Il ragazzo si sistema la camicia che, sulla schiena, gli esce dalle braghe a quadroni, lunghe al ginocchio, ampie che passi bene l’aria tra tela e pelle. «Mattiniero, eh?» gli urla uno dalla porta di un bar, facendogli un cenno con la mano, e lui non capisce bene se solidale o di quasi rimprovero. «Se voglio prendere qualcosa…» sorride il ragazzo, ma stretto, a disagio per il solo fatto di essere stato interpellato, e continua a camminare, strisciandosi dietro nelle ciabatte di gomma i piedi magri e scuri che chissà quando finiranno di crescere. La sua canna preziosa gli sta a fianco lucida, lunga, elastica. Lui la sa fedele e ubbidiente come un cane lupo, pronta a lanciarsi e a tornare indietro a comando, prolungamento del suo braccio destro; oscilla al suo minimo muoversi, sta immobile al suo bloccarsi.

«Ehi, Mario!», lo saluta un giovane che fa l’animatore in parrocchia: ha gli occhiali, i foruncoli, i capelli già radi e un po’ unti. «Non c’eri, ieri sera? Non ti ho visto…». Non risponde, alza solo una spalla. Le parole lo disturbano. Meglio il silenzio, lo sciacquio discreto del suo lago, che non dà fastidio e si limita a esserci, senza imporsi. «Ciao, Mario!» insiste quello, missionario convinto di dover convertire anche chi sta bene così com’è.

Mario si irrita del suo nome in bocca a chi non gli piace, suo nome tanto comune e fuori moda, ma insieme così suo, di lui, proprio: «Mario sono io», pensa, e in questo modo può chiamarlo solo chi lo conosce bene davvero. Sua madre, per esempio, la sua sorellina. Nemmeno suo padre, che infatti non lo chiama mai.

La banchina del porticciolo è ancora in ombra, e Mario la attraversa senza fretta, gli occhi puntati lontano, alla linea marcata che separa il cielo dal lago, alla sponda opposta, nitidamente visibile nei suoi contorni. Nessuna foschia, quella mattina, si frappone tra lo sguardo e i colori tersi, puliti come al momento della loro creazione, di ciò che lo circonda. L’azzurro che in diverse sfumature riempie di sé l’aria; il verde argentato degli ulivi; il verde più chiaro e allegro dell’erba dei giardini qua e là interrotto dai rossi e rosa e bianchi improvvisi di fiori nelle aiuole; il verde scuro degli abeti sul promontorio che incombe dall’alto. Nel porto, tante barche dondolano una accanto all’altra, urtandosi di quando in quando, appoggiandosi ai loro nomi che rivelano le diverse indoli e ideologie dei loro padroni: a Mario viene da sorridere leggendo “La gazza ladra”, “Marietta monta in gondola”, “Primo maggio” e addirittura “Pensa per te”, proprio in un paese come quello, dove nessuno si fa i fatti suoi.

Di faccia al porto si apre la piazzetta, occupata quasi del tutto dai tavolini e dalle sedie dei bar più eleganti. C’è anche la pedana per l’orchestrina che si esibisce tutte le sere, sottofondo ai pettegolezzi del dopocena e alle sbornie rumorose dei turisti. Una donna svuota i portacenere, scopa per terra trascinandosi sulle gambe gonfie; è bassa, grassa, stufa di vivere. Mario certe volte crede di non essere del tutto normale, perché non gli piacciono le donne: quelle brutte e volgari, per essere più precisi, e quelle svampite. Ce n’è una che gli blocca il respiro, al liceo, perché è diversa da tutte. Ride poco, si morde le dita, e forse nasconde un segreto. Ma non lo guarda mai, e poi fra un anno lascerà la scuola. Però Mario la pensa; di notte la pensa troppo, e anche quando pesca. Infastidito dalla visione della ciabattona, il ragazzo accelera il passo, e supera la piazzetta, dirigendosi deciso al secondo pontile, ormai quasi fuori dal paese.

