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RECENSIONI

SARAJLIC’

IZET SARAJLIC’, CHI HA FATTO IL TURNO DI NOTTE – EINAUDI, TORINO  2012

Izet Sarajlic’, nato nel 1930 e morto nel 2002, è stato forse il più noto poeta bosniaco del 900, grazie anche all’immediatezza della sua scrittura, lontana da ogni intellettualismo e artificiosità letteraria. La sua esistenza ha attraversato due guerre sanguinose, la seconda mondiale e quella della ex Jugoslavia, perdendo in esse parenti stretti e amici cari, abitazioni e sicurezza economica, libri e pagine scritte. Ma nei suoi versi parla di queste tragedie con una sorta di pacata accettazione, accentuando soprattutto l’aspetto sentimentale dei suoi rapporti umani, la vitalità degli affetti che perdurano anche e nonostante i cataclismi storici. Così, il fil rouge che segna i cinquant’anni della sua poesia è senz’altro l’amore unico e insostituibile per la moglie, dagli anni giovani alle visite bagnate dalla pioggia alla tomba di lei, in versi commossi: «Un immortale agosto ti ha portato nelle mie ballate», «al cinquecentesimo chilometro dell’amore / ti amavo esattamente come al primo», «da quando sei andata via tu / è come se fosse andata via anche la città», «Cosa facevo io mentre durava la storia? / Mi limitavo ad amare te».

Talvolta tuttavia eccedendo in qualche banalità, od effetto troppo facile: «In questa tristezza che ci opprime entrambi, / e io piango, piango, piango, / perché sono tempi duri per l’amore, sempre più duri», «In quest’anima si è ammucchiata / tanta tristezza, /tanta delusione, / tanta amarezza, / tanta disperazione», «Oggi per me è importante ogni giorno / in cui ti posso guardare».

Alcune sue soluzioni stilistiche potrebbero ricordare Prévert, o un nostro Saba alquanto diluito: manca del tutto il senso del tragico, e ogni descrizione appare sospesa in una levità lontana dalle passioni. Quindi anche Auschwitz e Sarajevo sono vissute attraverso le sofferenze particolari di una sola anima, e non dei destini collettivi di un popolo. Qualche accennata ironia si riserva alle incongruenze e al conformismo della cultura letteraria, mentre il rimpianto è tutto per il tempo dei sentimenti che fugge: «La vita è trascorsa, e se ne va via. / Resta da scriverci una poesia», «L’epoca della grande arte è passata. // Io / almeno / c’ho vissuto dentro». E rimane comunque in chi legge questi versi l’impressione di cantabilità e semplicità eccessive, di un sentimentalismo esibito, di un consapevole e orgoglioso rifiuto dell’elaborazione linguistica, quale invece si presuppone in un poeta contemporaneo. Erri De Luca, nella sua partecipe prefazione ( in cui come sempre riesce a parlare di se stesso anche quando deve parlare di un altro) afferma: «In un poeta cerco, esigo che la sua vita sia all’altezza della sua pagina»». Giustissimo: ma anche la pagina deve essere alta.

 

«Atelier» n.65, marzo 2012

RECENSIONI

PESSOA

FERNANDO PESSOA, POESIE – NEWTON COMPTON, ROMA 2014

In una curata veste grafica con testo portoghese a fronte, e ad un prezzo addirittura risibile, l’editore Newton Compton propone ai lettori una cospicua scelta della produzione poetica orto-eteronima di Fernando Pessoa (1888-1935). Orietta Abbati ne ha curato con appassionata partecipazione sia la documentata nota biobibliografica sia l’approfondita introduzione, mentre a Piero Cacucci è stato affidato l’incisivo commento finale, indagante lo sguardo metonimico su interno ed esterno dell’esistenza e dell’ideologia pessoana, simboleggiato dalla persistente metafora della finestra. A entrambi gli studiosi si deve la traduzione dei testi. Ne  Il libro dell’inquietudine, sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, così Pessoa descriveva la frantumazione identitaria che albergava nella sua interiorità: «La mia anima è una misteriosa orchestra: non so quali strumenti suonino e stridano, dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco solo come una sinfonia». E a questa sinfonia, a questo suo teatro mentale, offrivano le loro voci tre controfigure poetiche, con caratteri, timbri e vicende esistenziali assolutamente diverse e originalissime: Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos. Il volume in questione ne testimonia la grandezza e la peculiarità stilistica e ideologica: a cominciare dal primo eteronimo, quell’Alberto Caeiro presente con ventuno componimenti, e considerato il maestro degli altri due. Una sorta di autodidatta rurale, orgogliosamente privo di ogni speculazione metafisica, immerso paganamente nello splendore della natura, e fedele solo al richiamo delle sensazioni. Proprio all’innocente esperienza sensoriale, infatti, Caeiro demanda la possibilità di conoscere il mistero della vita e dell’anima umana: «Sono un pastore di greggi. / Il gregge è i miei pensieri / e i miei pensieri sono tutti sensazioni. / Penso con gli occhi e con gli orecchi / con le mani e con i piedi / con il naso e la bocca. // Pensare un fiore è vederlo e odorarlo / e mangiare un frutto è saperne il senso».

