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MAESTRI

KAVAFIS

PER QUANTO STA IN TE

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

 

Costantino Kavafis (1863-1933)

MAESTRI

LUZI

E IL LUPO

Quando scricchiola il ghiaccio
ed animali in ansia là sulla banchisa
guardano i mari disfatti, la deriva di icebergs

e sussulti di squali trafitti dalla fiocina
s’agitano, si spengono e il salmone
avido di procreazione e moribondo
ruota a ritroso nei torrenti in piena

e il lupo
con spasimo di tutta la sua vita
di quella dei suoi padri e dei suoi cuccioli
con questa ressa nel cuore

prende la via dei monti e si ritrova
agile sulle vecchie zampe, pronto
al richiamo dei venti originari
che squillano l’amore il viaggio e la rapina,

vita non mia, dolore
che porto nella notte
e dal caos,
ti risenti improvvisa nel profondo,
ti torci nelle angustie, sotto il carico.

Vivere vivo come può chi serve
fedele poi che non ha scelta. Tutto,
anche la cupa eternità animale
che geme in noi può farsi santa. Basta
poco, quel poco taglia come spada.

***

COME TU VUOI

La tramontana screpola le argille,
stringe, assoda le terre di lavoro,
irrita l’acqua nelle conche; lascia
zappe confitte, aratri inerti
nel campo. Se qualcuno esce per legna,
o si sposta a fatica o si sofferma
rattrappito in cappucci e pellegrine,
serra i denti. Che regna nella stanza
è il silenzio del testimone muto
della neve, della pioggia, del fumo,
dell’immobilità del mutamento.

Son qui che metto pine
sul fuoco, porgo orecchio
al fremere dei vetri, non ho calma
né ansia. Tu che per lunga promessa
vieni ed occupi il posto
lasciato dalla sofferenza
non disperare o di me o di te,
fruga nelle adiacenze della casa,
cerca i battenti grigi della porta.
A poco a poco la misura è colma,
a poco a poco, a poco a poco, come
tu vuoi, la solitudine trabocca,
vieni ed entra, attingi a mani basse.

E’ un giorno dell’inverno di quest’anno,
un giorno, un giorno della nostra vita.

 

Mario Luzi (1914-2005)

MAESTRI

ACHMATOVA

IL CANTO DELL’ULTIMO INCONTRO

Così smarrito gelava il petto,
ma andavo con passi leggeri.
Infilai nella mano destra
il guanto della sinistra.

Parevano tanti i gradini,
pure sapevo: erano solo tre!
Un fiato di autunno fra gli aceri
invocava: «Muori con me!

Sono ingannato da un destino
triste, infido, crudele».
Gli risposi: «Caro, caro,
anch’io. Morirò con te…».

Questo è il canto dell’ultimo incontro.
Gettai uno sguardo alla casa buia.
Solo in stanza da letto le candele
ardevano di un lume indifferente e giallo.

***

C’È NEL CONTATTO UMANO

C’è nel contatto umano un limite fatale,
non lo varca né amore né passione,
pur se in muto spavento si fondono le labbra
e il cuore si dilacera d’amore.

Perfino l’amicizia vi è impotente,
e anni d’alta, fiammeggiante gioia,
quando libera è l’anima ed estranea
allo struggersi lento del piacere.

Chi cerca di raggiungerlo è folle,
se lo tocca soffre una sorda pena…
ora hai compreso perché il mio cuore
non batte sotto la tua mano.

***

E SUL MIO PETTO

E sul mio petto ancora vivo
piombò la parola di pietra.
Non fa nulla, vi ero pronta,
in qualche modo ne verrò a capo.

Oggi ho da fare molte cose:
occorre sino in fondo uccidere la memoria,
occorre che l’anima impietrisca,
occorre imparare di nuovo a vivere.

Se no… Oltre la finestra
l’ardente fremito dell’estate, come una festa.
Da tempo lo presentivo:
un giorno radioso e la casa deserta.

 

Anna Achmatova (1889-1966)

 

MAESTRI

REBORA

DALL’IMMAGINE TESA

Dall’immagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.