Non vede nessuno, per fortuna, nel posto che da sempre considera suo, e che a volte pescatori non del luogo gli occupano abusivamente. Percorre il pontile con lentezza: sa quale asse di legno scricchiola, sa dove può inciampare in un chiodo che sporge arrugginito. Si pianta a gambe larghe in cima al ponte, appoggia vicino a sé la cassetta con gli ami e le esche, allunga la canna sbrogliando il filo che si è ingarbugliato. La canna è nuovissima, gliel’hanno regalata per la promozione inattesa i suoi genitori: e Mario la soppesa, la valuta nel prezzo e nelle doti incomparabili che senz’altro possiede. Fa due tre lanci lontani, così, solo per prova o esercizio, poi infilza l’esca nell’amo e lo getta nell’acqua, bocconcino invitante per qualche lavarello ancora assonnato. Mario è capace di starsene immobile per molto tempo, quasi sempre in piedi e assorto in pensieri vaghi, in fantasie allucinate.

È uno sport da uomini questo, gente capace di stare zitta, indifferente a tutto ciò che non sia acqua, e movimenti lenti, e guizzi di pesci improvvisi. Mario è contento di essere maschio e di non avere bisogno di parole. A volte le labbra gli si atteggiano da sole a fischio, o a cantilena modulata su poche note in fila: però lui blocca subito ogni emissione di fiato che possa parergli superflua, irrispettosa del silenzio che ha intorno. Se non fosse tanto insensibile alla dimensione religiosa, gli piacerebbe da grande entrare in un convento, in un eremo: proprio perché lì si tace, e si sta più vicini a colui che Mario immagina il Taciturno per eccellenza. Tra i pochi ricordi che gli sono rimasti del catechismo infantile, due versetti di Matteo gli tornano spesso alla mente: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, e ancora: “Vi dico che di ogni parola vana gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio”. Giusto. Rendere conto di ogni parola inutile. Giusto.

Anche Gesù amava il lago, e aveva scelto i suoi apostoli soprattutto tra i pescatori. E se gli fosse capitato, a Mario, di nascere in un’altra epoca: duemila anni fa, discepolo di Cristo; o nel medioevo, oppure nel secolo scorso? Tutto gli sarebbe andato bene, purché sulla riva di un lago. Il ragazzo sente di appartenere al panorama, come alcuni particolari appartengono alle cartoline e guai se non ci fossero: quelle cartoline non sarebbero più le stesse. Così Mario è indispensabile al suo lago, che senza di lui sarebbe diverso, guardato pensato amato diversamente.

Ecco che il galleggiante oscilla piano, poi viene strattonato verso il basso. Mario agguanta con più forza la canna, alzandola a strappi brevi e decisi verso di sé; poi afferra il mulinello, arrotola il filo con sicurezza. E il pesce balza fuori dall’acqua, sventola nell’aria come una bandiera, si agita. Venti centimetri di paura e disperazione. Il ragazzo non riesca ad abituarsi all’agonia delle sue prede. Vede che soffrono, e un po’ selvaggiamente ne gode, anche. Sa di essere padrone della loro vita e della loro morte, e sempre decide di lasciarli finire così, per asfissia, che si dibattano pure sulle assi di legno, torcendosi tutti, boccheggiando come fa questo, adesso. Mario lo guarda, si siede vicino a lui per osservarlo meglio.