Agli antipodi si pone la lezione estetica del secondo eteronimo, Ricardo Reis, che costruisce con rigore neoclassico una poesia antimodernista, modulata sulla lezione degli antichi, in particolare di Orazio. Equilibrio e misura sembrano essere le parole d’ordine della produzione reisana, insieme a un’istanza pedagogica tesa a educare alla saggezza epicurea dell’atarassia: «Oggi, quali servi di lontani dèi, / in casa d’altri, senza il giudice, / beviamo e mangiamo. / E domani accada quel che accada». Il terzo membro della famiglia eteronomica, Álvaro de Campos, si staglia imperiosamente nella sua singolarità di ingegnere navale innamorato della modernità e del progresso, da lui trionfalmente esaltati con espressioni iperboliche e deflagranti, secondo il suo dettame di dover «sentire tutto in tutte le maniere», «O ferro, o acciaio, o alluminio, o lastre di ferro ondulato! / O moli, o porti, o treni, o gru, o rimorchiatori! // Ehilà grandi disastri ferroviari! / Ehilà crolli di gallerie di miniere! / Ehilà deliziosi naufragi dei grandi transatlantici!…». Questi tre specchi deformanti del sentire poetico di Pessoa trovano una loro ricomposizione nelle sue poesie ortonime, caratterizzate da un’angoscia esistenziale indicativa della sua complessa interiorità spirituale e intellettuale: «Ho graduato le influenze, ho conosciuto le amicizie, ho udito, dentro di me, le discussioni e le divergenze di opinioni, e in tutto questo mi pare che sia stato io, creatore di tutto, ad essere il meno presente. Mi sembra che tutto sia avvenuto indipendentemente da me. E mi sembra che ancora avvenga così».

La disgregazione del soggetto, il crudele processo di spersonalizzazione e il conseguente anelito alla simulazione e contraffazione, vengono evidenziati in versi quasi programmatici: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che giunge a finger che è dolore / il dolore che davvero sente», «Sono una vita oscillante / sulla coscienza d’esistere», «Oggi che estraneo a tutto e a me stesso, / posso, alla luce del dì vasto e ricco, / verificare che fui uno a casaccio, / è ancora a casaccio che lo verifico. // Tutto è estraneo; quanto sono o fui / un altro da me e senza me sospinge». Ecco quindi che la poesia pessoana diventa emblema e simbolo della devastante crisi filosofica e ideologica che interessò le coscienze e la produzione artistica mondiale nel XX secolo, incarnandone la sofferenza e l’ambiguità.

«Poesia» n.298,  novembre 2014

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MAGRELLI

VALERIO MAGRELLI, IL SANGUE AMARO – EINAUDI, TORINO 2014

Il sangue amaro di Valerio Magrelli, che esce a otto anni di distanza dal suo ultimo volume, è una raccolta estremamente articolata e varia, sia nei contenuti sia formalmente. Suddivisa in dodici sezioni, spazia dal privato al politico, dalla religione alla denuncia civile, dalla polemica letteraria alla riflessione filosofica. Lo stile sa adeguarsi plasticamente ai temi trattati, sia utilizzando metri e formule tradizionali (sonetti, endecasillabi, epigrammi: con un ricorso più esplicito che nel passato alla rima, sfruttata non solo ironicamente), sia servendosi di curiosi stratagemmi quali le sciarade e finti rebus, o inserti prosastici e narrativi. In maniera decisamente meno cerebrale e oscura che nelle precedenti prove, qui l’ansia comunicativa del poeta diventa più esplicita, segnata dalla risentita amarezza nei riguardi della società e del mondo cui fa riferimento il titolo. «Io mi faccio il Sangue Amaro. / E’ una specialità della casa, sin dal lontano 1957»: così nell’ultima sezione, dedicata a un se stesso depresso e immalinconito, talvolta rabbioso («Mia debolezza, debolezza mia //… la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi, / e in questo Grande Sfascio…», «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza», «Sopporto le ingiustizie dalla nascita / a cominciare ovviamente dalla nascita. / Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, necroburi, ogni variante dell’illegalità…»). Aiutarsi medicalmente non basta («Queste che prendo gocce / con tanta religiosa compunzione…»), se lo spettro della morte attanaglia pensieri e cuore («Qui, tutti noi aspettiamo / sulle rive del Nihil»; «Poi, di colpo ho capito che il problema non è morire, ma rimanere soli nella morte»), attraverso le sembianze di una futura malattia neurologica o della insopportabile separazione definitiva dai propri cari. E’ proprio dagli affetti familiari che può arrivare l’unica redenzione, e quindi i versi più inteneriti del volume sono quelli rivolti alla figlia («Ho una figlia che ha voglia di cantare / e canta. / Può bastare»), al figlio che studia Dante sotto la doccia, e alla moglie, nella splendida sezione La lettura è crudele. Dove la constatazione banale che quando la persona amata e vicina si immerge nella lettura, inevitabilmente si allontana da noi (precipitandoci in una solitudine -vuoto, silenzio, abisso, distanza, vertigine, paura, sono i ricorrenti termini chiave- che è sostanzialmente estraneità, irraggiungibilità), sembra far precipitare il poeta in un’angoscia senza scampo («atterrito e remoto, separato, / legato alla vertigine che amo, / se amore è la distanza che ci chiama e insieme la paura di varcarla»). Paura che torna anche in un altro capitolo del libro, kierkegaardianamente intitolato Timore e tremore, e aleggia ovunque, intrecciata a sentimenti di rivolta e rifiuto nei riguardi di ogni bruttura e ingiustizia, naturale o sociale: quindi verso le infermità dei bambini handicappati, i morti della Thyssen, gli incidenti stradali, i giovani disoccupati, i balzelli fiscali, le disonestà finanziarie, le dittature telematiche («La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi»), i ladri che penetrano in casa, gli uccelli che entrano dalla finestra («Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato»), lo sfacelo urbano, le latrine insozzate di una Roma pasolinianamente suburbana, o zingaresca. Non si salva nemmeno Dio, in questa rappresentazione negativa dell’esistente, nelle sue epifanie natalizie desolatamente commerciali, o nella corruzione istituzionale della Chiesa: «reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione», «Tutti noi siamo vittime di una chiesa delebile, / priva del vero inchiostro della sua verità». Una geremiade sconsolata, con toni di pessimismo leopardiano: «Non la Crocefissione, ma la Culla // è segno di martirio, lutto, scandalo». La stessa diffidenza Magrelli sembra nutrire anche riguardo al suo campo d’azione più proprio, la letteratura («il linguaggio / ha innanzitutto lo scopo di nascondere», «O forse sono cavie, queste poesie che scrivo»), e pare attenuarsi solo nella descrizione attenta di alcuni aspetti della quotidianità (gesti, rumori, oggetti, musiche), o nella descrizione della natura. Così, nella sezione La lezione del fiume assistiamo a un partecipe omaggio, a una convinta celebrazione del fenomeno acquatico, dal lavaggio dell’auto all’intrico delle tubature sotterranee, dalle sorgenti agli argini, dai ponti ai canyons, alle dighe, ai pesci: nel calore estremo come nel rigore dei ghiacci.
E nei Paesaggi laziali una nota nostalgica e quasi idilliaca riconcilia il poeta con il bene, e non più con il male, di vivere: in una delle poesie più delicate e commosse della raccolta, Principe delle Volpi!, riemerge dal passato la figura proletaria di un amico adolescente dal «sorriso mite», regale come un elegante nobile russo, che avanza nell’incenso di copertoni bruciati in periferia, reso salvo dal «sacramento / di un’Aristocrazia nata dal cuore».

