VIVIAN LAMARQUE, LA GENTILÈSSA – STAMPA 2009, BRUNELLO (VA) 2019

La poesia dialettale milanese ha una lunga e celebrata tradizione letteraria, a partire già dal medioevo per arrivare ai giorni nostri. I poeti lombardi che hanno scritto versi in vernacolo si esprimevano preferibilmente in italiano nelle loro composizioni ufficiali, destinate a un pubblico di lettori più vasto (dal seicentesco Carlo Maria Maggi, a Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Emilio De Marchi), forse in considerazione del fatto che la poesia dialettale si è sempre scontrata con il pregiudizio di utilizzare temi folkloristici, sentimentali, nostalgici o buffoneschi, prediligendo la descrizione di personaggi stereotipati, ridotti perlopiù a macchiette. Unica eccezione, il grande Carlo Porta (1775-1821), di cui recentemente Einaudi ha ripubblicato tutte le poesie, che ha composto esclusivamente in milanese, assurgendo a livelli di meritata fama nazionale. Nel ’900, due sono stati i poeti più importanti tra i “meneghini”, Delio Tessa (1886-1939) e Franco Loi (1930), la cui produzione si è riscattata dal bozzettismo, affrontando argomenti etici e di costume, di critica sociale e di affetti familiari, per lo più venati di un’inquietudine malinconica e assorta. Negli ultimi trent’anni, la poesia in dialetto ha conosciuto nel nostro paese una rinascita e uno specifico interesse anche da parte della critica più impegnata, che ha visto in essa una superiorità espressiva e un’originalità di contenuti in grado di opporsi all’omologazione culturale, contrapponendosi ideologicamente alle mode livellatrici e inautentiche del linguaggio ufficiale.

Vivian Lamarque, nata a Tesero (Trento) nel 1946, dall’età di nove mesi vive a Milano, dove ha lavorato come insegnante e traduttrice, autrice di testi per l’infanzia e collaboratrice di importanti testate giornalistiche, segnalandosi soprattutto in quanto poetessa tra le maggiori e le più originali del nostro paese. Nel 2009 ha pubblicato La gentilèssa, una raccolta di venti liriche dialettali, ora riproposta dalle edizioni Stampa 2009, con la prefazione di Maurizio Cucchi e un’interessante intervista rilasciata a Mary Barbara Tolusso. La sua scrittura in un milanese urbano, garbato (che magari ci riporta un po’ l’atmosfera e le ambientazioni di alcune canzoni di Gaber, di Jannacci, dei Gufi), ha le stesse tonalità sospese, leggere, delicatamente cantilenanti che troviamo in molte delle sue poesie in lingua:  «Milàn  brütta bèlla / lassem andà / ‘l me amur ‘l m’ama no / ‘l me amur  m’ama no», «adèss l’è grand / ‘l gh’à ‘lso de fa / i lusert de cercà / i bus de scavà / ‘l pustin de baià…».

Sono poesie che Vivian ha scritto molto tempo fa, tra il 1972 e il 1975, «in anni oscuri» in cui ha sofferto e fatto soffrire, come scrive in esergo. Allora il dialetto diventa la lingua che accoglie e accarezza, benché non sia quella nativa della poetessa, nata in Trentino e poi adottata da una coppia milanese: ma è comunque una lingua respirata nell’aria degli anni ’50, tra la gente in strada, nei negozi, nei cortili dei giochi. Come giustamente commenta Cucchi “è un ulteriore tentativo naturale di portarsi a una condizione primaria di innocenza”: lingua del sogno, della fiaba, della memoria e dell’innamoramento.

Le immagini che si rincorrono nelle pagine risultano commoventi nella loro discrezione, mai retoriche o abusate. Sia quando descrivono l’attesa di una lettera con un’intestazione affettuosa («la data / e sott la parola ‘cara’ / cara e ‘l me nom visin»), ma che non si apre temendo un addio, o l’emozione di una telefonata a cui per troppa gioia non si sa rispondere, o la richiesta al papà di poter fare un giro in bici («Sto ferma ferma / moeuvi no i gamb / mèti no i pé in di roeud / parli no / famm fa un gir in bicicletta / gh’oo ses an / pesi minga tant, papà»).

Il libro è omaggio alla virtù ormai tanto trascurata, quando non vilipesa, della gentilezza: nei rapporti con le persone, con gli animali, con la città, il cielo e le nuvole. Gentilezza che è anche comprensione, indulgenza, fine attenzione ai sentimenti altrui, e che fa sorridere il cuore, gli occhi e persino gli occchiali: «Come me pias a mi la gentilèssa / come me pias diventi matta / duu parulitt al moment giust / ‘n attenzion minimissima de nient / ‘l foo parè no ma diventi matta / me riden el coeur i ceucc / e financa i occiaj / come l’è bèlla la gentilèssa / come l’è gentil / la me fa tant ben ma tant / denter de mi / che diventi matta».

Vengono in mente, leggendo queste poesie esili e cortesi di Vivian Lamarque, due bei versi di un altro poeta gentile, Sandro Penna: «La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta».

 

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20 maggio 2019