                                                            Clemente Rebora (1885-1957)

MAESTRI

LARKIN

LA FALCIATRICE

La falciatrice si bloccò, due volte; inginocchiandomi trovai
un porcospino imprigionato tra le lame,
ucciso. Era vissuto nell’erba alta del prato.

L’avevo già visto e gli avevo pure dato da mangiare, una volta.
Adesso avevo irrimediabilmente distrutto il suo mondo discreto.
La sua sepoltura non mi fu di nessun aiuto;

al mattino io mi risvegliai e lui no.
Il primo giorno dopo una morte, la nuova assenza
resta sempre lì – uguale;

dovremmo essere l’uno dell’altro attento,
e gentili anche, finché ci resta un po’ di tempo.

Philip Larkin (1922-1985)

RECENSIONI

KAVAFIS

COSTANTINO KAVAFIS, LE POESIE – EINAUDI, TORINO 2015

Con un’esauriente ed empatica prefazione di Nicola Crocetti, escono da Einaudi tutte le poesie di Costantino Kavafis: le 154 canoniche, più una quarantina di inedite (le “nascoste” e le “rifiutate”) ed alcune prose. La prima edizione italiana del corpus poetico del poeta alessandrino risale al 1961, quando Filippo Maria Pontani presentò ai lettori italiani un’antologia di testi accompagnati da un’egregia traduzione. La versione di Crocetti appare parimenti fedele e attenta, tesa a rendere soprattutto l’eleganza musicale della lingua di colui che rimane, dopo circa un secolo, il più grande e conosciuto tra i poeti ellenici.
Il volume è suddiviso in cinque capitoli, che scandiscono cronologicamente la produzione in versi, parca e controllata, di Kavafis: dal 1905 alla morte. Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863, e vi morì nel 1933, allontanandosene solo durante l’adolescenza, trascorsa in Inghilterra con la famiglia, o per brevi soggiorni all’estero: nella sua città condusse una vita ritirata e modesta, lavorando per trent’anni come impiegato part-time al ministero dei Lavori Pubblici. «Poeta vissuto ai margini di tutto», scrive il prefatore del volume: «dell’impero geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e della critica». Eppure, i suoi versi (che in vita circolarono quasi clandestinamente tra pochi amici ed estimatori, o in riviste di scarsa diffusione) hanno mantenuto nei decenni un fascino e un richiamo costante per la loro nitida classicità, e per l’intensità delicata e sensuale con cui esplorano ogni aspetto dell’esistere. A partire proprio dall’amatissima città natale, raccontata nel suo mare e nei suoi vicoli, nei caffè e nei bordelli, negli odori e negli incontri fugaci. Alessandria inevitabile come un destino: «Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / girerai. Negli stessi quartieri invecchierai; / e in queste stesse case imbiancherai»,

Appunto, le case. Abitazioni povere, male arredate, in cui l’unica stanza di rilievo è sempre e solo la camera da letto, dove godere voraci amori: «La camera era povera e triviale, / nascosta sull’equivoca taverna. / Dalla finestra si vedeva il vicolo / sudicio e angusto. //…E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, / ebbi il corpo d’amore…», «Se la conosco bene questa stanza. //…Ah, come mi è familiare questa stanza. //…Di fianco alla finestra c’era il letto / su cui ci amammo tante volte», «So che tutto è povero qui dentro, / che ben altri ornamenti meritavano / gli amici miei…».