 

© Riproduzione riservata       «Nazione Indiana», 16 marzo 2014

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LANARO

PAOLO LANARO, POESIE DALLA SCALA C – L’OBLIQUO, BRESCIA 2012

Delle sei sezioni che compongono questo elegante volume di versi, pubblicato da una piccola casa editrice bresciana, le prime due – Qui Rebus – sembrano dare l’impronta più profonda e caratterizzante all’intero corpus delle composizioni.  Rebus in realtà è un capitoletto di una settantina di illuminazioni in prosa, brevissimi brani che tanto si avvicinano alla poesia nel delineare con tenerezza e pudore la figura del padre dell’autore, ragioniere ed ex prigioniero di guerra dotato di «un senso appropriato delle relazioni, una sorta di costruita politesse». Un uomo anziano, garbato, che si sorveglia nei rapporti col mondo e con il suo inarrestabile, crudele tramonto fisico («Cammina con difficoltà. Dice: tanto, dove vado?»), un piccolo-borghese che passa il tempo a guardare fuori dalla finestra o a risolvere i rebus, a collezionare francobolli, rassegnato a una sorta di non vita e alla fine che si avvicina («Scivoliamo via lentamente»), fine che il figlio scrittore chiosa con una domanda crudele e retorica insieme: «Dunque in che modo termina la bellezza?». Alla bellezza Paolo Lanaro, poeta schivo e delicato, dedica i suoi versi migliori : «Ho visto il ricordo tramutarsi / in un frammento di bellezza», e sembra assaporarla in sorsi brevi, quasi con timore di sciuparla. La trova nei gesti minuti quotidiani, nei pensieri che si affacciano timidi e balenanti, in memorie sfocate, negli incontri più banali. O in affetti ( la moglie, i figli, i vicini della scala C) che non diventano mai passioni, ma servono comunque per andare avanti. Così come ancore di salvezza sono le cose piccole che ci circondano, e a cui non si presta mai abbastanza attenzione: l’erba, i fiori sul balcone, i mobili consunti, gli animali: «C’è da chiedersi come si potrebbe / essere amici di un uccello. / Come si fa a incontrarsi a una certa ora, / prestarsi le cose, dirgli che l’erba ci piace?», «Un giorno la lampadina scoppia, / lasciando il ricordo della luce». Sono gli eventi miracolosi e quasi inavvertiti che riescono a dare il significato più vivo all’esistenza: ««Un sasso schizza sul parabrezza, / frantumando la luce in piccolissime / fibre cieche. C’è un esito / delle cose che nessuno si aspetta». Niente ha più valore che trascorrere la giornata in un rituale semplice di azioni ripetute, come nella struggente poesia : «Che c’è da dire?», scandita da successivi «dopo» che elencano i gesti più triti insieme al passare delle ore, al modificarsi dell’ambiente esterno, al succedersi di pensieri e sentimenti diversi nel proprio intimo. Dunque, la filosofia che sorregge la vita non ha più nulla di ideologico, non combatte più con speranze, illusioni o lotte: «Tra un po’ seminerò l’asteria e il rosmarino. / Ormai credo soltanto a questo: all’erba / che germoglia al chiaro di luna, / che cresce e non ha nessuno scopo / salvo il suo splendore». E questo lasciarsi vivere, osservando ciò che intorno ci rassicura della nostra stessa esistenza, diventa una dichiarazione di poetica e di fede: «Questo non è che l’inizio di una serie / di piccoli fatti sconosciuti. // Il tappeto con un angolo sdrucito, / il barometro stabile, il ronzio del frigo… // Quando infine si risolve tutto / ascoltando il fragore del vento, // tagliandosi la barba, spazzolando / le scarpe, facendo pulizia».