«Sei finito, amico» gli sussurra, poi beve dalla bottiglia di acqua minerale che si è portato dietro, a sorsate lunghe, calme. E infatti la tinca finisce, dopo qualche altro sussulto rassegnato. Il ragazzo la butta nel suo cestino, primo trofeo di una giornata che si annuncia felice. Rimane seduto ancora un po’, a fare compagnia al morto, e si pone tante domande stupide, per esempio chissà se i pesci si chiamano mentalmente con dei nomi, come noi; o se hanno delle regole sociali da rispettare – orari, doveri, tabù -, e in questo caso come reagirà la madre del pesce in questione, non vedendolo tornare, e quanto andrà in giro a chiamarlo, con quale nomignolo ittico. A Mario piacerebbe possedere un’enciclopedia del pesce, o qualcosa del genere: ne leggerebbe tre pagine ogni sera, e diventerebbe così un esperto, tanto da poter laurearsi in ittiologia senza troppa fatica.

Il sole è già sbucato fuori dalle acque, violento di una luce arancione, ma perfettamente nitido nei suoi contorni, e tranquillamente osservabile senza occhiali scuri, senza farsi schermo agli occhi con le mani. E’ tempo di rimettersi al lavoro. Il ragazzo si alza in piedi, di nuovo sceglie un’esca e la infilza sull’amo, di nuovo lancia il galleggiante il più lontano possibile. Poi si dispone ad aspettare, con pazienza infinita. Questa volta, però, l’attesa è meno lunga, e la sorpresa più gradita. È stato un persico, ad abboccare, e Mario se lo cova con lo sguardo, lo tramortisce sbatacchiandolo sul pontile, dopo avergli quasi strappato l’amo ben conficcato nella bocca. Un fischio d’ammirazione lo coglie alle spalle, e lo fa voltare sorridente. Sa già chi può essere che ammira così la sua pesca: il vecchio Adolfo, che come ogni mattina l’ha raggiunto e gli farà compagnia fino a mezzogiorno. In dialetto, con la sua voce catarrosa da gran fumatore, gli chiede notizie su com’è andata, e Mario lo informa, scarno e preciso. Il vecchio scuote la testa, implora su di sé la stessa fortuna del suo giovane amico, e poi si allontana di una decina di metri, voltandogli le spalle e armeggiando con la sua canna.

Adolfo in settant’anni di vita non è quasi mai uscito dal paese: per il militare, e poi per un viaggio a Roma e uno a Venezia; qualche rara volta è stato in città, ma non gli piace. Invece il paese lo conosce a memoria, storia usi e tradizioni. Segue tutti i funerali, commenta ogni matrimonio: sa degli amori e delle corna di tutti. A cenni brevi, misteriosi, ne rende erudito anche Mario, che ride e alza le spalle, ma poi gli chiede il seguito. E il vecchio racconta; solo nelle pause della merenda, altrimenti sta zitto. È stato lui a insegnare a Mario la bellezza del silenzio. Così adesso tacciono tutti e due, offrendosi la schiena, ma consapevoli della loro reciproca presenza.

«È importante avere un amico», pensa Mario, che vuole bene ad Adolfo e si fida di lui ciecamente, gli domanda degli ami e delle esche, del tempo che farà il giorno dopo. Il vecchio ha una strana faccia, fronte bassa, capelli bianchi e radi, sopracciglia bianche e folte. Ha le gambe storte, e cammina un po’ come una scimmia, riconoscibilissimo già da lontano. Adolfo e Mario pescano, insieme ascoltano lo sciacquio del lago: a volte i loro pensieri si rincorrono. «Guarda che il lago è mio – scherza uno dei due; e l’altro gli ribatte – È mio, invece, è mio».

Improvvisamente poi il sussulto esaltato del vecchio, e il suo grido gioioso: «E questo pesce è mio!», mentre tira su dall’acqua una tinca brunita, lunga e asciutta. Mario sorride, non è invidioso: sono due a uno, e adesso comincia il bello della gara. Di solito vince Adolfo, è una vita che pesca; però è capitato che il ragazzo sia riuscito a surclassarlo. Raramente, ma è successo. Passano due ore così, il vecchio e Mario, e intanto il sole si fa più caldo, il paese si anima, molti curiosi si fermano dietro di loro a commentare la pesca, a tormentarli di battute sempre uguali. I due amici sono scocciati, ce l’hanno col mondo che si permette di esistere e di infastidire loro, i pesci, il lago. Anche quest’ultimo reagisce, si agita, schiumeggia a ogni tuffo, a ogni virata di gommone o motoscafo; non è più lo stesso di prima.

