PATRIZIA MANGANARO, PENSIERO ED EMPATIA
Patrizia Manganaro è Docente Ordinario di Storia della Filosofia contemporanea e di Filosofia del linguaggio alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha all’attivo numerose pubblicazioni tra saggi, monografie e volumi collettanei: Empatia (EMP, Padova 2014); Persona-logos. La sintesi filosofico-teologica in Edith Stein (Lup 2015); Narcisismo (EMP, Padova 2016) sono tra i suoi libri più recenti.

 

In quale maniera l’ambiente in cui è nata, cresciuta e in cui si è formata culturalmente ha influenzato le sue scelte intellettuali e professionali?

Ho deciso che “da grande” avrei fatto l’insegnante all’età di otto-nove anni, stimolata dall’ambiente scolastico di Bergamo e poi di Roma, la mia città di adozione. Un giorno, tra i libri di mio padre, ho trovato La nausea di J.-P. Sartre. Avevo dodici anni e, da allora, non mi sono più separata dalla filosofia. Non me ne sono mai pentita, anche quando si diceva che non mi avrebbe dato un futuro. All’Università “La Sapienza” di Roma ho ascoltato maestri autorevoli: Francesco Valentini, ordinario di Filosofia teoretica, che mi ha insegnato a leggere Hegel e con il quale ho discusso una tesi sul razionalismo critico di Antonio Banfi; e poi docenti del calibro di Marco M. Olivetti, Gennaro Sasso, Tullio De Mauro, Gabriele Giannantoni, Tullio Gregory, Manlio Simonetti. Ricordo il primo giorno di lezione universitaria a Villa Mirafiori, sede della Facoltà di Filosofia: rimasi incantata dalle riflessioni del docente sul tema della temporalità in Anassimandro, Platone, Agostino, Tommaso, Kant, Heidegger. Laico, raccomandava a noi studenti la lettura del Prologo del Vangelo di Giovanni. È stato un consiglio intelligente e lungimirante, di cui ancora lo ringrazio. Io ero già credente: credente e interrogante. Dopo la Laurea, ho conseguito il Dottorato in Filosofia all’Università Lateranense, con una ricerca sulla fenomenologia dell’alterità e dell’intersoggettività, poi pubblicata da Città Nuova con il titolo Verso l’Altro. L’esperienza mistica tra interiorità e trascendenza nel 2002. In questa Università ho approfondito la lettura filosofica dell’esperienza mistica e, sotto la guida di Angela Ales Bello, la fenomenologia della religione.

Quali sono i filosofi, classici e contemporanei, che più hanno contribuito alla costruzione del suo pensiero critico?

D’istinto, direi Ludwig Wittgenstein e Edith Stein. L’uno mi ha insegnato l’importanza del logos come linguaggio, come “gioco” condiviso, mentre dall’altra ho appreso la grammatica fenomenologica del “sentire” e l’epistemologia analitica dei vissuti coscienziali di matrice husserliana. Ma in realtà sono molti e, per evitare un arido elenco, direi piuttosto qualcosa su alcuni testi che hanno contribuito alla progressiva stratificazione del mio pensiero, attraverso l’esperienza della lettura, dell’ascolto e della riflessione. In gioventù, i dialoghi di Platone Parmenide e Sofista sono stati formativi da un punto di vista teoretico: il primo concerne la questione dell’uno e dei molti, del tutto e delle parti, con formidabili incursioni sul tema del tempo, del divenire, dell’istante: mi ha insegnato il valore dell’aporia, la capacità di elaborare un tema filosofico, le sue molteplici possibilità di articolazione e di scandaglio, il gusto per il gioco intellettuale e l’esercizio del pensiero; il Sofista, che discute il tema del non-essere come differenza, mi ha aperto nuove strategie di comprensione di quel “non”, che a volte fa paura. I libri X e XI delle Confessioni di Agostino sulla memoria e sul tempo sono uno straordinario documento del quaerere della ragione, del cercare domandando piuttosto che del superbo affirmare. Qui ho imparato l’umiltà del pensiero e, insieme, la sua forza. Insegnando Storia della filosofia contemporanea, segnalerei almeno il criticismo di Kant e gli Scritti teologici giovanili di Hegel, insieme alla Scienza della logica. Tutto Nietzsche, assolutamente geniale, unico, lucido nella sua esaltazione: le sue parole feriscono, tagliano come lame, costringono a pensare, quasi ti inchiodano. E ancora, le Idee di Husserl per l’esplorazione dell’intenzionalità della coscienza e l’elaborazione di un criterio metodologico innovativo, con una serie di potenzialità che ritengo, almeno in parte, inesplorate; e il pensiero di Wittgenstein, dal Tractatus alle Ricerche filosofiche, sino ai suoi diari, così traboccanti di umanità. Edith Stein per lo studio filosofico della persona umana, della coscienza religiosa e mistica; Hannah Arendt, Martin Buber, Hans Jonas, Jacques Maritain, e molti, molti altri. Tra i contemporanei italiani, il Diario fenomenologico di Enzo Paci mi è particolarmente caro, per la squisita sensibilità filosofica.

