Sabato, 29 ottobre

Da alcuni anni cedo a una tentazione. Non so se sia realmente un peccato, o solo una debolezza. Non ne ho mai parlato a Don Vittorino in confessione, e non ne ho fatto cenno alle mie consorelle. Di questa mia colpa veniale è al corrente unicamente il Padre, oltre a me: “In ogni luogo sono gli occhi del Signore”, “non v’è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui”. Spero nella sua indulgenza, poiché lui sa, comprende e perdona.

Anche stamattina, terminate le letture e le Lodi, sono uscita nell’orto, e di lì mi sono diretta nel fitto di alberi adiacente, compreso nella recinzione della nostra proprietà.  C’è una radura, chiara nel bosco, come scrive una delle maestre del mio pensiero.  La raggiungo, libera di me e del mondo, vuota nel vuoto.  Il sole tiepido mi aiuta a ripetere l’atto della spoliazione.  Seduta sull’erba, ho tolto il velo dal capo, poggiandolo per terra.

Sono rimasta, per alcuni minuti, a gambe incrociate nella posizione del loto, in omaggio a una tradizione secolare di illuminazione, distacco e rinascita che non appartiene alla mia religione, ma si manifesta comunque come insegnamento dello spirito. Raccolta in me stessa, nutrita dalle linfe del suolo da cui tutti nasciamo. Poi mi sono distesa, aderendo con l’intero corpo alla superficie erbosa. Senza la cuffia che mi copre le orecchie, senza il panno nero promessa nuziale al mio Sposo, i miei corti e radi capelli bianchi sono rimasti umilmente indifesi, offrendo la nudità della testa all’aria.

Perché nascondere che questo gesto, celato a chiunque, assume per me un significato di libertà, di affrancamento da qualsiasi vincolo, mettendomi in contatto con la mia fisicità di creatura, similmente a tutto ciò che vive e mi respira intorno: insetti, uccelli, lombrichi, foglie, fiori, terreno? Respiro a fondo, guardando il cielo che si apre sul mio guscio mortale, lontano in un’altezza irraggiungibile, eppure così vicino e avvolgente da possedermi come nell’unico amplesso che mi posso permettere.

“Ascolta, figlia”, sono le prime parole della regola di San Benedetto, a cui ho promesso obbedienza. “Apri docilmente il tuo cuore”. Mansueta, sottomessa a una volontà che non è la mia, sciolgo i lacci che mi stringono, e mi pongo in attesa, prestando attenzione al silenzio. “Shemà Israel”. L’ascolto si fa offerta di me, si fa accoglienza. Mi sento estranea al dubbio, all’opinione, al giudizio: indifferente all’accadere. Sdraiata, aspetto la rivelazione dell’Agnello, nel mio nulla, resa al nulla.

Difficile, dopo, recuperarmi al tempo, rientrando nel tempo. Trascorsa un’ora (o più, o meno: non so dire), mi sono alzata, rivestita del velo sul capo, incamminata verso la casa. Non ho pregato. Forse sono stata pregata da qualcuno.

Avvicinandomi al monastero, ho avvertito la pesantezza della chiusura. Clausura, da clausus. Salda nelle mura che mi difendono, custodita entro argini incrollabili, protetta dal male, tornavo a vivere come Suor Adele, madre superiora. Alzando gli occhi verso il primo piano, ho visto un’ombra scostarsi dietro l’inferriata del corridoio centrale. Maria mi aveva cercata? Temeva per me? Ho salito i gradini di fretta, sapendo quanto temesse lo stare da sola nelle stanze mute del convento.

Il portone, serrandosi dietro i miei passi, tornava a ripararmi da un esterno sconosciuto e minaccioso: “mia potente salvezza e baluardo”, dice il Salmo.

 

Da Il velo, Tau editrice, 2022