E ancora «Mi sono successe varie cose / nelle ultime ore. // Infine è sceso il silenzio. Il lungo, infaticabile / coro del silenzio delle nuvole e della luna». I poeti amati, soprattutto i classici  (Orazio, Virgilio, Persio) fanno compagnia, così come alcuni contemporanei per cui si scrivono omaggi: ma sembra comunque che anche questo non basti, perché «Tutto scorre. Noi e anche voi, naturalmente. / Anche adesso. Anche senza saperlo». E una presenza femminile che avrebbe potuto offrire salvezza se ne è andata insieme agli anni giovani («Ma quali guinzagli ci volevano / per impedirti di fuggire? / E adesso quale lingua parli nel buio?»). Per cui non resta che rassegnarsi all’attesa, in compagnia della pioggia, degli abiti che indossiamo, degli oggetti cui ci aggrappiamo, per raggiungere la sola meta concessa: «Una sfatta dolcezza della mente».

 

«Poesia» n. 277, dicembre 2012

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LA PORTA

FILIPPO LA PORTA, POESIA COME ESPERIENZA – FAZI, ROMA 2013

Un’antologia felicemente sbilanciata, sfrontatamente parziale nelle proposte, anticonvenzionale nei commenti, quella firmata dal critico Filippo La Porta per le edizioni Fazi. Ma si tratta con evidenza di una scelta programmatica, esplicitata già dal titolo: l’autore offre a chi legge, in particolare ai più giovani, un percorso di arricchimento culturale ed emotivo sulla base della sua esperienza di lettore innamorato della poesia, che ha eletto i suoi maestri di vita e di pensiero tra chi ha scritto in versi. I poeti rappresentati appartengono tutti alla storia, essendo morti chi da secoli e chi da anni: poeti ormai considerati “classici”, avvolti da un’aura di condiviso rispetto e ammirazione. Ci si potrebbe interrogare sul motivo di alcune originali inclusioni (Poliziano, Marino, Metastasio e gli spesso snobbati Carducci e Cardarelli), o su ancora più clamorose esclusioni (la linea lombarda, lo sperimentalismo, Luzi, la forse già troppo osannata Marini tra gli italiani; la Dickinson e Rilke tra gli stranieri). Ma La Porta ha inteso proporre i “suoi” poeti, nelle liriche più rappresentative, da Dante alla Szymborska: quelli che ha amato e che gli hanno offerto più stimoli intellettuali e “sentimentali”, e lo ha fatto partendo proprio da se stesso, dai suoi ricordi ginnasiali, dalle musiche ascoltate e dai film visti, dalle esperienze di lotta politica e dai primi timidi tentativi di composizione poetica personale. Non teme, quindi, di esporsi in giudizi anche perentori e poco prudenti su singoli autori, di cui spesso dà definizioni icastiche e memorabili (Tasso: «poeta della vita che dilegua»; D’Annunzio: «professionista dell’ineffabile»; Penna: «poeta fuori della storia… poeta inafferrabile»; Baudelaire: «intrepido maestro di moralità»; Rimbaud «un progenitore di Céline»). Non nasconde nemmeno i suoi dubbi sull’onestà intellettuale e sulla validità letteraria di poeti celebratissimi (Pasolini: «ha provato e riprovato a esprimersi poeticamente… riuscendovi solo a tratti»; Brecht: «una morale un po’ filistea e accomodante»). Da critico indipendente qual è, esibisce festosamente i suoi entusiasmi (Rosselli, Withman, Stevens, Vallejo, Szymborska) e si sbilancia fino a definire Caproni «il poeta italiano più importante della seconda metà del secolo scorso», o a suggerire un paragone tra Keats e i «giovani déracinés» del ’68, e a indicare Carmelo Bene come massimo interprete di Dino Campana. Ma ciò in cui più si manifesta il suo appassionato fervore è nella ribadita ricerca di una definizione estetica ed etica della funzione della scrittura in versi: «La poesia è pedagogia dello sguardo», «la poesia come spazio utopico, ‘antiutilitaristico’, è la posizione più ‘sovversiva’ oggi immaginabile», «non consiste in un linguaggio speciale, anticomunicativo, costitutivamente diverso da quello quotidiano, o in un gergo oscuro, autosufficiente, aggressivamente incomprensibile», «non è tanto spazio dell’irrazionale e dell’orfismo quanto pensiero concentrato, filosofia miniaturizzata»; il suo linguaggio privilegia «la non linearità, la velocità, l’essenzialità»; il suo ruolo è «mescolarsi al proprio tempo, alla contemporaneità, pensare a ciò che nel presente incombe su di noi, alla storia, incontrare le persone comuni». Polemico contro quella «corrente unica, a impronta simbolista» che ha costretto la poesia novecentesca in un conformismo oscuro, elitario e intransitivo, La Porta rivendica una lingua poetica in grado di diventare «conversazione, teatro, apologo, documento, collage, reportage, ritratto»: una lingua capace di sporcarsi, di corrompersi, anche quando si innalza a vertici di contemplazione, immaginazione e spiritualità inauditi. Celebra così la vitalità della poesia «che si oppone al nulla, un surplus immaginativo, percettivo che forza il senso ordinario, desolatamente univoco, delle cose fino a scoprirvi sensi ulteriori e analogie invisibili», e che «scompiglia la nostra idea convenzionale delle cose, che dissolve le divisioni artificiose, che disinnesca strategie e calcoli del potere, e che ci mette in sintonia con un ritmo più ampio, e imperscrutabile, del cosmo». Poesia, quindi, come pacifica ma radicale rivoluzione dell’anima, dello sguardo, dell’esistenza individuale e collettiva.

