VICTOR SERGE, ANNI SENZA PERDONO – PAGINAUNO, MILANO 2022

Proveniente da una famiglia di rivoluzionari russi, Victor Serge (Bruxelles 1890 – Città del Messico 1947), anarchico dall’adolescenza, dal 1912 al 1917 fu imprigionato in Francia. In Russia aderì al bolscevismo e a partire dal 1926 partecipò all’opposizione di sinistra ispirata da Trockij. Arrestato nel 1928, venne confinato fra il 1933 e il 1936; espulso dall’URSS, visse in Belgio, in Francia e dal 1940 in Messico. Nella sua intensa attività pubblicistica sviluppò un’acuta critica di ispirazione socialista allo stalinismo. Sua opera principale è l’autobiografia Memorie di un rivoluzionario; l’ultimo fra i suoi romanzi fu Gli anni senza perdono, pubblicato postumo nel 1971 e ora riproposto dalle edizioni Paginauno.
I due racconti di cui si compone il volume (Il vicolo di San Barnaba e L’ospedale di Leningrado) sono ambientati nella Russia degli anni Trenta, in pieno stalinismo, e risentono entrambi dell’atmosfera cupa determinata non solo da una povertà diffusa e dalle prevaricazioni esistenti tra la popolazione civile, ma soprattutto dalla coercizione politica messa in atto dal regime sovietico nei confronti di qualsiasi dissidenza.
Ne Il vicolo di San Barnaba, uscito per la prima volta nel 1931, è l’aspetto umano della vicenda che attira l’attenzione dei lettori, perché in uno scenario di miseria, fame, solitudine e abbrutimento fisico si innestano processi di malvagità e sopraffazione reciproca tra esseri umani che condividono la stessa sofferenza.
In una Mosca in cui i cittadini sono costretti a fare lunghe file davanti alle panetterie e ai pochi negozi alimentari rimasti aperti, in cui si consumano quotidianamente centinaia di furti e violenze fisiche, e le forze dell’ordine si lasciano facilmente corrompere, non viene garantito né il diritto alla salute, né quello all’abitazione: a ciascun paziente i rari dottori a disposizione possono dedicare solo otto minuti di consultazione, e nessun abitante o nucleo familiare può avere in locazione più di nove metri quadri di spazio domestico. Sporcizia, epidemie di tifo e scorbuto, rachitismo, mancanza di medicinali, baratto di cibo e mercato nero si diffondono tra la popolazione sconfortata e litigiosa.
Il disfacimento del corpo di Lenin nel Mausoleo dedicatogli nella Piazza Rossa, diventa metafora del fallimento degli ideali rivoluzionari, mentre il finto attivismo di una mancata ricostruzione della capitale viene celebrato da una propaganda martellante e ipocrita: “esortatevi l’un l’altro al successo, alla vittoria, al socialismo, questa città è un’immensa trireme e noi ne siamo i vogatori – cantate e remate, ancora uno sforzo, il porto è vicino… Le rotative moltiplicano il ritmo, le canzoni del lavoro vengono diffuse dalle onde aeree, lo schermo le imprime nei cervelli, i manifesti urlano, forza, compagni, in coro!”
Se le ruspe abbattono vecchie chiese e tuguri mentre l’attività edilizia tenta convulsamente una ripresa anche impiegando manodopera straniera, la guerra tra poveri non ha tregua, e nel Vicolo Sa Barnaba si vedono “persone muoversi simili agli insetti, uscire per un istante dalle tane, in abiti di grisaglia… letame della storia”.
La vecchia Anissia vive da sola in una camera umida e buia, le cui pareti sono tappezzate da decine di icone sacre cui l’anziana dedica continue preghiere e domande di intercessione per i peccati del mondo. Rinsecchita, maleodorante e malata, è circondata dall’ostilità e dal sospetto dei vicini (“quell’odio infinito per il prossimo che la miseria fa nascere nell’uomo”). La convivenza forzata rende le persone crudeli e fameliche, invidiose anche del poco posseduto dagli altri: “Come le disgrazie, un tetto avvicina gli uomini senza unirli”. La stanzetta di Anissia fa gola a tutti, poveracci e professionisti, soldati e madri di famiglia: l’assedio intorno all’anziana, in attesa che la sua agonia si concluda, innesca una disumana competizione tra i vicini, in un susseguirsi di omertosi silenzi e dispetti vicendevoli, finché la vecchietta inaspettatamente riprende vigore, si alza dal suo giaciglio ed esce dal condominio brulicante per andare a comperare il pane, in fila tra tanti disperati come lei.