La filosofia rimane un ambito di riflessione per pochi, o può ambire a raggiungere e a motivare intellettualmente un pubblico più vasto?

La filosofia è una disciplina tecnica, non c’è dubbio. Ma sarebbe uno sbaglio lasciarla agli “addetti ai lavori”, come se fosse soltanto mera erudizione. Con la filosofia, è possibile costruire la pace. Come? In primo luogo, incarnandola, testimoniandola, perché studiare rende liberi: è un diritto, prima ancora che un dovere. In secondo luogo, imparando ad ascoltare: anche chi è più distante, anche il pensiero che non condividi ti arricchisce e diventa un bagaglio prezioso. Credo nel valore dell’educazione e sono convinta sostenitrice dell’insegnamento della filosofia sin dalle scuole elementari, se non prima, per formare le coscienze dei futuri cittadini al bene comune e affinare la sensibilità di tutti e di ciascuno. Sì, perché logos e pathos non sono contrari, ma complementari. La filosofia, diceva Wittgenstein, è un lavoro su di sé, è una terapia (non nel senso di Freud, per il quale la civiltà genera patologia, ma nel senso squisitamente ellenico della therapeia, che significa “servizio”, “cura”). A scuola, abbinerei l’avviamento alla filosofia alla pratica dello yoga, che estende la coscienza della complessità che siamo, a partire dal corpo. Quando entro in classe, prima di iniziare la lezione invito gli studenti a un momento di riflessione e, per chi lo desidera, di preghiera, in silenzio: in quel momento, ciascuno è con se stesso e tutti sono solidali con tutti, e questa è già comunità, condivisione, documento della propria e dell’altrui umanità. Homo sum: humani nihili a me alienum puto, scriveva Terenzio, e io cerco di combattere l’indifferenza con la filosofia. Inoltre, c’è già uno scopo didattico: gli studenti fanno esperienza concreta del legame tra pensiero e linguaggio, nonostante il silenzio, anzi proprio grazie al silenzio. Che a quel punto non è un limite, ma una potenzialità nuova, e più ampia.

Insegnando all’Università Lateranense di Roma, immagino che lavori in un ambiente vincolato a una precisa ideologia e scelta di campo teorica. Non ritiene ciò un possibile limite alla libera indagine filosofica?