Ecco che arriva una coppia giovane di tedeschi, biondissimi, sbrindellati, e si mette in mezzo a loro. Dieci metri ci sono tra Mario e Adolfo, e questi due si piazzano proprio tra di loro: stendono per terra gli asciugamani, appoggiano un borsone a righe bianche e blu, e due bottiglie di birra già iniziate. All’interno dei dieci metri che dividono Adolfo da Mario. Poi inizia il rito della svestizione: lei sbottona la camicia di lui, lui sfila gli shorts a lei. Si sbaciucchiano. Mario li guarda con la coda dell’occhio, irrigidito. Si volta verso il vecchio, che ricambia lo sguardo sornione. «Proprio qui dovevano venire…», pensa il ragazzo, e stringe con tanta forza la canna che i tendini del polso gli si evidenziano in rilievo.

I due turisti cominciano a spalmarsi di crema abbronzante, e un odore dolciastro rimane sospeso tra aria e acqua, fastidioso. La ragazza squittisce a ogni carezza eccessiva di lui, finge di arrabbiarsi, gli dà schiaffetti leggeri sulle mani. Poi si volta a pancia in giù, e il suo amore le increma la schiena,con movimenti tranquilli e regolari, suggerendole parole dolci, che la fanno sorridere. Le si stende vicino, ogni tanto le accarezza i capelli, e restano a prendere il sole uno accanto all’altra, buoni come due bambini. «Se rimanessero così fino a mezzogiorno», pensa Mario che ha già preso una decina di pesci, e vorrebbe almeno raddoppiare entro sera. Ma lei dopo un po’ si gira supina, e lui la imita; parlottano e ridono fitti, poi lui beve mezza birra, lei sfila dal borsone una radiolina e la sintonizza su un programma di musica da discoteca, a volume non eccessivo, ma sufficientemente alto da disturbare i pensieri dei pescatori, il guizzare in superficie dei pesci. Adolfo bestemmia, a voce bassa, ma Mario intuisce benissimo la sua irritazione: vede che armeggia intorno alla canna, e lo sente avvicinarsi.

«Tientelo, il lago. È tutto tuo, oggi». Ha i lineamenti irritati, il vecchio, la voce stizzita. «Io resto. Si stancheranno prima loro» risponde Mario. «No, caro mio. Si stancheranno prima i pesci…». Adolfo gli allunga una manata sulla spalla e si allontana dondolando sulle sue gambe storte.Mario resiste, radio e abbronzante non sembrandogli un motivo sufficiente per fargli rinunciare al suo impegno, verso se stesso e verso il lago.

La musica però lo distrae, e anche i movimenti ritmici che la ragazza accenna col busto, muovendo le mani nell’aria, schioccando le dita. È carina, questo Mario deve riconoscerlo. Ha lineamenti fini, occhi e capelli così chiari da sembrare dipinti. Gli pare di aver capito che si chiami Sophie; non che gli interessi, a Mario, ma è un nome che le sta bene. Lui invece, il tedesco, è alquanto volgare, con le sue spalle da bodybuilding, la catena d’oro al collo, il costume attillato. Sicuramente guiderà una moto d’alta cilindrata. Del nome di lui, a Mario non importa proprio niente. Gli sembra che lo stiano guardando, e sorridano. Si irrigidisce ancora di più, appeso alla sua canna come a una scialuppa di salvataggio. Fissa gli occhi sull’orizzonte, all’acqua che manda riflessi dorati, e il cielo sembra il lago, e viceversa: confusi uno nell’altro, fusi.