 

«L’Immaginazione» n. 280, marzo 2014

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ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, L’INVASIONE DEI GRANCHI GIGANTI – MARIETTI, MILANO 2010

Che felice sorpresa, la lettura di questo sottile e resistente (nel senso di compatto, forte e sicuro della sua voce) libro di versi del giovane poeta e critico Federico Italiano: così fieramente lontano da stili e contenuti imperanti nella flebile, introspettiva e generica produzione letteraria dei suoi coetanei. Italiano ha qualcosa da dire, finalmente, ed è completamente padrone dei mezzi a sua disposizione per dirlo. Forse perché vive e lavora, occupandosi di arte-filosofia-scienza, tra Monaco e Vienna, estraneo quindi al provincialismo culturale della nostra penisola; o forse perché quotidianamente si misura con un’altra lingua, razionale e dura come il tedesco. Le elogiative parole che gli dedica Davide Rondoni nella quarta di copertina suonano quasi inadeguate, minimaliste: «una possibile epica… la possibile letizia… misteriosa grazia e libertà…».
Qui in realtà siamo davanti a qualcosa di diverso e di nuovo, a un poeta che riesce a scrivere di una quotidianità fatta di gesti concreti, di osservazioni puntuali sulla realtà, rifiutando qualsiasi edulcorante retorica. I ritratti dei personaggi, ad esempio, che ce li restituiscono nella loro disarmata e compiuta interezza (l’ostetrica del paese, il giocatore di scacchi siriano…).
O i ricordi, mai autocelebrativi, mai nostalgicamente commossi: (il terrificante crocefisso della stanza dei giochi, il dopobarba del papà tornato dal suo lavoro in Africa, l’alba traslunata di Miami…). Italiano parte dalla vividezza di un particolare, per poi risalire con intelligenza descrittiva alla costruzione di un episodio in cui la poesia si cala proprio per la sua peculiare e straniante unicità. I versi raccontano squarci di vita vissuta, con la tranquilla limpidezza di una narrazione che sa farsi immagine quasi filmica, come nella descrizione di una notte nordica in cui gli addetti alla nettezza urbana spargono le strade innevate di sale e terriccio: «Rincasavo con lo sguardo sbilenco / ondulante tra i miei passi e le luci / delle poche finestre accese, quando // un camion evacuò ghiaia rombante / alle mie spalle…»
Uno stile molto personale, che aderisce al concetto, non si lascia sedurre dalle sirene di musicalità obsolete, o dai tentacoli di una tradizione asfissiante. E sa misurarsi con la storia, quella addirittura universale, tellurica, che osserva con l’intatto stupore e con la curiosità scientifica dello studioso: e con le storie private della sua esistenza, gli incontri, i viaggi, gli amori. Vicende sentimentali raccontate con asciuttezza ed ironia («Relazione lessicale, la nostra, mio melograno, / mio polipo, culinaria, hai sempre amato / una certa alchimia da fornello. / Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente / ternaria, indeuropea»), e autoritratti che nulla concedono al compiacimento egotistico: «Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut». Una volta tanto, quindi, nella nostra poesia, un autore non mette in primo le venerate pieghe e piaghe della sua anima, ma la scienza (ad esempio), scandagliata nei suoi esperimenti e laboratori, con studiata applicazione nei riguardi del mondo animale (granchi, ostriche, làdani, mustelidi, lombrichi…). La geologia, testimonianza evidente e innegabile della nostra insignificanza di fronte al rincorrersi delle ere («… il progetto orografico del Buon Dio…  il cuore lo fissai al testo dei miei fossili»). E soprattutto la storia del mondo, che tutto trasforma, macina, inghiotte, confonde. Come nel poemetto  I Mirmidoni, in cui un gruppetto internazionale di giovani in un caffè di Monaco amoreggia, spettegola, sbevazza: involontari eredi e professionali comparse dei guerrieri greci, spettrali nei loro scudi, gambiere, archi e spade. O nella prima sezione del volume, forse la più interessante, in cui si ipotizza (o si vagheggia?) un’ inarrestabile invasione di rospi, locuste o granchi giganti che da chissà quali sconosciuti antipodi dilaghi nel mondo occidentale, mettendo fine al suo degrado morale, civile e ambientale: «Popolo che muovi sotto le acque, prelibata / carne della distruzione, migrazione / disgiuntiva della ricchezza / bilancia del consorzio umano, inconsapevole / armata della storia, / moltìplicati, / perché la piaga sia piena e la punizione completa». Profezia visionaria di una lucidissima coscienza poetica.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

