DAVID MARIA TUROLDO, NEL LUCIDO BUIO – RIZZOLI, MILANO 2002

Vent’anni fa l’editore Rizzoli ha dedicato alla figura di Padre David Maria Turoldo un prezioso volumetto, Nel lucido buio, ormai recuperabile solo tra i Remainders o negli outlet di qualche libreria online. Vi sono raccolte brevi prose liriche e i versi scritti dal frate poeta pochi mesi prima della morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio del 1972 per un tumore al pancreas.

Il libro offre un’accurata ricostruzione biografica della non facile esistenza dell’autore, una dettagliata bibliografia delle sue pubblicazioni di poesia, narrativa, teatro e saggistica, e un’interessante antologia dei più acuti commenti di chi si è occupato di lui a partire dal dopoguerra. Tra i religiosi: Ravasi, De Piaz, Fabbretti. Tra i poeti: Ungaretti, Betocchi, Bo, Erba, Clementelli, Finzi, Porta, Ramat, Giudici, Bandini, Luzi, Zanzotto. Proprio di Ungaretti è opportuno trascrivere la perspicace e profetica valutazione, risalente al 1948: “La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza”.

L’approfondita e appassionata prefazione di Giorgio Luzzi non si limita a inquadrare i testi presentati entro i confini della produzione letteraria del poeta, ma ne fa una disamina dal punto di vista formale, ricostruendo le correnti del pensiero estetico del secondo Novecento, propenso a ridimensionarne la novità. Lontano dallo sperimentalismo e da qualsiasi complessità semantica o metrica, Turoldo era più interessato a cosa dire che a come dire, orgoglioso del proprio inattuale differenziarsi dall’ autoreferenzialità del testo poetico allora proclamata ed esibita. Lo ammetteva esplicitamente in uno dei brani riportati nel libro: “Gli altri scrivono di ‘altipiani’, in forme stupende, parlano con tutti… sanno tutte le malizie della mente, le sante malizie, sono dentro il grande fiume delle lettere, del discorso umano: e sono certo che hanno ragione. Ma io non riesco, non riesco, sono un maniaco di Dio. È come se avessi la fronte un chiodo”.

Viveva quindi con diffidenza il predominio dell’estetica sull’etica, quasi fosse un tradimento (ornamentale, mondano e superfluo) al suo mandato di testimone del Vangelo. L’orizzonte dei lettori a cui si rivolgeva era quello del popolo dei credenti, sebbene credenti particolari, in perpetua, inquieta ricerca del senso della vita e dell’oltre-vita. “Dio non è la risposta, è la Domanda; e non tanto se Dio c’è, quanto chi sia, come pensarlo, quali rapporti intessere e sapere delle sue responsabilità circa il male: se è o non è onnipotente”.

Tutta la poesia turoldiana si situa all’interno della riflessione sulla teodicea, avvicinandosi più alla teologia che alla letteratura, più alla preghiera che alla filologia o alla linguistica, nel tentativo di indagare il Mysterium iniquitatis, pur accettando l’inconoscibilità razionale del divino. E ha come mezzo espressivo la fonte biblica, come fine la comunicabilità dell’esperienza religiosa in ansia di conversione. Lo stile, fortemente fondato sull’oralità e su tonalità accese, predicatorie, arcaicamente terragne, è dettato dall’adesione viscerale a un cristianesimo originario, pauperistico, minoritario, forse addirittura ereticale e trasgressivo.

La vita intera di David Maria Turoldo fu testimonianza della militanza dalla parte dei vinti, degli oppressi, con un imperioso richiamo all’uguaglianza e alla giustizia sociale, anche contro ogni ragionevole prudenza politica, contro ogni acquiescenza e connivenza delle gerarchie ecclesiastiche.

Nato nel 1916, ultimo di nove figli di una poverissima famiglia di contadini friulani, nel 1940 fu ordinato sacerdote, entrando nel convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano. Qui sperimentò subito la difficoltà di rapportarsi con il carattere rigido e conformistico dell’istituzione, soprattutto quando l’impegno politico lo portò ad affiancare la Resistenza insieme a un gruppo di studenti e intellettuali, riuniti intorno al foglio L’Uomo, organo dell’antifascismo cattolico milanese. Dopo essersi laureato in filosofia, iniziò a predicare in Duomo, raccogliendo intorno alla sua carismatica figura l’interesse della borghesia milanese e il sospetto delle autorità, acuito dalla sua partecipazione al progetto della Città di Nomadelfia con Don Zeno Saltini. Nel 1948 pubblicò da Bompiani il primo libro di poesie, Io non ho mani: ne seguirono molti altri, fino a quello postumo di cui ci stiamo occupando. Nel 1951 fondava il centro culturale la Corsia dei Servi. Invitato a lasciare l’Italia, si rifugiò in Svizzera, trasferendosi in seguito a Firenze, dove condivise le esperienze toscane del cattolicesimo progressista. Un nuovo esilio lo portò poi a Londra, in Canada e in Sudafrica. Nel 1960 si spostò presso la comunità dei Servi di Udine, dove scrisse la sceneggiatura del film Gli ultimi, ambientato nel Friuli della sua infanzia. Dal 1963 alla morte si stabilì nel paese natale di Papa Giovanni, a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, creando un centro di studi ecumenici aperto alla collaborazione di teologi e credenti internazionali, e continuando la sua intensa attività di conferenziere, saggista, coordinatore spirituale.