E poi le strade (strette, buie, sporche, rumorose), i negozi, i mercati, i bar, gli alberghi equivoci («Andai nelle camere segrete / e su quei letti mi distesi e giacqui.»). E il mare, con la sua grandiosità luminosa: «Mare al mattino, cielo senza nubi/ d’un viola splendido, riva gialla; tutto/ grande e bello, fulgido nella luce». Kavafis, votato alla bellezza – da cui veniva sedotto e rapito in una sorta di estatica gratitudine – la cercava ansiosamente ovunque: negli oggetti, nella natura, nei volti («Che bel ragazzo; che meriggio divino / l’ha catturato per addormentarlo.- / Resto così a guardarlo a lungo.»), quasi però col timore di sciuparla, avvicinandosi troppo ad essa. Nello stesso modo anche gli amori, vissuti talvolta con vergognoso abbandono, più spesso erano vagheggiati da lontano, o recuperati solo nel ricordo: «Non ti ebbi, né mai ti avrò, suppongo. / Qualche frase, un accostamento / come l’altr’ieri al bar, nient’altro», «Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo…/ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro», «S’è ancora vivo, si saranno imbruttiti gli occhi grigi, / si sarà sciupato il bel viso. // Serbali tu com’erano, memoria. / E, memoria, di quel mio amore tutto ciò che puoi, / quanto più puoi riportami stasera».

Il sentimento del trascorrere inarrestabile del tempo, della caducità dei sentimenti, del deterioramento fisico era avvertito con timore e ribrezzo: la vecchiaia temuta come uno spettro inevitabile, e descritta più negativamente della morte.
Tuttavia il passato non era solamente nostalgia, rimorso o rimpianto, per Kavafis: domina in tutta la sua produzione poetica una considerazione altissima, orgogliosa, esaltante della storia antica, dei personaggi (eccelsi anche quando appartengano ai ceti più umili e trascurati) che avevano resa celebre con le loro imprese o con l’arte la grandezza della civiltà ellenica. Persino la sua personale omosessualità andava alla ricerca di una nobile affinità e consacrazione nella cultura classica dedita agli amori efebici, e lì trovava la sua giustificazione, il suo riscatto.
Lari privati ed Erinni pubbliche, sovrani e tiranni, guerre e processi, vittorie e sconfitte: tutto torna, dal palcoscenico della storia, a riverberare nella coscienza ulcerata e pietosa di chi scrive. «Accadranno / le stesse cose, accadranno di nuovo -/ gli stessi istanti ci trovano e ci lasciano», uguali e comuni per tutti gli uomini, nei secoli e nei minuti, sebbene riconosciuti nella loro divina unicità dalla sensibilità di pochi: «Non credete solo a ciò che vedete. / E’ più acuto lo sguardo dei poeti».

 

«Lo Straniero» n.181, luglio 2015

RECENSIONI

QUARENGHI

GIUSI QUARENGHI, IO SONO IL CIELO CHE NEVICA AZZURRO – TOPIPITTORI, MILANO 2011.

Chi è nato intorno agli anni 50 si riconoscerà in questi nove racconti della scrittrice bergamasca Giusi Quarenghi: cioè si riconoscerà nei dettagli comuni di una storia familiare e paesana, ma anche civile e collettiva tratteggiata dall’autrice con delicatezza e nostalgia, con ironia e lucidità .
Originaria della Val Taleggio, nata in una famiglia che gestiva una trattoria («la cucina dove si stava tutti, noi e anche i clienti»), con un grosso padre «sublime maestro del farniente» («una vita intensa, pur senza una goccia di sudore», appassionato giocatore di carte e di bocce, a suo modo filosofo e osservatore dei costumi contadini) e una madre che invece lavorava per tre (commoventi e ricche di interesse le pagine dedicate alla preparazione del bucato), Giusi Quarenghi non descrive la sua infanzia con un retorico amarcord . Semplicemente narra di un mondo in cui i tempi erano scanditi dal suono delle campane, dall’avvicendarsi dei giorni di festa, dalle cerimonie religiose e dalla cura degli animali, che vivevano allora in simbiosi con gli esseri umani. Ma di questo mondo racconta anche le ingiustizie, le ottusità e le superstizioni, prima fra tutte quella che riguardava la scarsa considerazione in cui veniva tenuto il sesso femminile. Una realtà condivisa da parenti e vicini, amici e signori che arrivavano in villeggiatura dalla città, e in cui la corsa al denaro e al successo non assorbiva i pensieri e le ambizioni di tutti come succede oggi. La narrazione induce a un sorriso intenerito soprattutto quando si sofferma sui particolari di un’educazione e di tradizioni in quell’epoca condivisi un po’ da ogni famiglia: la raccomandazione rivolta alle bambine di stare «composte», sedute con le ginocchia «unite e coperte»»; la vestizione per la Messa grande («calzette bianche e traforate e scarpe bianche con le fibbie»); i titoli dei temi assegnati dalle maestre; gli elastici «grogren»; le visite ai morti; le cacche delle mucche per strada. E la natura, la gente, la storia che avanza e cambia le abitudini e le coscienze…