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GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, STROFE PER DOPODOMANI – EINAUDI, TORINO 2011

Quando la poesia ha davvero qualcosa da dire, da raccontare, allora trova sempre le parole più giuste per farlo. E sono parole oneste, ricche di echi interiori, e insieme specchi di vita concreta, reale, carica di pensiero ed emozione. Così sono i versi di questo volume di Durs Grünbein, sintesi di due raccolte pubblicate in Germania, tradotto con fedele originalità da Anna Maria Carpi: si tratta di un poeta che vivaddio non si vergogna di scrivere ancora poesia civile, di parlare della storia di tutti e della sua personale immersa però in quella del mondo, di celebrare l’amore senza retorica ma anche senza stanchezza, di tentare persino una definizione estetica della poesia: «Filosofia in metrica, musica / d’allegri salti / da parola a cosa. // La miglior guida, al momento dell’esodo da questa / notte umana». E tuttavia la scrittura rimane solo un surrogato della vita vera: «Fratelli, lo sapete, anche se a volte prende il volo un verso, / subito atterra. E nulla contiene la fossetta del mento. / Si dà per qualche istante che un cervello si stringa a un altro – / ma che c’è nelle sillabe se non io sono, io sono?» Eppure questo “io” del poeta sa farsi voce universale, sia quando racconta dei suoi nonni proletari, o delle sue vacanze sentimentali in un’Italia antica ed eterna («Se non era amore quello, noi non siamo mai esistiti»), o del parto difficile della sua bambina («Die so sehr Gewollte – la voluta tanto»). Ma soprattutto se narra, lui nato a Dresda nella DDR, e oggi residente a Berlino, dell’epocale trasformazione politica vissuta dal suo paese: «Com’era bello vivere quand’era tutto male, / case in rovina, sotto le betulle materassi a bollire. / Un’infanzia fuori Dresda fino all’occupazione di Praga… / E il sogno restaurava quel che fuori mancava. // Polvere o foschia o fuliggine – l’animo presto oppresso / dal paesaggio intorno, caratteri di piombo, stampa in grigio».

Un’infanzia bigia, in trappola, con ribellioni sognate in periferie operaie rassegnate e impaurite, senza dei e con scarse utopie «Che soluzione? Qualche trucco sì, si sapeva. / Poi passarono gli anni. Dell’umano restò l’idea, / non metà, non intero, una frazione», «Pesante l’aria, in compenso si stava più vicini. / Si mangiava male e abbondante». Era un universo, quello comunista di «dogmi arrugginiti»: «Be’ certo, gli affitti erano bassissimi». Ma adesso, nella Germania capitalistica e multiculturale, libera e impietosa? «La raccolta rifiuti è puntuale. Sia lode al sistema, / ora lo sciopero si chiama sciatteria. La città mette su pancia». Eccola, allora, «Berlino, questo mostro», «quest’alito di metropoli che desta compassione»: il poeta Gruenbein diventa «il testimone non richiesto», il «sopravvissuto» che afferma «A ogni rovescio mi è più familiare il mondo». Per cui il futuro si materializza in un dopodomani minaccioso quanto il passato, o addirittura irreale: «E’ il 40 d’aprile, un giovedì. / Compagno, il tempo è pazzo, / la paura ti attanaglia». I contorni del mondo si fanno incomprensibili, il suo progredire nel tempo imprevedibile e irreparabile, prendono piede il «distacco da me e da tutti gli altri», la moderata disperazione, l’aggrapparsi alle storie del mito, o all’incredibile leggerezza delle risate infantili. Perché noi, gli adulti, che ci illudiamo di fare la storia, di creare cultura, «dentro pesiamo come bolle di sapone», e il nostro io è ormai diviso. «Non parte da lui una crepa che attraversa il mondo?». Eppure il peso di queste lucide parole resta. La loro verità, anche se relativa, salva ancora. E hanno coraggio di continuare a pronunciarla, magari con meno ottimismo, ma con tenace ostinazione.

 

«Poesia» n. 268, febbraio 2012

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, LE PAURE CHE CI ABITANO– ROMENA, AREZZO 2011

