PÄR LAGERKVIST, IL NANO – IPERBOREA, MILANO 2017

Pär Lagerkvist (1891-1974) è stato uno dei maggiori scrittori svedesi, Premio Nobel nel 1951. Nato in un’umile famiglia contadina, dopo una rigida educazione pietistica, aderì al socialismo e, durante un soggiorno parigino, alle avanguardie letterarie. In tutte le sue opere (poetiche, teatrali e di narrativa) la tensione religiosa è predominante, come ricerca spirituale, sensibilità alla colpa e all’ingiustizia umana, e desiderio di fratellanza universale. All’avvento del nazismo, prese di mira le aberrazioni del potere nei romanzi Il boia (1933) e Il nano (1944). Dopo la guerra la sua ricerca di una risposta ai dubbi religiosi proseguì con Barabba (1950), che ebbe un grande successo internazionale, con La sibilla (1961) e con Marianne (1967). Il nano, pubblicato durante la seconda guerra mondiale, si può leggere come un’acuta metafora della tragedia bellica, determinata da volontà di sopraffazione, brama di potere, sete di vendetta.

Protagonista è un nano al servizio di un Principe in una corte rinascimentale italiana, probabilmente a Firenze, anche se scenari e personaggi storici rimangono indefiniti, e riconoscibili solo attraverso enigmatiche allusioni. Fornito di un’alta considerazione di sé, e di un altrettanto elevato disprezzo per gli esseri umani che lo circondano, vive la propria anomalia come tratto distintivo e indicativo di eccezionalità rispetto a chi gli è vicino. Voce narrante del romanzo, sarcastica e criticamente incisiva, così si descrive dalle prime battute: “Sono alto ventisei pollici, il corpo tutto proporzionato… Il mio volto è imberbe, ma nel resto precisamente identico a quello degli altri uomini… Sono fatto in questa maniera e non ci posso fare niente se gli altri non sono così… Mi sembra che il volto degli altri sia del tutto insignificante”.

Rosso di capelli, grinzoso nel viso, fornito di grande robustezza e di audacia di carattere, si vanta di discendere da una razza antica, nata già vecchia, e per questo mentalmente e fisicamente superiore ai suoi contemporanei, da lui genericamente e sprezzantemente definiti come “gli altri”. La disistima nutrita nei riguardi altrui non risparmia nemmeno i Signori di cui è alle dipendenze, non come buffone, ma come consigliere e confidente: il Principe, impenetrabile nei suoi disegni di dominio, ma ingenuamente sprovveduto; la Principessa Teodora, ordinaria, ignorante e dissoluta; la loro figlia adolescente Angelica, inespressiva e immatura. Il disgusto del nano è rivolto soprattutto alla corte, brulicante di gente corrotta e inutile, avventurieri e lestofanti, sedicenti artisti e scienziati imbroglioni, sgualdrine e ruffiani: tutti pronti ad adulare e a tradire. Di fronte a loro, la bassa statura del protagonista, e il continuo dileggio altrui di cui è vittima, sono indice di esclusione e auto-esclusione, persino nello sfrenato competere delle diverse malvagità che animano ogni personaggio.

L’odio viscerale che il nano prova verso gli esseri umani, la sua repulsione per ogni aspetto materiale dell’esistenza (cibo, sesso, arte, religione, sporcizia, povertà, malattia, amore) è riservato anche alla propria vita e corporeità, da cui mantiene una gelida e controllata distanza: “Ma io odio anche me stesso. Mangio la mia propria carne intrisa di fiele. Bevo il mio proprio sangue avvelenato. Ogni giorno compio il mio rito solitario, sinistro sommo sacerdote del mio popolo”.

Misantropo, misogino, prova soddisfazione nell’annientare gli avversari, sia che siano alleati o nemici del suo signore. L’unica figura verso cui nutre un timoroso rispetto, intuendone l’eccellenza intellettuale e morale, è Bernardo, anziano pittore e scienziato che presta i suoi servigi a corte, disegnando macchine da guerra, studiando le costellazioni, sezionando cadaveri e dipingendo quadri straordinari, tra cui affascinanti ritratti femminili e una grandiosa Ultima Cena. L’evidente richiamo a Leonardo Da Vinci non è l’unico omaggio alla storia e alla cultura italiana, ricordata anche in molti riferimenti letterari e architettonici.

Quando il Principe dichiara guerra al confinante casato dei Montaza, da sempre ostile, il nano ottiene di arruolarsi e di partecipare alle battaglie più cruente, saziando così la sua brama di sangue e di fama: “Voglio combattere, voglio uccidere! Non per procurarmi la gloria, ma per il piacere dell’azione, della gesta in se stessa. Voglio veder cadere uomini, vedere morte e distruzione attorno a me, là dove sono”. In seguito all’armistizio e alla proposta di pace imposta dalle grandi potenze nazionali, la Signoria mette in atto un diabolico piano di soluzione finale, avvelenando gli avversari durante un finto banchetto di riconciliazione: sarà proprio il nano a doversi occupare materialmente dell’eccidio. I terribili avvenimenti che ne seguono (un nuovo conflitto e il diffondersi della peste in città) provocano nell’animo del protagonista-narratore il radicalizzarsi di sentimenti estremi, sottolineati dal reiterato utilizzo degli stessi sostantivi: nausea, ripugnanza, disgusto. Le sue azioni, sempre più scellerate, lo condurranno a essere imprigionato e torturato, mentre l’intero suo universo mentale e sociale cade a pezzi. La figura abietta del nano, con la totale mancanza di pietà e di scrupoli morali che lo caratterizza, incarna l’abiezione dei tempi tragici in cui Lagerkvist compose il romanzo, che a ottant’anni di distanza mantiene tuttora la sua carica di dirompente denuncia morale, e continua a dimostrare una pregevole qualità di scrittura.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 17 marzo 2022