Leggendaria” n. 94, luglio 2012

RECENSIONI

RASY

ELISABETTA RASY, SCRIVIMI – NOTTETEMPO, ROMA  2011

Le edizioni Nottetempo pubblicano nella collana  I sassi  libriccini di narrativa, saggistica, poesia limitati alla quarantina di pagine. Non si tratta di capolavori, non propongono idee nuove o sconvolgenti, non provocano né alimentano dibattiti e polemiche. Ma offrono una lettura generalmente piacevole, in uno stile dignitoso ed elegante: con i tempi che corrono, non è poco.
Così questo racconto di Elisabetta Rasy, che ho letto in treno passando un quarto d’ora di distesa non-concentrazione. Un avvocato di Roma narra in prima persona la fine dello zio materno, novantenne malato di vecchiaia, stanchezza e forse di Alzheimer. Il nipote vorrebbe fare in modo di trattenere il «soffio dell’esistenza in quel corpo che andava trasformandosi in un pesante fantasma di carne stanca e muscoli infiacchiti». Ovviamente lo zio non era sempre stato così, malandato e inebetito; bancario di ««radicale e altera energia», lo zio Enrico era stato «possente atletico e indecifrabile come un cavallo di razza … formale e austero, lesinava i gesti espansivi e le parole». Aveva avuto anche una moglie, sudamericana dolce e bellissima, che però l’aveva lasciato dopo solo un anno di matrimonio: quindi un’esistenza solitaria e orgogliosa, silenziosa e dedita esclusivamente allo sport e al lavoro. Poi la malattia, e il nipote da lui aiutato e seguito per tutta la vita gli cerca delle badanti che lo assistano giorno e notte, anzi, che divengano quasi angeli custodi, amorevoli e fedeli. La custode delle notti malate del vecchio è una giovane cilena, Isabel, che allevia l’immobilità incosciente di lui facendogli ascoltare sempre lo stesso disco, un tango intitolato Scrivimi, che gli aveva regalato decenni prima la moglie sudamericana. E mentre assiste il vegliardo, la giovane Isabel scrive lunghe lettere d’amore al fidanzato cileno, che non le risponderà mai. Quando il vecchio muore, la ragazza chiede al nipote come regalo d’addio proprio quel disco: e il racconto finisce in sordina, quasi con l’imbarazzo di trovare un finale adeguato a una storia che non dice molto. E così, anche il finale rimane sospeso, e non dice molto.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012

RECENSIONI

NOTHOMB

AMÉLIE NOTHOMB, UCCIDERE IL PADRE – VOLAND,  ROMA 2012

Una delle autrici più lette al mondo, Amélie Nothomb: e più premiate, più amate dal pubblico femminile, più produttive ed attente alle richieste del mercato librario. In questo che è il suo ventesimo (20!) romanzo sembra dare il meglio di sé, quanto a banalità di scrittura, superficialità di contenuto, mediocrità di invenzione narrativa. Orecchiando qualche tesi di psicanalisi spicciola, da rivista in lettura nei negozi di parrucchiere, imbastisce una trama facile facile, su un Edipo facile facile e nemmeno troppo motivato. E tenta vanamente di irrobustirla con sentenze pseudofilosofiche, addirittura risibili nella loro grossolanità. Gli ingredienti ci sono un po’ tutti: magia, tradimento, famiglie disturbate, droga, sesso, soldi, ma raccontati con una sciatteria e una mancanza di gusto francamente irritanti. Le descrizioni dei personaggi e dei paesaggi ricalcano la retorica più abusata: «La collera di Norman esaltava la sua gioia: dimostrava che si era comportato da uomo. Ne sentiva la consapevolezza in tutto il corpo. Un’esultanza virile gli circolava nel sangue…; scoppiò a ridere, una risata di una freschezza inimmaginabile; Una luna piena circondata da una nuvola della dimensione di un kleenex diffondeva una luce da direttore della fotografia di enorme talento; Andò a prendere la frustrazione accumulata nei muscoli dell’amante e tramutò quel piombo in oro…; La notte era al suo culmine. Ogni persona che incrociavano era uno spettacolo; La violenza di quella menade strappò all’assemblea borborigmi di godimento; Una sinuosità si impossessò del suo corpo flessibile e non lo abbandonò più».

