I

Non sono onde. Ne avrebbero forse
l’intenzione; increspature leggere,
rughe dell’acqua, e basta.
Non sarà mai tempesta,
questo lago, scarso coraggio
di farsi mare: se accoglie un fiume,
lo placa, lo annulla in una quiete
casta. E così niente corse né fughe
di pesci, ma vaghi girotondi,
guizzi di piume d’anatra in festa.
Bisogna aver paura di chi non sa osare:
laghi colline periferie.
Acque chete e profonde celano
malefici, stregonerie.

II

Di qua e di là i monti
a impedirgli di scappare da se stesso
lo incastrano guardiani, e lui
«Specchiatevi, torrioni,
narcisi, rimiratevi!»
Com’è forte e tranquillo
nei suoi limiti di roccia,
il lago:
non ha ponti o gallerie,
cime o dirupi,
non potrà mai franare.
Sempre uguale a qual era
sfida la morte,
ogni sorte futura;
eterno come il cielo, sicuro
come un dio senza paura.

III

La vela che lo solca, ne incide appena
la scorza in superficie, come un graffio
che subito sparisce sulla pelle
se lo bagni. Così il lago violato
ricompone intero il suo volto
di prima,
tacendo il mistero
di che pace affiori dal fondo.

IV

Il pescatore si rassegna al largo,
lasciato il molo, si consegna al lago;
al vuoto di confini e di pensiero
che confonde il suo cielo.
Non offre resistenza al silenzio
che varca coi remi, all’assenza
di onde, di vento possibile.
Sarebbe pronto a lasciare le reti,
la sua barca,
se appena uno – visibile a lui solo –
tentasse qualche passo sull’acqua,
avvicinandosi.

V

Il sole ha voglia di sciogliersi,
annullarsi nell’acqua, nascondersi;
non essere più sole. Dentro, nel lago,
si è fatto lago, luce che esplode
di chiaro, in fondo, caldo nel gelo:
suo cielo è un nuovo azzurro,
come all’inizio del mondo.

VI

Accarezza appena la pelle
del lago, lo scompone di un respiro
attento; vena d’aria
che vorrebbe riuscire a farsi vento.
Invece è solo brezza.

VII

Invaso dalla luce,
non è più azzurro, oggi.
E’ giallo, è oro; oppure
trasparente, un lago di cristallo
con minutissime scaglie di bianco.
Lo sguardo che lo osserva
da lontano, stanco di troppo chiaro,
cerca uno schermo codardo
nella mano.
Ma poi, fermo e persuaso,
si arrende alla violenza del sole, all’evidenza.

VIII

Motoscafi e voglie grasse
sporcano il lago:
pelle esibita lucida,
casse di birra. E i tuffi,
sbuffi di gas, sgolamenti
agitati.
Come offendono la sua seria
dolcezza, la sua riservatezza.
Lui scioglie nelle acque
ogni miseria di tanta vita,
rendendo conto al cielo
di ciò che è, soltanto al cielo.

IX

Naviga tranquillo e padrone,
il battello, sicuro del suo peso
-mischia di turisti plaudenti-
mentre altre barche si spostano
veloci, fanno largo,
«Attenti, passo io», fischia,
spaccone che si crede
vascello di Dio.

X

Fitta, battente, punge nell’acqua
come aghi, pioggia di ottobre
che non conosce tregua o pudore
e insiste, ferisce, inclemente
come Giove, gonfia di sé
il lago spaventato e incolore
– triste Danae che subisce,
quando piove.

XI

Con la nebbia svapora
ogni odore di vita, memoria
di estati, di colori.
Nella nebbia
il lago si ritrova e si perde,
senza tempo né storia: eterno,
immobile, pronto all’inverno.

XII

Silenziosa la neve sparisce inghiottita
dall’acqua, come non fosse mai
esistita: si cancella e tace.

Mentre a riva finisce bianca
sui sassi, dentro nel lago beve
una sua stanca pace.

 

 

In  Il lago, Lietocolle, Faloppio 1996; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000; in Il Pickwick, 9 agosto 2020.