Avevo un amico: si chiamava Ezio come mio padre; ma – viste le sue dimensioni – per tutti noi era Ezzino. O anche Scooterino, perché correva velocissimo, imitando con la bocca accelerazioni e frenate di una moto. Avevo anche un’amica, che per curiosa coincidenza si chiamava come mia madre, Liliana. Così io mi trovavo a ripetere nei giochi i due nomi che mi erano più cari e vicini in casa: ma con quale altra intonazione, più imperiosa ed esigente, o più allegra e sfottente. Li dissacravo, quei nomi troppo sacri, nel momento stesso in cui li attribuivo ai miei compagni.

Oscillavo nelle preferenze tra la violenta irruenza del maschio che mi trascinava a intrepide esibizioni, e la riposante mansuetudine della femmina, che offriva ai miei sudati ritorni il riparo ombroso di tazzine e bambole allineate ad attendermi.  Con Ezzino non parlavo mai di matrimonio, non sprecavamo il nostro tempo in scimmiesche imitazioni dei ruoli di papà e mamma; piuttosto vigeva tra noi una virile solidarietà di gusti e imprese, che mi vedeva spesso succube, scudiera fedele alle esigenti prodezze del mio cavaliere.

Con le nostre biciclette avevamo scoperto anzitempo il brivido del cross in campagna, poi le corse sbucciate nei ginocchi a nasconderci nelle canalette, e battaglie di pere acerbe contro i nemici al di là dei muri di cinta, e assalti ai muretti stessi. Ma il divertimento più rischioso era quello che chiamavamo “il volo”, buttarsi giù da un’altezza di tre metri o più sul fieno ammucchiato per terra, o sulle foglie secche. Ezzino spronava la mia paura con motteggi crudeli, mi chiamava donnetta, a volte mi spingeva lui nell’abisso. Perché il mio amico voleva diventare paracadutista o scalatore: non aveva ancora ben deciso. Io lo veneravo; volevo essere come lui, meglio, essere lui. Se mia madre mi accordava la grazia di non costringermi a indossare le gonne, ecco che potevo – coi miei capelli cortissimi, lo sguardo più sicuro di cui fossi capace – diventare maschio. Maschio, piantarla con tutte le smancerie e lo stare composte cui vengono costrette le bambine. Saltavo il muro, e tradivo le mie consorelle, disprezzandole, irridendole.    Mi scelsi presto un nome, che assunse subito alle mie orecchie il segno di un destino: fui Oliviero, e mai nessuno, ero certa, aveva foggiato per sé una seconda pelle tanto aderente quanto quella che mi ero creata. Rinnegai la mia assurda desinenza in a, il nome dolce e inusuale che mi avevano imposto. Oliviero, decisi: e fosse valido davanti a tutti. Chiesi come regalo di compleanno uno schioppetto da portare a tracolla: non me ne separavo mai. Dormendo, lo nascondevo sotto il cuscino.

Tentassi in questa maniera, da bambina eccessivamente sensibile e morbosamente malinconica qual ero, di consolare i miei genitori del mancato arrivo di un erede; cercassi di alleviare in me il senso di colpa per non essere stata io, quello da loro tanto aspettato, non saprei dire. Avevo comunque deciso (omaggio ai miei oppure a me stessa) di cancellare ogni traccia della femmina che ero stata: a cinque anni. Le mie sorelle illanguidivano sullo sfondo di un rapporto insipido, loro che sembravano addirittura contente della propria miseria. Tranquilla e soddisfatta della mia scelta, ero capace ancora di giochi pacifici, quasi femminili. Raccontare storie, recitare, ballare, non toglievano nulla alla mia esibita virilità. Seduta su una panchina, tra i miei due amici, Ezzino e Liliana, mi sentivo partecipe della natura di entrambi, e felice.