I testi raccolti in Nel lucido buio (il cui titolo ossimorico sembra alludere sia all’oscurità dei mistici illuminata dalla fede, sia all’attesa della fine imminente, affrontata con consapevole rassegnazione)

precedono di pochi mesi la morte dell’autore, e sono caratterizzati da un più accentuato intimismo rispetto alla produzione precedente. Il lettore vi avverte il senso umanissimo di solitudine e abbandono di chi si appresta a lasciare persone e luoghi amati:

“E nel lucido buio, uguale / a un luminoso vuoto, pensare, / ma non sai a che cosa: poi / la dolcezza del dormire: // sarà così la sua venuta? … E celare il bisogno di compassione / desiderare presenze amiche / voglia di solitudine e sentirsi / triste fino al pianto / perché nessuno è venuto: / così giorno dopo giorno / sempre in attesa…”, “Anch’io in questi lunghi giorni e lunghissime notti ho sentito il taedium vitae…Non pensare, fingere di non pensare, di non sentire. Ad esempio, non è che mi sia assente la paura di impazzire”.

Tuttavia, ancora più dolorose e assillanti dei versi sulla propria sofferenza fisica e mentale, sono le riflessioni sui grandi temi dell’essere: la presenza del Male, l’abisso del Nulla, il silenzio di Dio, tutte modulate ricorrendo all’incandescente linguaggio delle Scritture, e in particolare dei Salmi.

Il Deus absconditus di Isaia torna qui a tormentare il credente, che lo supplica di rivelarsi: “mi prende paura di notti più oscure, / le nostre notti, o mio Signore! / Nel mentre tu crei e ti riveli / ecco che appari come un Dio notturno”, “Ma il mistero perdura, / fino a dire qualcuno: / ‘neppure il suo Dio lo salva!’ // Perché, Signore? // Mio Dio della notte e del giorno…”, “Navighiamo nel mare del Nulla / senza raggiungere mai / le tue sponde, Signore”, “Fino a quanto continuerà / a ingoiarmi la Notte? / E tu a nasconderti: perché?”, “Ognuno vive con il suo roditore / notturno: che tu non esista… // male è quel tuo tombale silenzio / che urla sulla tua assenza”.

Il dubbio sull’esistenza stessa di Dio, il timore di non venire ascoltato, si fa a volte grido disperato di ribellione, volontà di disobbedienza. E tornano alla mente gli interrogativi di Meister Eckhart, di Silesius, di San Juan de la Cruz, le invocazioni di Angela da Foligno e Caterina da Siena, la rivolta eterodossa di Ferdinando Tartaglia.

“Male sono le molte cose che ti denunciamo / quando pare che Tu non intervenga / e il giusto è divorato come un tozzo di pane. // O Dio dei privi di Dio, / segreto tormento del disperato”, “abbi pietà anche dell’empio, Signore”, “La tua ira ti rende forse un guadagno? / Forse aumenti in grandezza nel tuo furore?”, “Il pentimento di averci creato / fu il segno certo che sei più infelice di noi”, “Da quando creasti, fosti tu mai, Signore, felice? // …il serpente, creato da te, e sapevi!… // – E allora, crearlo, perché? E a non crearlo / saresti creduto un Dio onnipotente? / ma se onnipotente, è in te anche il Male?”

Sono le domande, terribili e destinate a non ricevere risposta, che si pone il Turoldo teologo portavoce di una teologia negativa che si è votata all’afasia, alla non definizione della trascendenza. Ma il David Maria Turoldo “maniaco di Dio”, così risponde al sé stesso incredulo, dubbioso, deluso: “più l’anima è deserta / più tu m’invadi”, “Tu sei sempre vicino, / tu incombi e ci avvolgi, / ma sono io che sono lontano”.

© Riproduzione riservata         «La Poesia e lo Spirito», 17 novembre 2022