Quante e quali sono le paure che abitano i nostri cuori, e ci chiudono al mondo, ci paralizzano, limitandoci nelle nostre espressioni, nei comportamenti, nella stessa adesione al semplice esistere?
Don Angelo Casati ne elenca undici, e a ciascuna di esse dedica riflessioni di «tenerezza e fermezza», come suggerisce la partecipe presentazione di Rosa Siciliano. Sono paure ataviche e accecanti, come quella di vivere o di morire. La prima ci blocca nell’affanno quotidiano, quando ci dimentichiamo che Dio si occupa di noi, ha cura delle nostre giornate ansimanti («il preoccuparsi è segno di stoltezza: puoi forse aggiungere un’ora sola alla tua vita?») Mentre dovremmo «ritornare a incantarci per l’oltre, per il volto che abita le cose e le fa dono… L’incantamento viene da un indugio, da una capacità di sostare… la fretta che ci consuma è parente stretta della voracità…» La seconda paura, che ha le sembianze dell’angoscia heideggeriana, e ha avvinto per poco lo stesso Gesù nel Getsemani, è la paura di morire, di non essere più, di finire con l’ultimo sospiro esalato. Per vincerla dobbiamo lasciare «lungo la strada il pomposo mantello dell’egoismo e indossare quello della compassione… L’amore non sta in una tomba, ha passi di vento…» Le parole delicate e convinte di Don Casati sanno rivestirsi di poesia, e infatti ogni capitolo del suo libro si apre con dei versi, che non hanno nulla della falsa bonomia di cui sono animate spesso le poesie religiose: sono drammatici e scabri, lontani da ogni retorica. Se dunque «neanche la morte, all’apparenza così vincente su tutto e tutti, può cantare vittoria sull’amore, ne esce sconfitta», ecco che ognuno di noi ha un motivo in più per non cedere alle altre paure: dell’inedito, dell’altro, di amare, di essere liberi, di pensare, dell’insicurezza. L’invito pressante dell’autore è a saper osare, innamorandoci della nostra libertà: dobbiamo sconfinare da noi stessi, imparare a essere visionari, superando le barriere delle architetture interne ed esterne ai nostri cuori. È questa libertà che il potere (anche quello ecclesiastico! aggiunge coraggiosamente Don Casati) teme: «meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti». Ma il volume affronta e demolisce anche timori meno scontati, come quelli della mitezza e della fragilità, «nella stagione dell’urlo» che viviamo e in cui «incenerire l’altro sembra ormai il sogno estremo». Eppure, il rabbi di Nazaret ( che è entrato a Gerusalemme su un umile asinello, che ha lavato i piedi ai discepoli…) ha promesso che saranno i miti ad ereditare la terra, cosa che spesso dimenticano anche le gerarchie della Chiesa: «Quando una chiesa dimenticò il grembiule e indossò le modalità dell’impero, cancellò dal mondo la notizia buona, divenne ovvietà sulla terra… fino a una sacrilega identificazione con le esibizioni, i riti, le macchinazioni del potere».

Ritrovare coraggio, quindi, e dolcezza consapevole: fidarsi di un Dio che è guida e tenerezza, amare la bellezza come anche la mancanza di bellezza, la luce come le ombre, il volto dell’altro anche quando è deturpato dalla povertà o dall’errore, fare «opera di detronizzazione dentro di sé». E amare con pudore e discrezione, senza invadenza, senza usurpare e travalicare i confini dell’anima altrui : «Anche nell’amore più forte e appassionato, riconosci la distanza». Vincere le paure per vivere più pienamente, più consapevolmente, il nostro mestiere di uomini e donne, con l’umiltà di affidarci a chi ci travalica e ci invita a superare i confini.
Un libro molto intenso, questo di Don Angelo Casati, da meditare e condividere con chi ci è vicino e possibilmente anche con chi è lontano da noi. Senza paura.

 

«Mosaico di pace», settembre 2011

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA FRAGILITA’ CHE È IN NOI – EINAUDI, TORINO 2014

La fragilità è un difetto, una colpa, la spia incontestabile di uno stato di precaria e instabile debilità?
Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra e fenomenologo di fama, le dedica questo prezioso volumetto pubblicato nella collana  Le vele  di Einaudi, da subito prendendo le sue difese: «La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi».

Fragile è il silenzio, espressione spesso di timidezza o incapacità comunicativa, e fragili sono anche le parole, inadeguati scandagli dell’anima propria e altrui. E quanto fragili, trepide e vulnerabili sono le emozioni che ci vivono dentro, siano esse positive come la gioia, la speranza e la grazia, impalpabili e transeunti, siano invece negative come la tristezza, la malinconia, la nostalgia, che oscurano gli orizzonti delle nostre giornate e i rapporti con gli altri. Eugenio Borgna riflette sulla natura della fragilità come esperienza interpersonale («… è il nostro destino… nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi»), e si addentra empaticamente con la sua decennale esperienza professionale negli stati fisici e psichici più segnati dalla fragilità: la malattia, in particolare quella mentale, nei suoi aspetti patologici e clinici.

La follia non è evento naturale bruciato dalla sua insignificanza, ma è esperienza storica ed esperienza sociale: non c’è follia nel regno animale. La follia non è qualcosa di estraneo alla vita: in alcuni fra noi essa si manifesta con grande intensità e con un diapason fiammeggiante di angoscia e di tristezza, di disperazione e di dissociazione; ma la follia nella sua radice più profonda è una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose, e con le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore. Il dolore e la stanchezza di vivere possono suggerire a chi soffre la strada definitiva del suicidio, seguita con severa determinazione dalla giovane poetessa Antonia Pozzi, o possono murare l’individuo nel «fine pena mai» dell’Alzheimer, malattia tuttora circondata «dal filo spinato del pregiudizio». E gli anni più scalfibili, le età dell’esistenza più aggredibili dal sentimento della propria inadeguatezza, sono secondo Borgna l’adolescenza e la senilità, «cittadelle assediate» da paure, sconfitte, solitudini, dipendenze emotive, subalternità ideologiche: periodi di vita non ancora sfruttabili o già totalmente sfruttati dal mondo produttivo e consumistico che ci condiziona tutti. Eppure, scriveva San Paolo nella Lettera ai Corinzi, «quando sono debole, allora sono potente». Come non riconoscere, infatti, una vittoriosa forza di resistenza in alcune esperienze mistiche solo all’apparenza inquiete e angoscianti, come quelle di Teresa di Lisieux e di Teresa di Calcutta, o nelle esili figure artistiche di Alberto Giacometti? E cosa ci può indicare la vulnerabilità del carattere femminile, più sensibile e introspettivo di quello maschile, capace di riconoscere non solo le proprie ferite, ma anche quelle altrui, quando riesce a trasformare con tenerezza «le relazioni umane, immergendole in atmosfere di accoglienza, e di non conflittualità»? La fragilità, conclude Eugenio Borgna, non è «una forma di vita inutile e antisociale, e anzi malata, e che non merita nel migliore dei casi se non compassione»: essa nasce «dalle falde più profonde e creatrici della nostra interiorità», ha l’inconsistenza di un sorriso, la sua gratuità, ma anche la sua profonda dolcezza e mite iridescenza.