Stavamo lì a passare le ore riempiendoci la bocca di frasi insulse, a volte inseguivamo il nonsenso, l’assurdo, fino a morirne dal ridere o a esserne terrorizzati. Fu per prima la Liliana a proporci di ripetere all’unisono e ad libitum la stessa parola, finché essa perdesse i suoi contorni, assumesse altri significati, si stravolgesse. Ricordo che tentammo un esperimento continuando a sillabare insieme “la Puglia”, che io non sapevo cosa fosse, ma la mia amica sì. E lapuglia divenne dopo poco pugliala, e poi glialapu, e in seguito più niente: vocali miste a consonanti, puro suono. Più coinvolgente ancora fu riproporre lo stesso gioco col nome del nostro paese, “Lupatoto”: ridicolo, fatto apposta per essere smontato e ricomposto: tolupato-totolupa-patotolu. Già il nome tutt’intero invitava alla risata: ma così riconciato e irriconoscibile ci pareva una formula per chissà quale sesamo.   San Giovanni Lupatoto – nella sua martellante metrica ottonaria – si prestava anche a venire etimologicamente interpretato in maniera diversa: sapevo da mio padre che il paese anticamente era stato infestato dai lupi; ma Ezzino sosteneva invece che di lupi ce n’era uno solo, e femmina, e Toto era il valoroso cacciatore che l’aveva uccisa. Noi altre propendevamo a credere in un miracolo liberatorio di San Giovanni, perché mai sennò dedicargli la fiera paesana?

Perfettamente contenti, perfettamente uguali, noi tre ci amavamo senza dircelo, Liliana Ezzino e Oliviero. Finché un giorno si ruppe l’idillio, finì l’incantesimo; non posso dire se la stessa cosa sia successa anche ai miei amici: ma io cambiai, non fui più la stessa di prima. Quel giorno appunto, alla fine di un innocente gioco a tre, Ezzino annunciò che gli scappava la pipì, e ci chiese di fargli compagnia. Non so quanta malizia ci fosse nei miei compagni, entrambi abituati a un’educazione promiscua, tra fratelli e sorelle: so però che io ero un Oliviero ingenuo e ignaro, sicura che al mondo fossimo fatti tutti allo stesso modo. Dunque decidemmo di isolarci un poco, non di nasconderci, ma comunque di prestare un paravento al nostro pudore; ognuno si scelse una panchina, infilandosi tra essa e la siepe, in modo che fossimo riparati da espliciti sguardi esterni, ma tra noi si aprisse un solidale corridoio di occhiate.

Liliana accucciata alla mia sinistra, Ezzino in piedi alla mia destra, con una mano a pugno dietro la schiena e l’altra a sostenere chissà cosa che zampillava. Io zitta ancora, ma con i pantaloni già abbassati, pronta a calarmi giù le mutande. Ipnotizzata da lui, da cosa e da come facesse: una mostruosità di pipì; tranquillizzata dalla mia amica che placidamente aveva quasi finito e mi esortava «Dai, dai!». «Devi abbassarti, tu sei una femmina!». Condanna e rivelazione, le parole irridenti di Ezzino mi umiliarono alla mia funzione biologica, mi schiacciarono nel mio ruolo non più rinnegabile. Mi abbassai, lasciando che la pipì mi spruzzasse scarpe e calzetti, osservandone attentamente le goccioline come se nient’altro, ormai, meritasse più attenzione.

Di colpo alle spalle uno scalpiccio affrettato sulla ghiaia, un’ombra proiettata al mio fianco e stridula la voce – di una o due tonalità più alte del necessario – della signora Gignol. «Cosa fate? Cosa state facendo?» Ci aveva sorpreso in flagrante, lei che era la signora più elegante e impettita del paese, che sembrava avesse ingoiato un bastone quando, con la figlia inamidata, tutt’e due con in testa lo stesso chignon, camminavano rigide a disprezzare il mondo: lei era alle nostre spalle e avanzava col suo dito puntato su me, proprio su me che ancora mezzo scoperta la guardavo spaventata. «Tu? Tu! Da te non me lo sarei mai aspettato! Con la mamma che ti cura tanto… Con le tue sorelline così educate…», e poi non trovando altro epiteto alla sua indignazione «Maschiaccio!», esplose, e ancora «Telefonerò a tua madre, per dirglielo».

Ignorò i miei amici, mi girò le spalle, e generalessa si avviò per andarsene, la signora Gignol con il suo chignon, sdegnata per il mio ignobile comportamento, gni gni, gni gno, la signora Gignol più severa di Dio, col suo dito alzato a minaccia, lasciandomi ignara ignava ignuda, in preda a ignota ignominia. Mi alzai e mi tirai su i calzoni, col cuore che mi usciva dalla gola, e prendendo per mano la mia colpa, corsi a casa, a tentare di far finta di niente con la mamma.

 

 

In Appuntamento con una mosca, Stamperia dell’ArancioSan Benedetto del Tronto 1991, in  Inverni e primavere (e-book) 2016 e in Gli Stati Generali, 30 marzo 2022