I dialoghi sono rabberciati e fittizi («-Sei un bugiardo. Non ti credo.- -Lo giuro su quello che ho di più sacro.- – E cos’hai di sacro, tu?- – Te!-») e insomma tutto il libro sembra costruito per prendere in giro il lettore e la letteratura. C’è da chiedersi se è questa la ragione del suo successo.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012

RECENSIONI

TAROZZI

BIANCA TAROZZI, TRE PER DIECI – CICERO, VENEZIA 2013

Bianca Tarozzi, stimata traduttrice dall’inglese e per anni docente universitaria di letteratura anglo-americana, si è occupata egregiamente di critica letteraria e di poesia, pubblicando numerose raccolte di versi. In questo volume, il titolo allude alla scansione delle trenta liriche in dieci sezioni, ciascuna delle quali contiene tre composizioni accomunate dallo stesso tema. Il fil rouge che attraversa il libro è quello della memoria, di un intenerito omaggio al proprio passato, rivisitato nei suoi aspetti più pregnanti, commossi, e graffiati nel cuore. Quindi i giochi infantili, in brigate rissose e vivaci, in una natura campestre ancora amica e complice; i primi amori e i progetti sul futuro; gli incubi e le paure irrazionali; le letture e il mondo fantastico delle biblioteche; i ritratti di amicizie femminili; la sostanziale estraneità all’esibito pragmatismo sociale; il ricordo dell’arte magica del ricamo, perduto irrimediabilmente nell’attuale e disanimata produzione industriale: «Il vestito col punto a nido d’ape / si metteva soltanto la domenica, / nelle grandi occasioni, / alle feste e alle prime comunioni.//… Le sarte specialiste ora purtroppo / han cambiato mestiere. Anche le api / vanno vagando in luoghi ove si è rotto / l’equilibrio ecologico, a zig zag, // non più dolci ma amare, / perso l’orientamento e l’alveare».

Il rimpianto per il tempo trascorso, per il mondo d’antan, non riguarda tuttavia solamente la realtà esterna: è soprattutto disillusione e rincrescimento rispetto alle scelte non fatte, alle occasioni sprecate, alle ambizioni rinnegate: «l’angoscia sempre torna / per ogni cosa persa, trafugata, / scomparsa in qualche sacca della vita, / di cui devo rispondere… //…quando mi chiederanno i miei talenti / io piangendo dovrò dissotterrarli?»; «La mente / l’ha tradita, volava intorno al niente»; «Dopo aver evitato quasi sempre / con cura di scontrarsi con la vita / (bastava in fondo restarsene di lato/ guardare senza essere guardati)…»; «Il mondo mi tirava dalla sua, / l’arte dall’altra parte. / Incerta, mi affidavo / a sintassi e grammatiche / prescrittive, automatiche, / a statistiche regole».

Il passato, allora, è rifugio e consolazione («Impensabile / impossibile / invisibile / passato»), e Bianca Tarozzi lo offre ai lettori con la dolcezza di tonalità sfumate, spesso cantilenanti nell’assiduità delle rime baciate, di una metrica tradizionale, di echi letterari primonovecenteschi (Gozzano, soprattutto), sullo sfondo suggestivo di una sua Venezia magica.

 

«Leggere Donna» n.163, luglio 2014