 

«incroci on line», 14 dicembre 2014

RECENSIONI

MANFREDI-CORBO

GIULIANA MANFREDI e GEORGIA CORBO (a cura di), A PROPORRE BELLEZZA E UMANITA’.  I colophon di Alessandro Scansani – EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA, ROMA 2013

Giuliana Manfredi e Georgia Corbo hanno curato con passione e riconoscente amicizia questo elegante volume dalla copertina azzurra e dal formato oblungo, che propone ai lettori un omaggio all’intelligente e coraggiosa attività editoriale di Alessandro Scansani, morto precocemente nel 2011. Scansani fu il fondatore e l’anima pulsante delle edizioni reggiane Diabasis, nate nel 1988 con il nome de  Il Guado, che già indicava l’idea di attraversamento, come quello successivo, ellenizzante: il quale sta ancor più a indicare un progetto di peregrinazione intellettuale, e di raggiungimento di salvifici approdi. Questo libro, introdotto e concluso da due puntuali commenti di Elvio Guagnini e Maria Teresa Giaveri, offre testimonianza del lavoro svolto per 23 anni da Scansani attraverso la pubblicazione di centoventitré colophon, scelti tra i moltissimi che chiudevano tutti i libri delle sue edizioni. I colophon sono le poche righe finali in cui normalmente vengono citati la data e il luogo di stampa, o il nome della tipografia: Scansani ne aveva fatto un’arte particolare e gentile, non solo citando e ringraziando tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione del libro, e fornendo indicazioni preziose anche sulla carta e sui caratteri utilizzati, ma addirittura accompagnando queste note con un commento in similversi, una sorta di epigrafe che si trasformava in una minirecensione, utilizzando suggestive metafore, illuminanti immagini visionarie. Cosicché il catalogo Diabasis si arricchiva di gemme conclusive, dettate dalla sensibilità pudica di un editore che non solo amava profondamente la poesia, ma sapeva frequentarla in prima persona con discrezione e raffinatezza. Gli autori proposti dalla casa emiliana erano i più vari: da classici come Petrarca, Ariosto e Leopardi a poeti famosi come Paul Valéry, Sbarbaro, Biagio Marin, Roccatagliata Ceccardi, Paolo Bertolani (senza dimenticare l’avanguardia e Adriano Spatola, e altri autori meno noti ma ugualmente dignitosi); da narratori di fama mondiale come Camus ai nostri Cancogni, Tomizza, Pederiali, Silvio D’Arzo. Un’attenzione particolare era rivolta agli scrutatori d’anima, e ai percorsi spirituali di Kierkegaard, Mounier, Dossetti, Panikkar, Hans Küng, Martha Nussabaum, Nicolas Bouvier, nel loro aprirsi al confronto con tutte le religioni. Scansani li commentava così: «il variare delle forme / l’orizzonte diverso delle attese / e la ricerca di risposte altre», e così: «ferita mortale per Dio / e per la morte / tra la fine e l’inizio / dei tempi…». Altrettanto rispettoso interesse veniva rivolto agli studi sociali e ambientali (arte, architettura, fotografia, storia, urbanistica, salute, femminismo, razzismo e multiculturalismo), che sapevano coniugare insieme rigore intellettuale e passione politica, e si valevano di illustri prefatori: Galante Garrone, Asor Rosa, Mario Lavagetto, Paolo Prodi, Edgar Morin, Luigi Covatta… Ad ogni volume si accompagnava un colophon particolare, sempre caratterizzato da profonda empatia e acutezza critica:  «Lungo / le infinite cesure / del nostro tempo / nel futuro smarrito / dell’utopia e nell’ossessione / della memoria…», «e la poesia / cerca il filo dei suoi labirinti…», «Nel blu / profondo / imperfetto e incerto / della creazione vissuta / dove la Bellezza / si misura e sborda», «nella primavera maudite di una povera Italia / a proporre bellezza e umanità / in versi che durino…».

Scansani nutriva in sé la consapevolezza del dovere etico di una scrittura che sapesse farsi eleganza formale senza dimenticare la sua responsabilità di educazione civica, di impegno politico, e nello stesso modo conosceva e amava gli autori che proponeva in lettura, come si evince dalle righe dedicate a uno scrittore a lui caro, nato e morto nella sua Reggio Emilia, Giorgio Messori: «autore così assoluto e discreto / da rischiare in vita l’invisibilità». Un libro da conservare con cura e gratitudine, questo dedicato ai colophon di Diabasis, che bene evidenziano, come scrive nella postfazione Maria Teresa Giaveri, «il rapporto fra quell’amore della parola che genera poesia e quell’appassionato rispetto delle parole altrui che genera programmi editoriali».

 

«incroci on line» 10 novembre 2014

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