al di là del tempo e dello spazio. Infine, davanti a una piccola folla di proseliti, viene assorbito da una nube, sollevandosi da terra, mentre il paesaggio si fa sempre più lontano e il cielo si avvicina. Raggiunge finalmente il Padre, si pone alla sua destra, e insieme si incamminano “nella grande frescura degli spazi”.

Il Gesù di Jean Grosjean ci appare umanissimo e divino, nella sua fragilità di creatura risvegliata dalla morte e nella forza luminosa di una rinascita destinata a durare in eterno.

 

© Riproduzione riservata     «La Poesia e lo Spirito», 6 aprile 2024