La filosofia è una disciplina autonoma, con un proprio statuto epistemologico, i suoi metodi, i suoi criteri. La Facoltà di Filosofia dell’Università Lateranense è frequentata da studenti e studentesse provenienti da tutti i continenti del mondo, persino dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente; i laici e le donne sono ben rappresentati; discutiamo Tesi di Laurea e di Dottorato in inglese, francese, portoghese, spagnolo, superfluo sottolineare come l’ambiente internazionale favorisca lo scambio interculturale e l’apertura a realtà altre. Qui gli studenti non sono meri numeri di matricola, ma persone, e la nostra docenza riflette l’idea e la pratica del personalismo filosofico, la dignità della persona umana. Non mi sembra un limite, ma un valore aggiunto. Direi inoltre che la fede non è un fatto privato, ma interiore. Pensare che sia un ostacolo per la ragione è un pregiudizio smentito dalla storia, un luogo comune. L’esperienza del limite, della finitudine, della sofferenza, la domanda sulla vita e sulla morte aprono la ragione filosofica alle questioni più brucianti, più radicali: l’infinito, la trascendenza, il bene comune, la bellezza, la pace. L’indagine filosofica del filosofo credente è e rimane libera: prendiamo un Pareyson, che ha messo a tema la questione dilaniante del male e della libertà, persino in relazione a Dio. Prendiamo il pensiero ebraico, la spinosa questione del pensare Dio dopo Auschwitz. Insegno storia della filosofia contemporanea e dedico molto tempo allo studio dei “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud, che hanno saputo capovolgere molti luoghi comuni, invitandoci a riflettere, ad approfondire, a ricercare sempre e di nuovo. Il pensiero è sempre arricchente, la filosofia è un invito a pensare lo spazio pubblico, mentre non manca di rivolgersi ad intus.

Nella società attuale, così individualistica e attratta da valori effimeri – quali il successo economico e l’esibizione personale -, un forte richiamo etico e teologico suscita ancora interesse, ha una reale presa sul pubblico, soprattutto tra le giovani generazioni? Non le pare che tutto stia scivolando verso derive di disinteresse e apatia, in qualche modo veicolate da superficiali richiami mediatici?

Insegno da molti anni e non è questa la “fotografia” dei giovani che l’esperienza didattica mi ha offerto. Nella maggioranza dei casi, i giovani hanno chiesto cura, attenzione, impegno, passione, solidarietà, valori, creatività, professionalità. Non hanno perso la capacità di domandare, di interrogare, di porre questioni, di incuriosirsi, di stupirsi, di fare comunità. Hanno anzi mostrato interesse per questioni almeno in parte nuove: le neuroscienze, l’ecologia, gli animali, l’ambiente, la bioetica. Penso siano segnali importanti, da cogliere e ac-cogliere. Non ignoro alcune preoccupanti derive, come lo scollamento tra insegnanti e genitori, o la crisi che logora un sapere ormai frammentato, ma non identificherei le giovani generazioni con “il pubblico”, perché il sapere non è uno “spettacolo”; e i filosofi non sono gli opinionisti o i frequentatori dei salotti mediatici, ma si pongono al servizio del pensiero, cioè dell’umano. Ho affrontato questi temi da due punti di vista diversi, nei volumetti Empatia (2014) e Narcisismo. Tre riflessioni liquide (2016), cercando un linguaggio duttile, fluido, plastico, per dire che l’indifferenza, l’apatia, la visibilità a tutti i costi, l’anestesia del sentire sono i mali del nostro tempo, uniti alla solitudine di massa, ancor più inquietante perché virtuale. La figura di Narciso, in questo senso, è emblematica, perché ama un’ombra, e la prende per corpo. Ma Narciso muore nel momento in cui si rende conto di essere uno, di essere solo. Sta a noi adulti dare per primi l’esempio, prendendoci la responsabilità dei nostri gesti, azioni, comportamenti, parole, relazioni. Sta ai cosiddetti intellettuali suscitare un pensiero critico, maturo, svincolato dai luoghi comuni e dalle tendenze omologanti: questo significa, semplicemente, lavorare sulla qualità. Avere cura. Mettersi al servizio dell’altro e testimoniare, così, la libertà del pensiero.

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