Il secondo racconto, L’ospedale di Leningrado, è più caratterizzato politicamente, e la sua denuncia contro il potere coercitivo che annulla le libertà individuali e mette a tacere il dissenso assume toni sarcastici e indignati. Emblematiche sono le righe di apertura del testo: “Nel 1923, mentre abitavo a Leningrado, conobbi direttamente la psichiatria e le sue istituzioni poiché una persona a me carissima era stata colpita dai sintomi della malattia mentale. In quegli anni già correvano avvenimenti inquietanti: alla carestia nelle città e alla miseria nelle campagne si accompagnavano le prime avvisaglie del terrore; oscuri omicidi e implacabili persecuzioni colpivano i tecnici, gli oppositori del Regime, i contadini e persino le idee. Io ap partenevo alla categoria dei dissidenti; il che si gnificava che ogni notte, nel cuore del sonno, mi destavo al primo rumore, immaginando i passi di quelli che salivano lentamente le scale per venire ad arrestarmi…”.
Invitato da un amico medico a visitare l’ospedale psichiatrico di San Giovanni Dispensatore di Miracoli a Leningrado, Victor Serge rimane da subito impressionato dall’aspetto fatiscente e sinistro dell’edificio, “un piccolo inferno ignorato dal mondo”. Assiste all’arrivo di detenuti scaricati dalle camionette della polizia politica, la Ghepeu: gente comune, spaventata e dimessa, “grumi di uomini taciturni, di donne sospette, avvolti da tutti i colori della miseria”. Condannati a lavori forzati in Siberia per piccoli reati (contrabbando, spaccio di alcol, furto), e poi di nuovo internati in clinica, brutalizzati, sedati con psicofarmaci. L’incontro con uno dei degenti, Nestor Petrovi ch Iouriev, si rivela illuminante. Uomo colto, amico personale di molti letterati, collezionista di testi rari, fornito di una sottile capacità di analisi, segregato in quanto controrivoluzionario, Iouriev aveva scritto, stampato e diffuso un Appello al popolo in cui invitava i cittadini e gli intellettuali russi a liberarsi dalla paura che controlla gli animi, avvilisce il pensiero, oscura l’intelligenza.
“I lavoratori hanno paura di morire di fame se non rubano, paura di rubare, paura del Partito, paura del piano, paura di sé medesimi. I colpevoli hanno paura di confessa re il loro misfatto, gli innocenti hanno paura di non aver niente da confessare e di essere inno centi. Gli intellettuali hanno paura di capire e di non capire, di poter comprendere o di non po ter comprendere. Gli ideologi hanno paura delle idee, i credenti hanno paura di essere scoper ti e hanno paura di tradire la loro fede. Il popo lo ha paura del potere e il potere ha paura del popolo… Al vertice dello Stato, gli uomini che occupano le più alte cariche politiche, hanno paura gli uni degli altri; hanno paura di agire e hanno paura di non agire, hanno paura della crisi economica, paura delle conseguenze dei loro stessi gesti, paura delle masse, paura della guerra. Il capo ha paura del proprio seguito, al punto da temere il veleno in un semplice bicchiere d’acqua e da diffidare delle sue più fedeli guardie del corpo. Ma a sua volta il seguito ha paura ed è terrorizzato dal capo…”.
Parole scritte un secolo fa, che sebbene rivolte al sistema liberticida staliniano, stigmatizzano qualsiasi tipo di potere antidemocratico, anche attuale e di diversa colorazione politica, là dove l’anticonformismo ideologico, la protesta sociale, la refrattarietà all’omogeneità dei costumi e delle mode imperanti produce isolamento, discriminazione, persecuzione; da sorvegliare e punire, come ci ha insegnato Foucault, e come ben ha sperimentato sulla sua pelle Victor Serge.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 giugno 2023