Alle sue spalle, i due sghignazzano nella loro gutturale lingua, incomprensibili ma chiarissimi nel desiderio di sfottere, e ferire. Poi, come un lampo, Mario li vede alzarsi in piedi, prendere una breve rincorsa e tuffarsi, allegri e rumorosi, proprio vicino al suo galleggiante. Quando riemerge dall’acqua, Sophie gli rivolge un sorriso di sfida, che tuttavia non lo offende perché, mio Dio, è così bella, così bella!

Mario è muto, immobile, incantato, con la sua inutile canna da pesca, monumento di inerzia di fronte alla vivacità. Si sente vecchio, incapace di vivere: e lei, invece, come sembra a suo agio in ogni elemento, come domina l’aria, l’acqua. Ecco che si mette a nuotare, a bracciate eleganti, sicure; poi si volta sul dorso, sbatacchia un po’ i piedi, chiama «Klaus! Klaus!», e il tedesco la raggiunge veloce, le sputa addosso l’acqua di cui si è riempito la bocca, e lei protesta, fa versacci. Tra una nuotata e l’altra si abbracciano, si spruzzano, lei sale sulle spalle di lui e poi si tuffa di lì, e a ogni esibizione controlla se Mario per caso la stia guardando, e Mario allora gira subito gli occhi da un’altra parte.

Ma il lago, il lago non protesta di fronte a tanto spreco di energia, alla goduria esibita di quei due che vengono da lontano, e la fanno da padroni? Certo si sentirà offeso nella sua silenziosa sacralità, violato nella sua nobile serenità, e il ragazzo che pesca gli dà ragione. I due si avvicinano al pontile, si vede che sono stanchi, salgono la scaletta rabbrividendo e si precipitano poi ad asciugarsi con movimenti frenetici.

Mario pensa che ormai sarebbe opportuno per lui rinunciare, mettere via gli attrezzi, perché i pesci, spaventati e resi più cauti da tutto quel  movimento e rumore, certo non abboccheranno più. Tuttavia qualcosa lo trattiene lì, e lui non sa bene cosa. Forse la voce allegra di Sophie, la sue risatine stupide; forse la speranza che lei di nuovo lo guardi. È chiaro che fa l’oca, lo vuole provocare; ma Mario non ci sta a questo gioco, non gli è mai piaciuto. Solo, vorrebbe tanto riuscire a pescare un lavarello, di quelli grossi, e mostrarglielo come un trofeo, a lei e al suo uomo, magari regalarglielo come ricordo del lago.

Fa molto caldo, ormai; decide di togliersi la camicia, anche se si vergogna un po’ della gracilità delle sue spalle. Spogliandosi, osserva i due tedeschi a pochi passi da lui, di nuovo sdraiati bocconi, di nuovo intenti in tenerezze reciproche. Sophie si è tolta il reggiseno e la pelle arrossata rivela i segni delle spalline, il suo compagno è peloso anche sulla schiena. Mario non ama, a differenza dei suoi coetanei, la nudità esibita dei corpi. Neanche quella delle anime, a dire il vero. Preferisce la discrezione nella figura e nei discorsi, e tenersi lontano da ogni volgarità. Per questo guarda il dorso indifeso e scottato della ragazza con una curiosità infastidita di se stessa, ben deciso a non lasciarsene turbare. Però se lei si solleva improvvisa sui gomiti, e lo fissa, così, bionda e sirena, Eva e Beatrice, ecco che Mario non è più lui, e la canna gli scivola via dalle mani, e si volta deciso a cercare salvezza nell’azzurro purissimo del lago: il suo tuffo di testa è perfetto, le sue bracciate vigorose e impazienti.

Battere l’acqua, colpirla, punirla; cancellare dai pensieri Sophie impudica e bellissima; non concedersi tregua, vincersi. Mario nuota, si allontana dalla riva, al largo, via da tutto.

«È mio, il lago. È mio», pensa.

 

Lietocolle, Faloppio 1998 e in Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018