HISHAM MATAR, UN PUNTO DI APPRODO   ̶   EINAUDI, TORINO 2020

Due anni dopo il romanzo autobiografico Il ritorno, premio Pulitzer nel 2017, Hisham Matar pubblica sempre da Einaudi Un punto di approdo, riprendendo in parte i precedenti spunti narrativi, ma facendoli lievitare in un contesto assolutamente diverso, italiano e artistico. Hisham, nato a New York nel 1970 e cresciuto a Tripoli, è figlio di Jaballa Matar, un diplomatico libico oppositore del regime, di cui tuttora non si conosce la sorte successiva al suo rapimento e alla prigionia nel carcere di Abu Salim.

Nel 1990, anno della sparizione del padre, Hisham aveva diciannove anni e viveva a Londra (città dove tuttora risiede), e passava molte giornate alla National Gallery a osservare i capolavori della pittura medievale senese, impressionato dal loro misterioso e sconvolgente fascino: “Ho scoperto che un dipinto richiede tempo. Ora impiego parecchi mesi o più spesso un anno prima di riuscire a passare oltre. E nel frattempo quel quadro diventa un luogo mentale e fisico della mia vita”.

Qualche anno fa, Hisham Matar, stremato dal lungo lavoro introspettivo richiestogli dalla composizione del suo romanzo di maggiore successo, decise di recarsi a Siena per meglio approfondire il suo interesse per l’arte italiana: una vera e propria dipendenza emotiva. Accompagnato nei primi giorni del viaggio dalla moglie Diana, subito si immerse in un girovagare affrancato da ogni vincolo di finalità pratica, in una flanerie disponibile a lasciarsi impressionare da qualsiasi oggetto, architettura, fisionomia umana, paesaggio naturale suscitasse in lui eventuali suggestioni.

Un vero inno d’amore per la città affiora dalle descrizioni delle prime pagine: “Le curve improvvise dei vicoli e la prossimità degli edifici accrescevano la mia sensazione di entrare in un organismo vivente. A ogni passo mi ci insinuavo un po’ di più ed esso, quasi in risposta, mi faceva spazio. Ero entrato in un posto familiare e del tutto sconosciuto… Ricordo di aver pensato che una delle principali funzioni delle città è proprio questa: essere lì in parte per renderci più intelligenti e più intelligibili l’uno all’altro”.

La scelta editoriale einaudiana di titolare il romanzo in modo diverso rispetto alla versione inglese (A month in Siena) non risulta affatto peregrina, poiché intende sottolineare l’avventura intellettuale vissuta dall’autore nel senso di uno sbarco e ancoraggio in una nuova dimensione spirituale. Infatti l’esperienza compiuta da Matar nel mese trascorso a Siena, è stata per lui, scrittore ormai maturo e affermato, rigenerativa e insieme trasformatrice: l’emozione suscitata dall’immersione visiva negli affreschi di Duccio di Boninsegna, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti, è diventata stimolo a una riflessione sugli avvenimenti basilari della propria vita, sulle presenze e assenze che ne hanno segnato indelebilmente il percorso.

Le considerazioni dello scrittore sui quadri ammirati e studiati nella città toscana costituiscono dei veri e propri piccoli trattati di critica d’arte. Il capitolo dedicato alla contemplazione dell’Allegoria del Buon Governo (il volume è corredato da illustrazioni a colori) è un puntuale commento della visione filosofica e storica alla base delle soluzioni pittoriche praticate da Lorenzetti. E da ciascuna delle opere d’arte osservate, Matar trae spunto per annodare collegamenti ad altri quadri antichi e moderni, a ricordi di incontri avvenuti in diverse epoche e luoghi della sua esistenza, all’ intenso legame con la moglie, alla memoria lancinante per la nobile figura del padre scomparso, o semplicemente ai sogni e agli incubi notturni. E soprattutto alla storia contemporanea, alle sue ingiustizie a atrocità, per cui anche la crudeltà dello sgozzamento di Golia da parte del Davide caravaggesco ha la funzione di far meditare sulle sanguinarie esecuzioni del terrorismo internazionale.

L’osservazione dei capolavori pittorici assume un valore di svelamento della condizione umana, del suo patire come del suo essere felice, nella relazione intessuta tra l’artista e la sua epoca, tra un quadro e chi lo guarda, tra un particolare colore e un trasalimento dell’anima, nella convinzione che “quanto ci accomuna sia più di quanto ci separa”.  L’arte ha il potere di cambiare il nostro modo di guardare a noi stessi e al mondo, di aprirci a meglio esplorare ciò che ci circonda, in una condivisione del sentire che è immersione nei secoli di storia che ci hanno preceduto e nella proiezione di un futuro sempre più perfettibile.

Un romanzo particolare e nuovo, questo di Matar, reso di piacevole lettura grazie anche alla limpida traduzione di Anna Nadotti.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 24 settembre 2020